Il traguardo di un nuovo umanesimo è possibile. L’Europa contribuisca a scrivere le regole del mondo globale.

Il discorso del Presidente del Parlamento europeo, tenuto al Meeting di Rimini il 22 agosto, è un invito a credere nel rilancio a livello continentale (e mondiale) di politiche di solidarietà e di sviluppo dopo la crisi indotta dalla pandemia. Un ruolo importante può svolgerlo l’Italia, a patto che rafforzi la linea della stabilizzazione, connessa a una intelligente e coraggiosa strategia di riforme, che vede al centro l’impegno del capo del governo, Mario Dragni.

 

David Sassoli

 

Come avviene da tempo, il Meeting ci invita a riflessioni profonde. E soprattutto a cogliere le dinamiche che la contemporaneità sviluppa proponendoci scene inedite e sempre più complesse. Lo stesso tema dato alla vostra kermesse – “il coraggio di dire io” – si presta a diverse considerazioni a seconda dell’ambito in cui si declina il desiderio di rafforzare la nostra responsabilità, di non comprimere l’originalità di ogni persona, di aumentare la partecipazione alla vita sociale.

 

Non sfugge a nessuno che la crisi del Covid, così drammatica e profonda, costituisca uno spartiacque fra un mondo che ci è noto, che abbiamo imparato a conoscere, e una scena nuova che ancora facciamo fatica a immaginare, a interpretare e nella quale identificare la nostra presenza. Molto ancora ci sfugge. Capiamo che la moviola della Storia non si possa riavvolgere e farci tornare al mondo di prima, ma al tempo stesso vi è un senso di inquietudine che impedisce ancora di scrivere pagine nuove per un tempo nuovo.

 

Non dobbiamo avere paura della crisi. Non dobbiamo rassegnarci a una opportunistica passività. Questo è un tempo di pericoli inediti, ma anche di straordinarie opportunità perché tutto quello che abbiamo costruito nella seconda parte del Novecento sviluppando democrazia e libertà è chiamato a confrontarsi con processi globali complessi e rischiosi. La nostra idea di persona, di inviolabilità della vita umana, l’affermazione di diritti universali, l’ispirazione allo sviluppo integrale della persona sono gli ingredienti con cui noi ci presentiamo alle nuove sfide. Saranno sufficienti? Il traguardo di un nuovo umanesimo è possibile, ma non scontato.

 

Dobbiamo ringraziare il presidente della Repubblica, Mattarella, che proprio qui al Meeting, ha rilanciato in apertura la necessità di aggiornare il nostro “personalismo”.

 

Abbiamo bisogno di un pensiero all’altezza della sfida della contemporaneità. E insieme abbiamo bisogno di testimoni in carne e ossa, di coerenze individuali, di storie di vita, di amicizia, di solidarietà. Il magistero di Papa Francesco è molto impegnativo per i cattolici, e non è un caso che qualcuno – anche tra i cattolici, va detto – si metta nella posa del giunco che attende il passaggio dell’onda di piena. La radicalità evangelica è più forte di una dottrina e interroga nel profondo le nostre coscienze, ci chiama ad essere fedeli nella quotidianità, nell’incontro con l’altro, con chi è più debole, e insieme ci sfida ad essere nella storia con l’animo dei costruttori.

 

D’altronde, è il dono – non l’egoismo, come sostenuto da un liberismo che si presume egemone – il dono è l’energia che costruisce le comunità. Che le rende più forti. L’idea di persona è indissolubilmente legato a quella delle formazioni sociali, dei mondi vitali, delle comunità intermedie. La libertà non è mai divisibile. Non c’è libertà personale senza la libertà del vicino. Non c’è libertà se accanto a noi c’è sfruttamento, dipendenza, servitù. Non c’è libertà della persona senza la libertà delle comunità. Ha scritto Edgar Morin, che ha appena compiuto 100 anni ma non smette di aiutarci a riflettere, che “l’unica cosa in grado di proteggere la libertà è la presenza costante, nello spirito dei suoi membri, della loro appartenenza solidale a una comunità e di un sentimento di responsabilità nei confronti di questa comunità”.

 

La pandemia ci dice molte cose su noi stessi. Ci ha fatto capire quanto dipendiamo dagli altri, ma anche quanto sia possibile riconnettere la politica con la persona. Ci ha mostrato con chiarezza quali strumenti siano idonei ad affrontare le sfide nuove e nello stesso tempo dove siamo fragili, inefficaci. Ci dice in cosa la nostra democrazia europea deve migliorare e dove il rapporto fra Unione Europea e Stati nazionali debba cambiare.

