Ogni inizio d’anno racchiude in sé una molteplicità infinita di speranze: ne è la sintesi e il culmine, così da sempre per l’intera umanità.

La storia è un continuum ininterrotto di fatti, una concatenazione di eventi, nulla del presente può prescindere dal passato, fosse anche quello delle cronache di ieri.

Dobbiamo averne consapevolezza perché non esisterà mai un anno zero, un momento in cui magicamente tutto si annulla – le colpe, gli errori, gli inganni – e si riparte da capo: sarebbe solo una effimera illusione destinata ad essere smentita in ogni campo dell’agire umano, in ogni suo contesto.

Però l’uomo, la società hanno bisogno che il tragitto della storia sia contrassegnato dalle convenzioni del calendario: per scandire lo scorrere stesso della vita, per dare la giusta misura a tutte le cose, per ricordare ma anche per far tesoro del passato, correggere il cammino, esercitare il dovere della speranza.

Finisce poi che le buone intenzioni sono lentamente assorbite e metabolizzate in una quotidianità fatta di scelte e di progetti nuovi, ma anche di abitudini e di destino, oltre le nostre migliori volontà.

Ma all’alba di un anno nuovo abbiamo un bisogno quasi organico, fisiologico di guardare avanti, di immaginare, di ripartire, non possiamo prescindere da questa precisa speranza: che il domani possa essere migliore a partire dall’impegno coerente di ciascuno di noi.

Viviamo – da molto tempo – una condizione esistenziale dove realtà e virtualità si sovrappongono, fino a confondersi e questo genera insoddisfazioni, incertezze e molta solitudine.

Trovo persino paradossale che in un’ epoca in cui disponiamo di straordinarie potenzialità comunicative la gente finisca tendenzialmente per appartarsi, non trovando il conforto di una parola, una presenza amica, una relazione positiva e aperta alla fiducia: c’è un numero crescente di persone che rinunciano alla vita stessa perché si sentono isolate, incomprese, avvertono intorno a sé relazioni superficiali, indifferenti, persino ostili.

Ci nominiamo al plurale, chiamandoci “umanità” ma siamo come monadi isolate in un universo globalizzato che ci priva della nostra stessa identità.

Io credo che in questi ultimi anni abbiamo collettivamente parlato troppo, sovrapponendo e confondendo le parole fino a non comprenderci più.

Siamo spesso circondati da una sorta di nebulizzazione della parole, una specie di gigantesco aerosol collettivo che ci ha gradatamente privato di antiche sensibilità e di concreti orizzonti di senso, fino a negare il valore dell’incontro, del dialogo, l’importanza di conoscere e stimare la vita degli altri.

Ultimamente la nostra esistenza è ansiosamente sincopata da esigenze traumatiche, finiamo per subire messaggi ultimativi oltre i quali ci viene prospettato il baratro, la catastrofe, l’apocalisse: vivere diventa una sorta di colpa, di peccato originale legato al raggiungimento di performances.

Contano il PIL, il pareggio di bilancio, le aliquote, le indicizzazioni, i tassi, gli spread.

Qualcuno parla forse di sentimenti? Monitorati e analizzati, scandagliati e controllati, tartassati e asfissiati: ma sideralmente lontani tra noi, spesso resi antagonisti e opposti.

Contano i numeri. E’ vero. Ma ancor più contano le sensibilità individuali e collettive, i valori che ci rendono potenziali interlocutori, gli uni degli altri. Conta la vita, la sua dignità.

Vorrei allora, lo dico con assoluta umiltà ma con altrettanta convinzione etica, che l’anno che ci aspetta ci possa restituire una dimensione meno conflittuale dell’esistere, che ci apra al dialogo, che ci faccia riscoprire l’importanza della vita degli altri.

Capacità di saper ascoltare: questo è il dono che chiedo all’anno nuovo, un dono di civiltà.