100 ANNI DALLA MARCIA SU ROMA: IL PASSAGGIO DEI POPOLARI DALLA CAUTELA ISTITUZIONALE ALLA ROTTURA ANTIFASCISTA.

Pubblichiamo qui di seguito, per gentile concessione dell’autore e degli organizzatori, la parte conclusiva della relazione che egli terrà oggi in occasione del convegno su “100 anni dalla marcia su Roma: Popolari e Socialisti alla prova del fascismo”, organizzato dal Centro Culturale Francesco Luigi Ferrari in collaborazione con l’Istituto Storico di Modena e il Comitato per la Storia e le Memorie del Novecento del Comune di Modena. Al testo completo, con una diversa numerazione delle note, si può accedere cliccando sul link posto in fondo alla pagina.

 

Sturzo aveva compreso come il tornante del primo dopoguerra fosse difficile. La fine del conflitto aveva aperto una fase di complessa decifrazione. Commentando la nota pontificia dell’agosto del 1917, quella famosa per la definizione di “inutile strage” coniata dal pontefice, aveva detto che ai popoli: «nella grande rigenerazione che verrà dopo la guerra è segnato dal Vaticano il cammino dell’avvenire in una società delle nazioni, che non può essere basata che sulla democrazia e sul cristianesimo insieme».

Era conscio cioè che si sarebbe aperta una stagione di rivendicazione popolare, profonda e sostanziale, sia interna che internazionale come ribadì a Milano nel novembre del ’18: «Il suolo della vecchia Europa è percorso da profonde trasformazioni, delle quali conosciamo la superficie turbata e impura».

Ciò rappresentava la premessa per ciò che purtroppo sarebbe in seguito accaduto. Sturzo tornerà su tali problemi nei giorni difficili del 1922. 

Prima a Firenze, in gennaio, dove individuava come caratteristica principale e non transitoria del fascismo la violenza. Il fascismo, infatti, nell’analisi che il sacerdote calatino portava, in quanto fenomeno politico conosceva come veramente proprio il tema della violenza. Ciò rappresentava qualcosa di sostanziale che poteva essere anch’esso transitorio ma che, ricordò, 

«Se tale non sarà, se invece si estenderà, non può non rilevarsi come lo stato sia impotente, come i suoi organi funzionino male; e come una profonda causa dia alimento a questo pullulare e svolgersi di forze antistatali che tendono ad investire i valori morali e giuridici, sì da far valutare come nuova fonte del riordinamento sociale coloro che intendono ottenere con la violenza privata».

Veniva ribadita, anche perché strutturale alla visione popolare, la necessità di veicolare tutto nell’alveo statale di una costituzionalizzazione dei processi politici (su questo aspetto insisterà, analizzando il fascismo, anche Ferrari) in modo da allontanare la violenza e costruire in organicità e libertà uno Stato riarticolato secondo una partecipazione cosciente e popolare.

Non perché, disse, credeva che gli istituti in se stessi avessero una forza taumaturgica: «non credo che i regolamenti valgano più degli uomini», ma perché quando un istituto invecchiava bisognava trasformarlo, «altrimenti non si ha più il mezzo adatto per svolgere l’attività o per attuare le direttive delle grandi correnti ideali». Mi si passi la metafora, non si poteva versare vino nuovo in otri vecchi.

Ciò si precisava qualche mese dopo la marcia su Roma, parlando a Torino in dicembre. Un discorso complesso, in cui emerge la sostanziale sfiducia verso il fascismo e Mussolini sia per motivazioni interne al movimento fascista stesso sia per ragioni esterne, per un difetto di visione e di costruzione di pensiero che veniva risolto tutto nell’organizzazione della forza e nella pratica di essa.

La partita si giocava ancora, nell’attesa nervosa di come la situazione si sarebbe evoluta (nel frattempo, come ricordato, i popolari erano entrati nel primo governo Mussolini), all’interno della riperimetrazione, delle ridefinizione e del rinnovamento dell’architettura e dei compiti sia dello Stato nella sua struttura interna ed esterna (nella promozione di una effettiva autonomia amministrativa come parte fondante dell’unità nazionale), sia nel quadro di una rivalutazione, nella modifica, del ruolo della Camera nel quadro, disse, di uno Stato accentratore e burocratico che mostrava la corda: «E quando Mussolini chiama questa camera sorda e grigia e la svaluta col suo gesto, ha ferito una rappresentanza ma ha colpito l’effetto e non la causa».

Un governo fascista sarebbe stato il prodromo di uno Stato fascista? La domanda aleggiava nella classe dirigente popolare. Senza un programma antitetico al passato, nella paralisi di un corpo disfatto come quello della vecchia classe dirigente liberale e democratica, scriveva Sturzo si sarebbe trattato di un «colpo di Stato».

Il testo sembrava però una riflessione d’attesa, come detto. Una aspettativa nervosa che appariva porsi in continuità con gli assetti precedenti e che doveva ancora «sboccare in un tentativo di abbattimento e di ricostruzione statale». Sovraintendeva a quei giorni l’idea che parlamentarizzare la crisi, produrre un processo di riforma dello Stato, secondo libertà e democrazia, e della Camera nel quadro della ricerca di una pacificazione nazionale, avrebbe generato un “assorbimento” e una edulcorazione del tentativo mussoliniano e della presunta “rivoluzione fascista”. Non secondo la prospettiva giolittiana. 