 

Le lezioni del Covid sono tante, non mettiamole in cassetto.

“Prima la persona” è ancora alla nostra portata e nessuna sfida, nessun confronto geopolitico, nessuna crisi può derubarci di questa voglia di proteggere la nostra identità. Basta sapere, però, che non possiamo farlo da soli, come abbiamo fatto nel secondo dopoguerra, o come abbiamo creduto fosse possibile al solo Occidente bastando a se stesso.

 

Siamo fiduciosi perché l’azione di contrasto alla pandemia in Europa poteva portare ad un corso delle cose molto diverso senza le scelte che sono state fatte.

 

Senza l’Unione europea avremmo avuto conflitto fra le Nazioni sulla ricerca dei vaccini, sulla politica sanitaria, sull’assistenza a chi si è trovato senza lavoro, avremmo compromesso Schengen e rialzato le frontiere interne, non avremmo potuto condividere il debito, non vi sarebbe stato un poderoso sostegno alle economie nazionali.

 

La tragedia ha provocato una vera rivoluzione nella risposta europea. Una rivoluzione in 5 passi. Riepiloghiamole.

 

Primo, le regole del fiscal compact sono state sospese fino al 2022 e si sta ragionando sullo scenario post Covid. Abbiamo bisogno di regole nuove. Secondo, con l’azione europea gli Stati nazionali hanno aumentato sensibilmente il loro rapporto debito/PIL per difendere famiglie e imprese dallo shock economico e sociale prodotto dalla pandemia. Terzo, abbiamo vissuto il paradosso di non aver mai avuto a disposizione tante risorse per investimenti come in un momento di crisi come questo. Di fatto una forma di condivisione del rischio tra paesi membri che prima della pandemia era rigidamente esclusa. Quarto, le Banche centrali hanno acquistato fino al 25% dei titoli pubblici dei paesi membri (la BCE pianifica se necessario di arrivare fino al 33%) evitando in questo modo che l’aumento del debito si trasformasse in crisi degli spread sui mercati finanziari. Di fatto l’impegno all’acquisto dei titoli da parte della BCE ha reso il debito sostenibile, nonostante l’aumento del suo rapporto con il PIL e mantenendo i tassi d’interesse e i rendimenti dei titoli molto bassi. Quinto, tutto questo è stato possibile in cambio di condizionalità sull’uso dei fondi. Le risorse del PNRR vanno spese avendo a mente obiettivi precisi (digitalizzazione e transizione ecologica) e tempi certi definiti dall’Unione Europea.

 

L’esperimento ha avuto pieno successo. Famiglie e imprese sono state tutelate per quanto possibile rendendo questa crisi molto diversa da quella del 2009. La rivoluzione macroeconomica, come la chiama il professor Becchetti, fa sì che le risorse siano state disponibili e che il conto sia stato e sarà più leggero grazie all’aumentato attivismo della BCE e alle emissioni comuni di titoli. Nel 2009 la crisi finanziaria bruciò risparmio privato, colpì asimmetricamente solo il Sud dell’area euro e non fu consentito contrastarla con politiche fiscali e monetarie espansive. Oggi la crisi è stata simmetrica, tutti i paesi UE hanno solidarizzato tra loro consapevoli di trovarsi sulla stessa barca, le politiche monetarie e fiscali aggiuntive hanno evitato la distruzione di risparmio e messo a disposizione risorse monetarie (i depositi bancari in Italia sono cresciuti di quasi 90 miliardi) che sono il carburante della ripresa che stiamo osservando.

Siamo entrati insomma in terreni inediti e ora che abbiamo scoperto che gli equilibri macroeconomici reggono sarebbe una follia tornare indietro. Pensiamo solo a cosa vorrebbe dire restaurare l’obiettivo del Fiscal Compact e obbligare i nostri paesi a convergere su un rapporto debito/PIL del 60%. Si ucciderebbero famiglie e imprese; si strozzerebbero tutti gli Stati nazionali; si metterebbe in ginocchio l’Unione.

 

È pertanto essenziale che i cinque passi vengano confermati. E qui la questione diventa molto politica perché la vera sfida – e già vediamo molti ambienti scommettere su un ritorno alle regole di prima – sarà prendere coscienza che ciò che è stato fatto durante la pandemia deve diventare la nuova politica economica dell’Unione.

