Il PD è al capolinea? Un segretario che si “vergogna” del suo partito non s’era mai visto. Ma è il culmine d’una vicenda durante la quale in poco più di tredici anni si sono succeduti quattro segretari-eletti (uno dei quali per due volte) e poi dimissionari nonché, se non vado errato, quattro segretari-reggenti. Un partito che divora i suoi leader.

Non solo: i due segretari che per più tempo hanno guidato il partito ad un certo punto se ne sono andati per fondarne un altro, molto più piccolo. Altri due, fra i quali il fondatore, hanno pensato bene di cambiare lavoro. Uno invece ha fatto a lungo, e fa tuttora, il ministro e questa è ora la “colpa” che va di moda attribuire al PD: quella d’essere, anche con ridotti consensi, sempre al potere. Qualcuno direbbe e dice, con un linguaggio da bar che non mi appartiene e che invece colpevolmente viene utilizzato dal ceto politico, “attaccato alla poltrona”.

Ora, al di là della soluzione transitoria che verrà adottata per superare il trauma causato dalle polemiche dimissioni di Nicola Zingaretti, è più che evidente che è giunto il tempo, per il PD, di ridefinirsi per rilanciarsi o al contrario di riconoscere che il suo progetto non si è realizzato e che dunque è meglio, nello stesso interesse del campo largo del centrosinistra, concludere l’esperienza e avviarne di nuove. Sostanzialmente, rimettere il trattino.

Un passo indietro, certamente. Una delusione, pure. Ma, nel caso, sempre meglio di un divorzio doloroso e distruttivo, che inevitabilmente lascerebbe macerie e risentimenti acri in tutto l’ambiente, con evidente vantaggio per la Destra, già ora maggioritaria nel Paese.

Che fare, quindi? Un estremo tentativo è senz’altro doveroso. Ma deve essere serio. Rigoroso. Finalizzato unicamente a salvare il partito e rilanciare il progetto di un centrosinistra autonomo e forte, presente nella società italiana. Ovvero: non unicamente teso a salvaguardare la carriera o il posto di qualche professionista della politica. Come invece spesso pare di capire dalle modalità con le quali il gruppo dirigente in senso lato si muove, a livello nazionale ma spesso pure nei livelli locali.

Un tentativo serio significa, almeno, tre cose: considerare con obiettività, lucidità e freddezza i nuovi elementi del quadro socio-politico che sono venuti a delinearsi in questi ultimi anni; porsi le domande di fondo alle quali nessun vero partito può sottrarsi; definire una modalità di discussione interna.

In rapida sintesi, e ovviamente ben sapendo che questi punti, e senza dubbio altri ancora, necessitano uno sviluppo più ampio di quello che si può fare in un semplice articolo, provo ad accennarli.

Il quadro è mutato, rispetto agli anni in cui il PD nasceva. Si veniva da un periodo di crescita durante il quale ci si era cullati nell’illusione che la globalizzazione dei mercati avrebbe generato sviluppo economico indefinito nel tempo. Ed invece, proprio in quei mesi, iniziava la crisi dei mutui subprime che in breve avrebbe travolto l’Occidente. Dalla quale non si è mai del tutto usciti sino a quando, con la pandemia da coronavirus la situazione non è ulteriormente peggiorata. Così, invece di una felice epoca di sviluppo si è dovuta affrontare una complicata fase di decrescita.

Si era immersi in una logica istituzionale ed elettorale bipolare e maggioritaria, che dava al nuovo partito la quasi assoluta certezza di poter essere l’unica formazione politica di peso di una delle due metà del campo: la “vocazione maggioritaria” ne era la traduzione operativa, divenendo dunque tratto fondativo del partito. Nel breve volgere di una legislatura, cominciata con la sconfitta subìta ad opera di Berlusconi e conclusa col governo lacrime-e-sangue di Mario Monti, si crearono invece le condizioni per la nascita di una specie di terzo polo, di mera contestazione al sistema, incarnato dal Movimento 5 Stelle.

