Il 20 e 21 settembre si voterà anche per il Referendum Costituzionale: dovremo dire SI o NO alla Legge che ha ridotto il numero dei Parlamentari previsto dalla Costituzione.

Io voterò NO senza nessuna esitazione.
So bene che la “casta degli anti casta” riuscirà – con ogni probabilità – a far prevalere il SI.

Ma ci sono buone battaglie che devono essere combattute.
Il mio NO è innanzitutto nel merito della questione.
Certo che la democrazia italiana potrebbe funzionare anche, se non meglio, con un terzo in meno degli attuali Deputati e Senatori.

Ma ciò a condizione che nello stesso tempo siano riviste le funzioni di Camera e Senato (oggi, come sappiamo, del tutto identiche) e che siano adeguate a tale scelta sia la Legge elettorale, sia le regole di garanzia e di equilibrio del sistema.
Nulla di tutto ciò è compreso nella abborracciata riforma oggetto di Referendum, che si limita a fissare il nuovo numero dei Parlamentari, senza minimamente occuparsi dei veri punti critici del funzionamento delle Istituzioni. Mentre sulla Legge Elettorale è nebbia fitta.

Ciò provocherà effetti distorsivi e pericolosi sulla rappresentanza dei territori e delle formazioni politiche meno grandi. La democrazia non è solo quantità, ci avevano insegnato invece i Padri Fondatori.

Il mio NO è, nel contempo, un NO alla cultura anti politica e anti parlamentare che ha ispirato questa decisione e che viene sbandierata per promuoverla.
È un vento che tira forte da anni in Italia: frutto – certo – degli errori delle classi dirigenti e della incapacità del sistema di rinnovarsi e di recuperare credibilità, efficienza, semplicità e autorevolezza. Ma deriva, anche, da una campagna pervasiva che, ad ogni livello politico e mediatico, punta non ad ammodernare, come sarebbe giusto ed urgente, ma a svuotare i principi della democrazia rappresentativa.

Vi è – sottostante ed insidiosa come un virus per ora senza vaccino – l’idea di corrispondere alla crescente individualizzazione dei bisogni sociali non già con la ricostruzione di uno spirito di comunità democraticamente organizzata, ma con un rapporto diretto e non mediato tra individuo e potere. Un individuo sempre più solo ed un potere sempre più concentrato, che si nutre di demagogia più che di consenso responsabile.
Il mio NO, infine, è anche una reazione alla ormai insopportabile banalizzazione imperante nella vita pubblica italiana e nel suo attuale gruppo dirigente, con le sue mancate verità e comode mezze bugie.

Il Paese, così, va incontro ad un pericoloso declino civile, sociale ed economico.
Ha scritto in questi giorni Marco Bentivogli, rivolgendosi a chi ritiene inesorabile la vittoria del SI: “Avete ragione, si vince se si è tiepidi sull’obbligatorietà dei vaccini, le assunzioni degli insegnanti senza concorso, se si tollera un po’ di lavoro nero, di evasione fiscale, di furbate varie, su assistenzialismo, statalismo e sussidi. Se si è cauti a dire ad un terrapiattista che è un demente. Se si promette a chi è in un’azienda in crisi di essere comprati dallo Stato. E’ vero, le persone preferiscono essere ingannate un po’. Ma si vince il fallimento di un paese.”
Sono pienamente d’accordo.

Il populismo demagogico non si può assumere a dosi omeopatiche. Se lo accetti, ne diventi prigioniero.
Parafrasando le parole di Valdes, storico dirigente della DC cilena, peraltro ancora oggi piuttosto indovinate (“se vinci con la destra, è la destra che vince”), possiamo dire che “se vinci col populismo, è il populismo che vince”.

È tempo di farcene una ragione e di reagire. Come non dirlo proprio oggi, sessantaseiesimo anniversario della morte di Alcide Degasperi, l’anti populista per eccellenza?