Era un po’ l’incanto che aveva preso una parte della classe dirigente del paese. Va detto che Sturzo già qualche mese dopo, ad aprile del 1923, intervenendo al Congresso di Torino del Partito aveva spezzato questa illusione e aveva “disincagliato”, con l’aiuto della sinistra interna e in particolare di Francesco Luigi Ferrari, come ha ricordato Gabriele De Rosa, il Partito dalla collaborazione con il governo Mussolini. 

Un Congresso difficile dove il dibattito fu condizionato dalla collaborazione fra i popolari e il governo. La genesi dell’incontro risentiva anche della nascita dell’Unione nazionale, che rappresentava il tentativo di ambienti cattolici filofascisti di provocare una scissione in seno al partito.

De Gasperi tenne la relazione sul tema distinguendo fra collaborazionismo e collaborazione: «Collaborazionismo è una tendenza, collaborazione uno stato di fatto». Egli insistette sulle responsabilità di governi deboli e flaccidi, disse, nel permettere che si preparasse un’insurrezione armata e nel rendere quasi «con la loro debolezza, spiegabile anche per chi non la possa giustificare».

Il tema a suo parere si focalizzava sulle necessità di spostare il pendolo della situazione, e del movimento mussoliniano, dall’estremismo verso il «centro equilibratore temperando e regolando il moto iniziale».

Soprattutto tenne a specificare come si trattasse di una collaborazione condotta secondo criteri dinamici: «Un problema del divenire politico i cui termini si spostano non solo secondo la maggiore o minore convergenza di volontà nei collaboratori, ma anche per le modificazioni che subiscono le condizioni di fatto, nelle quali la collaborazione è tentata o attuata». 

Anche se aveva ammesso che di fronte al reincarico a Facta forse il Partito avrebbe dovuto, per logica, stare in disparte, ma ci si era piegati in qualche modo per, disse, «una profonda concezione di civica morale»

Ferrari incalzò i dirigenti affermando che la collaborazione si poneva fuori dalla realtà sia in termini politici che generali, secondo temi che affronterà anche nella ricostruzione della dittatura nel testo “Il Regime fascista italiano”. Disse infatti che l’azione del nazionalismo fascista contrastava i reali interessi dell’Italia non tanto in politica estera quanto in quella interna ed economica: «Il nazionalismo fascista ha distrutto e sta ricostruendo, attivamente ricostruendo. La sua ricostruzione viene però fatta contro di noi, contro le nostre idee, e, quel che più conta, contro il vero interesse del paese».

E anche in questo caso l’intervento di Sturzo – effettuato prima di quello di Ferrari – facendo leva sulla irriducibile differenza fra la concezione dello Stato popolare e quella del fascismo, negava la sostanza politica e istituzionale di una tale collaborazione: 

«Siamo sorti a combattere lo Stato laico e lo Stato panteista del liberalismo e della democrazia; combattiamo anche lo Stato quale primo etico e il concetto assoluto della nazione panteista o deificata, che è lo stesso. Per noi lo Stato è la società organizzata politicamente per raggiungere i fini specifici; esso non sopprime, non annulla, non crea i diritti naturali dell’uomo, della famiglia, della classe, dei comuni, della religione; solo li riconosce, li tutela, li coordina, nei limiti della propria funzione politica. Per noi lo Stato non è il primo etico, non crea l’etica, la traduce in leggi e vi dà forza sociale; per noi lo Stato non è libertà, non è al di sopra della libertà; la riconosce e ne coordina e limita l’uso perché non degeneri in licenza. Per noi lo Stato non è religione; la rispetta, ne tutela l’uso dei diritti esterni e pubblici. Per noi la nazione non è un ente spirituale assorbente la vita dei singoli; è il complesso storico di un popolo uno, che agisce nella solidarietà della sua attività, e che sviluppa le sue energie negli organismi, nei quali ogni nazione civile è ordinata».

Ciò sarebbe costato a Sturzo la definizione di “nemico” da parte del giornale fascista e di lì a poco più di un anno l’esilio, nelle difficoltà di un Partito, comunque sotto attacco dalle squadre fasciste, che sarebbe stato sciolto dal regime, al pari delle altre forze democratiche.

Ricorderà in seguito la sua contrarietà alla collaborazione, pur cercando di individuarne la ragione «nella speranza di contribuire al ritorno della libertà e normalità civile»

A conclusione vorrei citare quanto scrisse De Gasperi a Sturzo, che risalta a mio giudizio come memoria secondo una riflessione formulata post res perditas, e in quanto tale va comunque trattata con le cautele del caso, della difficoltà della politica di fronte alle complessità di governo e alle responsabilità degli uomini, con limiti e pregi, in periodi complicati oltreché come riferimento diretto a quei giorni difficili: «Se nel 1922 avessimo previsto il totalitarismo fascista, non credi che saremmo stati più cauti nell’attaccare lo stato liberale?».

 

Giorgi – Marcia ‘22 (1)