Riproduciamo un’ampia parte dell’intervista di P. Francesco Occhetta al Direttore generale di Federcasse apparsa sul sito dell’associazione “Comunità di connessioni”. In fondo riportiamo il link per accedere al testo integrale della conversazione.

Sergio Gatti è sposato con tre figlie. Direttore generale di Federcasse, è consigliere ABI, vice presidente Fondosviluppo, vice presidente Comitato Scientifico-organizzatore Settimane Sociali Cattolici, co-fondatore Scuola Economia Civile e Docente a contratto Università Cattolica. È anche membro del CdA OPBG dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù.

Lei è Direttore generale di Federcasse, l’Associazione delle 250 banche di credito cooperativo. Dal suo punto di osservazione, quello delle banche di comunità e in generale dell’economia civile, che lettura fa dello scenario postpandemico?

Ci sono, direi, due elementi che chiedono attenzione. Come sappiamo, questa pandemia ha allargato le differenze, anche tra i continenti. È quindi fondamentale non dimenticare che la macro-leva per ridurre le diseguaglianze è il lavoro. Per essere creato, il lavoro – sia autonomo che dipendente – ha bisogno di investimenti e gli investimenti si fanno ancora oggi al 90% con il credito bancario. Esistono, certo, forme anche più innovative che speriamo possano prendere piede, ma il credito bancario resta fondamentale. Il primo elemento è che non bisogna dimenticarsi della centralità del dell’industria bancaria come infrastruttura fondamentale delle economie, e non solo nelle emergenze. Nei momenti più grigi della pandemia, durante le chiusure totali, la componente del sistema finanziario che si dà per scontato, quello dei pagamenti, è andata avanti. Senza denaro contante e, ancora di più, senza moneta elettronica, il sistema ospedaliero e quello della distribuzione, ad esempio, si sarebbero bloccati. È un fatto che non possiamo osservare restando in superficie. Non possiamo dare per scontate le regole che disciplinano questa infrastruttura complessa e molto ramificata né ignorare chi sono i proprietari, perché è a seconda delle regole e dei proprietari che possiamo capire il grado di libertà reale dei cittadini o di concentrazione del potere. Noi vediamo che tutto ciò che è big (big tech, big pharma, big oil, ecc.) tende a restringere la cerchia dei decisori: questo non deve avvenire nel settore del credito, proprio perché non si può “essere costretti” a delegare la gestione del proprio risparmio a qualcuno che ha sicuramente le carte in regola per gestirlo bene, ma che ha anche interessi variabili, che è lontano geograficamente, che non può avere a cuore il destino dei territori. Lo dimostra la chiusura di filiali e di sportelli bancari nelle aree interne – e ormai non solo – del nostro Paese, dove non è più ritenuto conveniente tenere una filiale.

L’altro elemento è l’attenzione al pluralismo. Non dimenticare, cioè, che per affrontare le transizioni energetica, digitale, demografica servono investimenti, che non sono solo quelli del PNRR. Che sia per acquistare un’auto elettrica o per affrontare la spesa di un cappotto termico, dovremo rivolgerci ad una banca, che nel decidere se concedere o meno un credito applicherà una serie di parametri. La banca mutualistica di comunità e la grande banca che deve remunerare il capitale dei propri azionisti potranno applicare – oltre a quello della meritevolezza del credito – ulteriori criteri. Ecco: poiché per dare pieno successo al PNRR servono anche investimenti dal basso, c’è bisogno di banche di varia natura giuridica e di diversa finalità imprenditoriale. Il pluralismo bancario è una delle condizioni della democrazia economica.

Secondo lei la pandemia ha portato nel mondo bancario una consapevolezza diversa o comunque un’azione di reindirizzamento verso un modello nuovo di sviluppo? Se sì, verso quale direzione?