 

Per questo, una domanda è d’obbligo: queste risorse, queste politiche messe in atto dall’Unione europea dovranno concludersi con la fine dell’emergenza sanitaria ed economica, come chiedono alcune forze liberiste e conservatrici, oppure le energie dispiegate nella lotta alla pandemia e alla crisi sociale da essa generata dovranno trasformarsi in una nuova impalcatura di politiche pubbliche europee, e di conseguenza anche in un rinnovamento istituzionale dell’Europa comunitaria?

 

La risposta a questa domanda non è un gioco enigmistico. E’ la questione da cui discendono le altre questioni. Dalle conclusioni che trarremo dipenderà anche la nostra capacità di affrontare il mutamento climatico e il grande progetto di riconversione verde al quale abbiamo legato lo sviluppo dei Paesi europei nei prossimi decenni. E non solo. Confermare le scelte fatte, farle diventare permanenti, consentirà all’Unione di assumere personalità politica nella scena internazionale.

 

Se non si fossero abbandonati gli strumenti, le regole e i paradigmi in vigore solo due anni fa saremmo stati in partita in questi mesi così drammatici?

 

Questa è la grande, storica, sfida che abbiamo di fronte. La svolta compiuta con il Next Generation EU ci dà una grande chance: far mettere radici ad una nuova politica europea di crescita e sviluppo per tutti. Nei prossimi due/tre anni, dunque, ci giochiamo le nostre possibilità nei prossimi vent’anni. Non sfugge a nessuno che il successo e l’insuccesso dipenderanno molto dall’Italia.

 

Se il nostro paese dimostrerà di utilizzare in modo virtuoso i soldi del PNRR, la nuova politica economica potrà affermarsi e i 5 passi fondati sullo scambio di politiche espansive, condizione del rischio, interventismo della BCE in cambio di condizionalità e uso appropriato delle risorse potranno garantire la scrittura di una pagina nuova dell’esperienza europea e consentire di affrontare i rischi e le incertezze del mondo nuovo con responsabilità e coerenza. Un fallimento costerebbe molto caro all’Italia e al progetto europeo.

 

Chi pensa di mettere tra parentesi quanto accaduto, di chiudere tutto in un’emergenza, per tornare alle politiche di prima, rischia di far piombare l’Europa in una crisi strutturale dagli esiti molto negativi. La sfida di questo tempo ci pone, insomma, di vivere questo crinale della Storia abbandonando la logica emergenziale.

 

É vero che siamo partiti da una emergenza ma ora possiamo progettare la nuova Europa. E una Italia rinnovata in una Europa rinnovata. Questo è il vero bandolo della matassa di questa fase politica. Questa è la priorità della nostra agenda. Abbiamo un governo a cui chiediamo stabilità. Questa, certo, è la premessa di tutto. Un governo che non è espressione di una formula politica tradizionale. Ma sarebbe sbagliato racchiudere la sua esperienza in uno stato d’eccezione temporalmente limitato. Se la partita più importante, quella decisiva, si gioca in Europa, è con l’Unione europea che vanno sincronizzati i tempi delle politiche nazionali.

 

E lo stesso concetto di stabilità non può ridursi ad esorcizzare momenti di crisi. L’interesse del Paese – che a mio giudizio coincide con il più autentico interesse europeo – è che il cambiamento dell’Europa si radichi, diventi strutturale, e molti degli strumenti adottati diventino permanenti. Ecco perché ritengo che la missione del governo non possa esaurirsi nel completamento della vaccinazione e nell’avvio del Pnrr – impegni molto importanti – ma debba riguardare la stabilizzazione della svolta europea.

 

La stabilità italiana è un progetto politico, non solo una condizione per affrontare una stagione difficile.

 

La stabilità ha senso perché serve a consolidare la svolta avvenuta in Europa, e di conseguenza nelle nostre politiche nazionali di bilancio, di investimento, di coesione sociale.

 

Prima della pandemia a governare le istituzioni europee vi erano regole e indirizzi che penalizzavano la solidarietà in nome di un rigore, spesso astratto, ingiusto, che ha prodotto forti diseguaglianze, che ha frenato lo sviluppo, e dunque la crescita del Continente nella competizione globale.

 

Rendere stabile, e dare radici, al cambiamento iniziato con il Green deal e rafforzato dagli strumenti posti in essere nell’azione comunitaria di contrasto alla pandemia, è dunque la vera strategia di cambiamento.