Fiducia assoluta nella crescita e granitico credo nel bipolarismo maggioritario ben si sposavano con un’ulteriore novità, incardinata nello Statuto del nuovo partito: l’elezione di un segretario politico attraverso “Primarie” aperte sostanzialmente a tutti: quindi un’affiliazione leggera, che avrebbe incoronato un “capo” che diveniva automaticamente il candidato premier e in caso di vittoria Primo Ministro. La dura sconfitta referendaria del 2016 ha però bocciato l’ipotesi semplificatrice del sistema istituzionale aprendo di fatto lo spazio per un possibile ritorno alla logica del proporzionale (di suo antitetica alla tesi sulla quale era sorto il PD), cosa della quale si è infatti successivamente ripreso a discutere. Mentre la dura batosta alle politiche del 2018 ha da parte sua dimostrato che il leader votato alle Primarie (fra l’altro mai state realmente competitive) poteva comunque venire travolto elettoralmente da un popolo che non si riconosceva in quel rito.

Secondo punto. Un partito nasce e vive soprattutto su una qualche ispirazione ideale e su un qualche punto programmatico forte. Poi c’è l’attività quotidiana, con tutte le scelte che questa comporta, ma un’identità espressa e riconoscibile un partito che non voglia essere, per usare un’espressione in voga, “liquido”, mera espressione d’una società dell’immagine, la deve necessariamente possedere ed esprimere.

Ora, l’identità del PD originario – ovvero il proficuo incontro delle culture politiche protagoniste del Novecento italiano – da tempo ormai è assai annebbiata, per almeno due ordini di ragioni: la prima è che progressivamente si è andata affermando ovunque (nella pubblicistica, fra gli intellettuali, nel comune sentire) l’idea che esso è l’erede storico di una sola delle culture fondative, quella della Sinistra già comunista (e si osservi che paradossalmente la scelta di maggior significato politico, da questo punto di vista, è stata adottata, con l’entrata del PD nel PSE, da Matteo Renzi, un segretario, l’unico oltre a Dario Franceschini, che però resse per pochi mesi una semplice segreteria di transizione, a non provenire da quella tradizione politica). La seconda è che l’avvento delle nuove generazioni – ancorché limitato nei numeri assoluti – ha giustamente reclamato un aggiornamento identitario che però non si è saputo realizzare se non in una rivendicazione di impegno in favore dei “diritti individuali” che ha però trascurato, magari senza volerlo, una pari attenzione a quei “diritti sociali” da sempre connessi all’impegno della Sinistra e del cattolicesimo popolare e inoltre sempre associati alla coeva e indispensabile cultura dei “doveri”, oggi al contrario assai trascurata.

Allora, oggi il PD deve porsi alcune domande ineludibili alle quali fornire risposte nette se davvero vuole essere un partito credibile per un popolo che verrà poi chiamato a battersi per impedire a una Destra radicale di prendersi questo Paese. Quale identità, appunto? Quale cultura politica? Quali interessi sociali tutelare prioritariamente? E conseguentemente, nell’attualità della crisi in corso: quali proposte, quale programma per affrontare la drammatica emergenza economica del dopo pandemia? Con quali obiettivi di maggior giustizia sociale?

La questione delle alleanze, sempre decisiva e identificativa di un progetto politico (ciò non va mai dimenticato) viene a valle di queste domande e dalle conseguenti risposte. Non a monte. Aver voluto assumere l’alleanza con una formazione, il M5S, atipica e ancora indefinita sia culturalmente (non si dimentichi che il suo mantra fondativo è il “vaffa” antipolitico e populista) sia politicamente (e infatti è in corso una sua scissione) è stato un errore grave dettato forse dalla tattica ma del tutto privo di una qualsiasi motivazione logica degna di fornire basi adeguate ad una conseguente strategia politica.

Il punto conclusivo è di metodo. Questa vasta riflessione, che fra l’altro è piuttosto urgente, il PD deve farla coinvolgendo la più larga parte possibile delle persone ad esso interessate. Militanti di ogni età, intellettuali, semplici elettori, rappresentanti di associazioni e movimenti operanti sui mille territori del nostro Paese: tutti impegnati nella ricerca di quella felice sintesi culturale che era negli obiettivi del partito alle sue origini ma che poi non è stata realmente raggiunta. Un lavoro plurale e difficile, che non è affatto detto arriverà ad una conclusione in linea con le attese: perché forse quella sintesi non è possibile. Se invece lo sarà, il PD ne uscirà grandemente rinforzato. E comunque, sia in un caso sia nell’altro, sarà stato dato un contributo di rilievo ad una politica di centrosinistra che in ogni caso dovrà interloquire con la società italiana. Quello che non si può fare, che non è assolutamente ammissibile è un mediocre accordo fra qualche capocorrente utile solo a procrastinare quella che rischia d’essere un’agonia.