L’idea di sviluppo come noi lo vediamo – inclusivo, partecipato, distribuito, con il protagonismo dei territori – non può che avere un pluralismo bancario che lo consente. È una consapevolezza ormai anche dei grandi economisti del mainstream. Due anni fa Raghuram Rajan, ex presidente della Banca Centrale Indiana, ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale, ha scritto qualcosa di sorprendente sulla “centralità delle comunità”, quella che lui chiama il “terzo pilastro”, accanto ai pilastri dello Stato e del mercato. Senza un fortissimo pilastro comunitario, lo Stato e il mercato non reggono. Raghuram intende le comunità in maniera dinamica, capaci di una vivacità imprenditoriale e sociale, una qualità della vita diffusa: non “piccolo è bello”, dunque, ma piccolo è bello se è vitale, se è generativo. La vitalità e la generatività (che è la combinazione di creatività e della capacità/volontà di incidere positivamente sulla vita altrui) la fanno le imprese. Che creano il lavoro, ovvero – come ci siamo detti – la macro-leva che muove quasi tutto: dignità, reddito, fiducia verso il futuro, voglia di progettare, di costruire una famiglia, di dedicare tempo ed energie ad altri. Una parte del pensiero economico classico sta quindi riconoscendo una centralità dell’homo reciprocans (homo homini natura amicus) a fronte dell’homo oeconomicus (homo homini lupus). Quest’ultimo, è noto, non esiste, ma gran parte dell’economia che oggi si insegna nelle università e nelle business school fa riferimento a quell’approccio: tutto è diretto freddamente al proprio tornaconto, tutti coloro che gli sono attorno gli sono indifferenti. L’approccio dell’economia civile (Antonio Genovesi, ‘700 italiano) punta invece sull’homo reciprocans, che è considerato al centro di relazioni, capace di emozioni, consapevole che “è legge dell’universo che non si può far la nostra felicità senza far quella degli altri”.  

In questa visione, il fatto che parte degli eredi della scuola neoclassica (Adam Smith, ‘700 scozzese) oggi rimettano in discussione quell’approccio no-values, è importante.

Veniamo all’oggi. L’Unione Europea, soprattutto in questo ultimo anno, ha fatto rilevanti passi avanti su alcuni temi – sospensione del patto di stabilità e crescita, emissione di debito comune – ma non “riesce” invece a innovare la propria filosofia regolamentare bancaria, preferendo restare ancorata all’approccio noto come “one size fits all”, ovvero regole identiche valide per tutte le tipologie di banche. Questo approccio annulla le diversità, indebolisce il pluralismo, spinge all’omologazione. Banche diverse non possono essere regolate da norme identiche: quelle speculative e quelle mutualistiche, quelle molto grandi, transnazionali e quotate in borsa e quelle di proprietà esclusivamente dei territori e delle comunità. Quella della UE è una scelta. La contestiamo con argomenti solidi, proponiamo un approccio diverso basato sulla proporzionalità e l’adeguatezza della normativa. E non siamo gli unici in Europa a invocare un diritto alla proporzionalità nell’interesse di cittadini che sono anche soci della propria banca. È come se si intendesse regolare allo stesso modo il pannello solare e la centrale nucleare per il semplice fatto che producono entrambi energia…

Il pragmatico legislatore statunitense, canadese, australiano o svizzero hanno fatto la scelta opposta a quella europea: hanno introdotto da tempo una legislazione tagliata su misura per diverse categorie di banche, dalle grandissime “sistemiche” globali fino alle community banks. In quei Paesi le norme sono studiate per favorire lo sviluppo corretto e sano di ciascuno di quei gruppi, che hanno finalità imprenditoriali, assetti proprietari, livelli di rischiosità molto differenti.