Potremmo permetterci di dire che conclusa l’emergenza – quando neppure l’emergenza sanitaria è conclusa – l’Europa possa tornare quella di prima?

 

Molti di noi, invece, sono convinti che il Green deal debba dispiegare i suoi effetti, l’unione fiscale e bancaria debba prendere nuove forme istituzionali, più comunitarie, con meno poteri di veto e maggiori sinergie tra Paesi che condividono valori di libertà e democrazia, che lo spirito di solidarietà possa consentire di sviluppare politiche comuni utili a nostri paesi e alle nostre opinioni pubbliche.

 

Se l’Europa rafforzerà le società e le comunità in termini di sviluppo e coesione, avrà più forza per affermare nel mondo i valori civili e democratici che sono parte della nostra stessa identità.

 

Nei giorni scorsi sono stato in Lettonia, Lituania e Estonia, paesi baltici alle prese con un duro confronto per l’integrità delle nostre frontiere. Il tema dello sicurezza dello spazio europeo, minacciato da guerriglie ibride o attacchi informatici che tentano di condizionare le nostre democrazie, è una priorità che non possiamo scansare voltandoci dall’altra parte. E lo stesso non possiamo fare rispetto alle crisi umanitarie che chiedono di noi nel Mediterraneo o adesso in Afganistan.

 

È chiaro che la drammatica crisi afgana riguarda anche l’Europa. La sconfitta dell’Occidente mette in discussione la nostra identità nel contesto globale. Ma non possiamo diventare spettatori sconcertati e impotenti. L’indignazione diffusa tra noi, i timori legati alle scelte dei nuovi governanti, le coscienze ferite dei nostri popoli rischiano di disperdersi nell’aria senza una assunzione di responsabilità comune dell’Unione. Non si tratta certo di separare le due sponde dell’Atlantico, al contrario si tratta di comporre un nuovo equilibrio in cui l’Europa riesca finalmente a mettere in comune ciò che finora non ha fatto, o ha fatto solo in minima parte: la politica estera e la difesa.

 

In attesa di capire meglio quali saranno i passi da compiere nei confronti delle nuove autorità afgane pensiamo sia un valore etico irrinunciabile fare ogni sforzo per garantire sicurezza a tutti coloro che in questi 20 anni hanno collaborato con noi e hanno creduto in noi. Se crediamo, come crediamo, alla forza della diplomazia saremo sempre disponibili al dialogo anche con coloro che sono molto distanti da noi. A tendere la mano però serve essere in due. Non basta volersi sedere a un tavolo se non si accomoda anche la controparte.

 

Dobbiamo sapere, comunque, che la nostra capacità di risposta dipenderà dal grado di solidarietà che sapremo dimostrare al nostro interno nel costruire politiche europee comuni. Senza una politica sanitaria europea non sarà possibile affrontare in futuro le nuove emergenze che arriveranno; senza una politica della sicurezza comune saremo fragili ed esposti alle minacce dei regimi autoritari; senza una chiara politica europea non potremmo sostenere il confronto commerciale con la Cina; senza una politica europea per l’immigrazione e l’asilo non saremmo in grado di affrontare sfide che nei prossimi anni dal Sahel all’Asia vedranno in movimento milioni e milioni di persone che guarderanno all’Europa come terra del loro rifugio.

 

L’Italia in tutto questo ha un ruolo decisivo per la conformazione e per il destino dell’Europa e la sua stabilità ne è un pre-requisito nel breve e nel medio periodo. Non dobbiamo dimenticarlo mai.

 

Siamo partiti dalle nuove sfide a cui ci chiama il mondo globale, dalle inquietudini rispetto alla complessità dei problemi, ai rischi e alle pressioni a cui siamo sottoposti. Ma come sempre, tutto si tiene. A noi europei oggi è chiesto di partecipare a scrivere le regole del mondo globale. E ne abbiamo la possibilità perché siamo ancora in grado di connettere la responsabilità individuale ad uno spazio plausibile, e questo spazio è la dimensione europea. Lo avevamo capito anche prima della pandemia, e ne avevamo parlato anche qui al Meeting due anni fa. Oggi il Covid ha reso più evidente che solo la sovranità comune europea può consentire di dare senso e respiro alla sovranità nazionale.

 

Il “coraggio di dire io”, per me, chiama ad una forte responsabilità individuale e collettiva. E alla consapevolezza che noi europei siamo chiamati ancora una volta a partecipare ad una grande opera di liberazione dell’uomo.