Aldo Moro dinanzi al problema dei palazzinari

perché Moro, dopo aver visto quel progetto di nuovo insediamento alla periferia di Londra, ne fa oggetto di comunicazione con alcuni amministratori locali?

L’anniversario che ricorda la strage di Via Fani, con il rapimento e la prigionia, nonché infine l’uccisione di Aldo Moro, costituisce sempre l’occasione per un esame più o meno approfondito del pensiero e dell’opera dello statista pugliese. Sebbene in tono minore rispetto ad altre passate ricorrenze, questa volta le celebrazioni hanno comunque rinfrescato alcuni interrogativi mai sopiti. Da voci autorevoli è venuto l’invito a non abbassare la guardia nella battaglia per la verità su uno degli episodi più gravi – o forse in assoluto il più grave – che la Repubblica abbia conosciuto a partire dal dopoguerra. L’auspicio è che si proceda speditamente alla costituzione in piena regola della nuova e già deliberata commissione parlamentare d’inchiesta. In questo caso, però, si rende necessario ottenere la desecretazione di carte e documenti finora mantenuti riservati: il governo, in sostanza, deve fare un passo in avanti togliendo i divieti finora opposti con il ricorso al segreto di Stato.

Fortunatamente la figura di Moro non è caduta nell’oblio; anzi, a ben vedere, qualcosa di nuovo inizia a profilarsi nello studio sul ruolo e le attività che egli ha svolto in campo politico e istituzionale. Andrebbe quindi sviluppata, di più e meglio, l’analisi della sua formazione giovanile all’interno dell’associazionismo cattolico, come pure il suo impegno intellettuale e giornalistico, ad esempio sulle colonne del settimanale barese “La Rassegna” (1943-1945). Prima dell’ingresso nelle file della Democrazia cristiana, egli aveva mostrato particolare attenzione ai problemi legati alla difficile ripresa dell’attività democratica nel Meridione. Moro coglieva nel rigurgito antipolitico di vasti strati sociali la diffidenza verso la pervicace diffusione di metodi burocratici e autoritari con i quali i partiti, ciascuno con il proprio impianto ideologico e programmatico, cercavano d’imporsi sulla scena pubblica. Per parte sua ne era altrettanto infastidito, come oggi, per così dire, lo potrebbe essere chiunque avverta un sentimento di estraneità rispetto alla confusione che avvolge e deprime la dialettica democratica. È in questa intransigenza etica e politica che risiede il fascino, ancora attuale, della posizione morotea: nulla si capirebbe dello stile inconfondibile dell’uomo e dello statista se non andassimo alla radice della sua prima definizione, a contatto con le profonde inquietudini della società del tempo, di un pensiero critico, esigente e combattivo.

Un’altro tassello andrebbe aggiunto in questa possibile rimeditazione della sua figura di politico. Nel 1964, arrivato da poco alla guida del governo, sente il bisogno dopo un viaggio ufficiale in Gran Bretagna di inoltrare una breve lettera ad alcuni amministratori locali con la documentazione relativa alla esperienza delle New Town inglesi. Scrive Moro: “Poiché i problemi urbanistici delle grandi città sono fondamentalmente gli stessi, ho pensato che potrebbe essere di qualche interesse, per i competenti servizi di [zona, ndr], prendere visione della documentazione che mi è stata data a Harlow e che qui accludo”.
Il Sindaco di Roma, Americo Petrucci, tra i destinatari della missiva al pari del Presidente della Provincia di Milano e del Sindaco di Torino, risponde con un biglietto di ringraziamento. Non ci sono sviluppi, né da una parte né dall’altra, come se lo scambio di note mancasse di un retrostante motivo di stimolo in ordine a nuovi piani d’intervento. Il Campidoglio aveva finalmente adottato il suo Piano Regolatore, senza dubbio il più ambizioso e complesso tra quelli messi in atto nel secolo ventesimo. In ogni caso, ferme restando le linee del Piano, il modello delle New Town non rientrava nella programmazione della Capitale e del suo hinterland. Da questo, anzitutto, si può dedurre il perché fosse destinato a rimanere sterile il dialogo tra Campidoglio e Palazzo Chigi.

Ad ogni buon conto non è da sminuire il senso e la portata della sortita del Presidente del Consiglio. L’anno prima, in qualità di segretario del Partito, aveva bloccato la contestata riforma urbanistica del Ministro Sullo, uomo di punta della sinistra democristiana; riforma che invece, in armonia con la legislazione dei Paesi europei più avanzati, avrebbe potuto arrestare la crescita disordinata delle nostre città grazie all’introduzione di un meccanismo di controllo pubblico sulle aree edificabili. A ridosso della competizione elettorale, una violenta campagna di stampa contro la presunta minaccia alla proprietà della casa, alimentata dalla destra economica e dai beneficiari della rendita fondiaria, dava altro filo da torcere al principale partito di governo e gettava molta sabbia negli ingranaggi del nascente centro-sinistra. Troppe insidie e troppe ambiguità: si bloccò tutto, come è noto, con grande soddisfazione di proprietari terrieri, speculatori e palazzinari.

Ecco allora la domanda conclusiva: perché Moro, dopo aver visto quel progetto di nuovo insediamento alla periferia di Londra, ne fa oggetto di comunicazione con alcuni amministratori locali? È probabile che avesse desiderio – perché no? – di riaprire un confronto sulla delicata questione dello sviluppo urbanistico italiano. Non si spiega diversamente questa chiara ricerca di dialogo. Sebbene archiviata, la riforma elaborata da Fiorentino Sullo obbligava a riprendere i fili di una discussione gravida di conseguenze per il futuro: non era facile, ma bisognava battere un colpo. Debole o fuori tempo, senza nemmeno una cornice politica adeguata, questo colpo non mancò. Forse era necessario rilanciare dal basso, azionando la leva delle autonomie locali, la pur garbata e prudentissima sollecitazione del leader di governo. E questo non avvenne.