Questo pragmatismo ce lo aspetteremmo anche in Europa, che è il continente delle diversità, con storie profondissime dal Medioevo dei Comuni in poi, e invece oggi da noi è purtroppo totalmente assente. C’è quindi da fare una battaglia culturale e politica: non perché le piccole banche o le banche di prossimità siano più forti o meno regolate ma perché siano messe nelle condizioni di fare il loro lavoro e di svolgere la loro “funzione obiettivo”. Solo un dato: a fine estate il Financial Times rilevava che le community banks statunitensi, pur avendo il 15% del mercato del credito, nella pandemia hanno erogato alle imprese il 40% delle risorse pubbliche messe a disposizione. Se non ci fosse stata questa capillarità, l’America profonda – quella che sappiamo attraversata da tensioni anche molto forti e contraddittorie – sarebbe stata più sola. Naturalmente, in Europa le community banks non godono di un trattamento analogo. Non a caso, le Autorità britanniche, pochi mesi dopo la Brexit, hanno deciso di abbandonare per le proprie banche la logica one size fits all e di abbracciare quella statunitense, secondo la logica kiss (keep it safe and simple): fai delle regole che diano sicurezza ma anche semplicità.

Arriviamo così al grande nodo dei territori, in cui la pandemia ha messo ancora più in luce una grande esigenza di prossimità. E questo, dentro un processo più lungo in cui le aree interne si sono svuotate e anche le filiali dei grandi gruppi chiudono, come lei stesso ha ricordato. Facendo un focus sul nostro Paese e guardando alla ricchezza ma anche alle difficoltà dei territori, quali sono le strade possibili?

Io ne vedo due. Una è la necessità di dotare tutti i territori italiani abitati delle stesse opportunità, perché oltre alla disuguaglianza dei redditi, dovuta al lavoro precario o che non c’è o è di cattiva qualità, c’è la disuguaglianza di opportunità. Le strade, le ferrovie regionali e ad alta velocità, la rete digitale ad elevata efficienza dovrebbero andare incontro a questa prima grande esigenza. Abbiamo visto che con la nuova esperienza “forzata” del lavoro agile, che diventerà sicuramente strutturale con assetti diversi, c’è la possibilità di tornare a popolare e rivitalizzare qualche borgo interno. Purché vi siano le condizioni per arrivarci e connettersi facilmente. 

Questa è la prima esigenza: reti grandi, che solo la mano pubblica può costruire. Abbiamo una straordinaria occasione nei prossimi cinque anni. Ma non basta portare la rete digitale se non si porta vivacità, che è data soprattutto dalle imprese e dalle famiglie che decidono di non abbandonare i luoghi interni e direi anche le periferie, ma anzi imboccano il percorso inverso. Serve quindi uno stimolo strutturale al protagonismo dei territori. Uno studio OCSE del febbraio dell’anno scorso, poco prima della pandemia, diceva che dei 17 Obiettivi dello sviluppo sostenibile delle Nazioni unite e dei suoi 127 sub-obiettivi, il 62% si può realizzare soltanto tramite il protagonismo dei territori. Per questo protagonismo devono esserci condizioni infrastrutturali e condizioni immateriali: scelte educative di lungo periodo, innovative capacità amministrative locali, promozione di una logica dell’intrapresa e non dell’attesa. Con un esempio: non posso solo aspettare l’alta velocità con l’idea che questa cambi miracolosamente la vita della mia comunità, serve anche che ci sia una mobilitazione. 

La strada da percorrere è l’insieme di queste due cose: un’educazione a prendere in mano la propria vita – e questo richiede un grande slancio, una grande “saldezza interiore”, se vogliamo – e l’intervento pubblico. Non a caso le imprese di comunità, le imprese cooperative, le nostre banche mutualistiche, sono nate in una fase di crisi epocale sulla spinta davvero straordinaria di un’Enciclica, che fu altrettanto feconda come la Laudato si’, la Rerum Novarum, la prima enciclica sociale promulgata da Leone XIII. È dai “preti leoniani” che furono fondate leghe, sindacati, cooperative, casse rurali, piccole banche di comunità. La maggior parte di queste sono ancora in vita, e parliamo di 130 anni fa. Oggi la Laudato si’, insieme alla straordinaria occasione del PNRR, ci offre un’altra possibilità che può riportare al centro il protagonismo delle persone e fa tornare a vivere la sussidiarietà, il municipalismo sturziano, il pensiero di La Pira, uno sguardo globale legato alla pace, che tu costruisci anche partendo dal piccolo centro. E allo stesso modo il benessere e la felicità, personale e degli altri, si costruiscono dal basso.

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