A Berlino il sì ha prevalso in un referendum sulla nazionalizzazione di una parte del patrimonio residenziale di proprietà privata. Probabilmente l’operazione non avrà seguito, ma l’esproprio non sarebbe comunque la soluzione al problema della casa.

Le elezioni per il rinnovo del Bundestag del 26 settembre hanno avuto un’appendice berlinese. Gli elettori della capitale tedesca sono stati chiamati a eleggere il nuovo borgomastro e a rispondere a un quesito referendario sulla nazionalizzazione di una quota del patrimonio residenziale cittadino di proprietà privata. Lo spoglio dei voti ha restituito un esito favorevole alla proposta. La sua attuazione non è però certa. Ma se lo fosse, sarebbe la soluzione migliore del problema degli alti canoni?

Per comprendere l’iniziativa referendaria è utile richiamare alcuni tratti della condizione abitativa della città. La stragrande maggioranza dei suoi oltre 4,5 milioni di abitanti vive in case per le quali paga un affitto. La grande diffusione della locazione caratterizza non solo la Germania ma anche gli altri paesi del nord europeo.

In Germania quasi la metà della popolazione non è proprietaria della casa in cui abita: più di quaranta persone su cento vivono in alloggi per i quali pagano un canone di mercato e otto su cento un affitto ridotto; per quasi un quinto degli inquilini, l’affitto assorbe almeno il 40 per cento del loro reddito e la metà di essi è a rischio di povertà. Una quota non trascurabile di tedeschi è economicamente in difficoltà a sostenere i canoni di mercato.

La difficoltà sembra molto più accentuata nella capitale, dove il mercato è dominato dalla netta prevalenza degli alloggi in locazione. La società immobiliare Guthmann ha redatto un rapporto sullo stato del mercato della casa a Berlino nel 2021, che quantifica in circa due milioni gli appartamenti che compongono il patrimonio di edilizia residenziale della città. Di questi, 1,64 milioni sono dati in affitto e solo la restante parte è abitata dai proprietari.

Il problema principale della città è il livello degli affitti e il loro ritmo di crescita. Secondo le analisi riportate nel rapporto, il canone medio mensile di locazione di un appartamento nuovo di cento metri quadri supera i 2 mila euro e quello di uno esistente si avvicina a 1.250 euro. Non sono importi trascurabili, ma soprattutto fanno registrare aumenti percentuali annui a due cifre, o quasi, che hanno portato a una crescita degli affitti negli ultimi cinque anni di oltre il 60 per gli appartamenti nuovi e di quasi il 40 per cento per quelli esistenti. Sono incrementi enormemente superiori rispetto all’inflazione nello stesso periodo e anche all’aumento medio del reddito degli inquilini.

La via del referendum

La ragione del referendum berlinese è tutta nell’individuazione dell’origine di questa situazione. Le cause della veloce lievitazione dei canoni, ovviamente, sono diverse. I promotori del referendum individuano la principale nella particolare struttura proprietaria degli immobili residenziali destinati all’affitto. Poco meno del 40 per cento è di proprietà di compagnie private, con una forte concentrazione in poche grandi società immobiliari.

Una di queste società è la Deutsche Wohnen, con un portafoglio di 155 mila appartamenti, dei quali oltre 100 mila a Berlino. Essendo il più grande proprietario privato di appartamenti in città, la società è entrata nel mirino delle associazioni organizzatrici del referendum, tant’è che lo slogan della campagna elettorale è stato “Espropriare Deutsche Wohnen & C”. La proposta che gli elettori hanno approvato prevede proprio l’esproprio e la pubblicizzazione – azioni consentite dalla Costituzione tedesca – di tutti i patrimoni privati formati da almeno 3 mila appartamenti; in totale si tratterebbe di oltre 200mila appartamenti. L’ultima parola, però, spetta al governo della città-stato di Berlino che dovrebbe approvare una legge per dare corso all’esito della consultazione. Difficilmente lo farà, dato che i partiti, eccetto quello di estrema sinistra (Die Linke), non erano favorevoli all’ipotesi. Naturalmente, l’operazione incontrerebbe l’opposizione delle società espropriate, che ricorrerebbero a tutte le vie legali per evitarla. E potrebbe risultare anche proibitiva per le casse della città, il cui governo stima in 36 miliardi di euro il risarcimento da riconoscere ai proprietari. La stima di 8 miliardi degli organizzatori del referendum dà infatti un valore medio degli appartamenti di 40 mila euro: un po’ poco per un alloggio abitabile per dimensione o condizioni di conservazione.

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