Al Pd serve l’apporto del popolarismo

Non vedo una reazione adeguata, siamo ancora impigliati nella rete della sconfitta, fatichiamo a trovare il bandolo della matassa.

(https://m.huffingtonpost.it)

Non vedo una reazione adeguata, siamo ancora impigliati nella rete della sconfitta, fatichiamo a trovare il bandolo della matassa. Più che una critica, francamente odiosa in presenza di grandi difficoltà, è una constatazione. D’altronde se il Pd arranca, finisce per arrancare lo spirito pubblico di un’Italia smarrita e depressa, ma non rassegnata, malgrado tutto, a un declino che si nutre di rabbia e paura. La svolta del 4 marzo va compresa e affrontata nella sua cruda manifestazione politica.

Mi sembra che nel Pd emerga la voglia, di per sé giustificata, di attenuare l’impatto delle polemiche interne. Ciò non può significare, tuttavia, che il recupero di uno stile più composto e ordinato debba penalizzare la necessaria dialettica attorno al destino del “partito unico” dei riformisti. Non si esce dalla paralisi di linea politica vincolando il dibattito a una paralisi ancora più grande, che dalla forma trapassa immediatamente alla sostanza, ovvero al problema legato alla funzione e natura del Pd. Bisogna dire parole chiare.

Ecco, immaginare che la metafora della “sinistra di nuovo in campo” possa amalgamare il partito è un’illusione e al tempo stesso un errore. Un’illusione perché la sinistra, seguendo la dissoluzione del dopo ’89, è senza un preciso ancoraggio culturale; e un errore poi perché il cattolicesimo popolare, quale dottrina politica ancora integra, è di conseguenza marginalizzato, se non escluso. Questo è il nodo di un partito che si è accartocciato in un tentativo di risposta al populismo giocando non poco a maneggiare – sicuramente in termini di profilassi preventiva – le parole d’ordine del populismo. Non abbiamo ecceduto, anche noi, nel descrivere l’Europa in chiave di contraltare istituzionale a sfondo tecno-burocratico, irrimediabilmente succube della Germania, bloccata nel dogma dell’austerità di bilancio?

Molto altro si potrebbe osservare, in questo sforzo collettivo teso a setacciare i detriti di una politica respinta dagli elettori, ma l’ondivago europeismo polemico riepiloga e consacra la fragilità e l’incompiutezza della proposta dei Democratici. Un programma spurio, pur sorretto dal dinamismo del leader, manca la presa sul sentimento profondo degli elettori. Abbiamo perso in tutte le direzioni, anche alimentando il rifugio disincantato nell’area dell’astensionismo. Ci ha piegato il nostro stesso autocompiacimento, specchio di ossimori concettuali e ambivalenze di atteggiamenti, più della forza e della razionalità degli avversari.

Come ricostruire? Al populismo bisogna opporre una cultura e un programma di segno liberal-solidarista. Ai cattolici si chiede di non assecondare il “moderatume” – indolenza mista a furbizia – che serve da copertura al brutto esperimento grillo-leghista. Ora, se questo è il quadro, non c’è ragione di considerare ininfluente l’apporto della lezione popolare. A tale riguardo siamo a un passo dal sancire uno stacco a causa della ingiustificata trascuratezza di una dirigenza infiacchita dalla sconfitta, che scivola sulle sabbie mobili di una involontaria “vocazione minoritaria”, scavando a mo’ talpa nei cunicoli intasati della sinistra. Avevamo idea di un partito diverso e, nel generoso afflato del 2007, vantavamo il sogno di andare oltre il Novecento. Stiamo tornando indietro, maldestramente. E abbiamo poco tempo per avvedercene e per rimediare.