Articolo pubblicato sulla rivista giuridica internazionale DPU – Diritto Penale e Uomo

Prosegue inarrestabile (potrebbe essere diversamente?) la striscia negativa delle brutte notizie.
Si resta sbigottiti a seguire l’avvicendarsi di fatti di cronaca nera: ripetuti e quotidiani gesti di violenza che si superano per efferatezza e bestialità. “Homo homini lupus”: da sempre è così ma oggi tutto è amplificato ed enfatizzato dai media, di ‘buone nuove’ si è persa ogni traccia, non si trovano più neanche nei mercatini dell’usato.
E’ tutto un rimbalzare di episodi atroci e criminali: comunque li si voglia chiamare o definire si appalesano come evidenze drammaticamente negative sia del vivere sociale che dei comportamenti individuali.

Una lunga catena di gesti inconsulti di cui ci si attende quotidianamente l’anello successivo, come se la notizia di quelli precedenti fosse del tutto ininfluente rispetto ad ogni remora, incapace di fermare una mano assassina, come in una sfida dove il delitto vince la ritrosia, i freni inibitori, il timore di essere scoperti e puniti, per non parlare delle regole morali che vengono infrante: il rispetto della sacralità della vita, il diritto all’identità e al futuro per ogni essere umano, il pudore e il pentimento verso ogni possibile offesa della sua dignità.

Alle radici della violenza come atteggiamento ripetuto e prevalente rispetto alle alterne vicende della vita c’è un mix di derive sociali che spingono, condizionano fino ad una sorta di mutazione antropologica, ci sono atteggiamenti compulsivi condivisi, esempi negativi che non vengono corretti e stigmatizzati, come se il gruppo fosse branco, il sodalizio umano un luogo di reciproche sopraffazioni.
Alla base della violenza dilagante c’è la crisi epocale, economica in tutti i suoi risvolti: l’immigrazione clandestina, la disoccupazione, la miseria, le povertà emergenti, la pochezza culturale.

A cominciare dal linguaggio imbarbarito ed usuale e dalle sue declinazioni in gesti di aggressività e – specularmente – dalla debolezza del pensiero, dalla carenza di riflessione, dal mercimonio dei sentimenti.
Ci sono drammi umani che sconvolgono e ribaltano esistenze e consuetudini, che portano a situazioni insostenibili e impensate, che generano pulsioni di indignazione e ribellione.
La violenza oggi nasce in una società dove l’ignavia e l’indifferenza si mescolano a prepotenze che schiacciano le persone verso una irreversibile soccombenza, impongono ingiustizie intollerabili.

Ma non dobbiamo dimenticare che la scelta tra il bene e il male, tra un atteggiamento pacifico e interlocutorio e l’esplosione incontrollata di pulsioni bestiali è legata al discrimine del libero arbitrio perché nel momento in cui si decide di offendere, ferire, aggredire, uccidere si è soli davanti alla propria coscienza.
Da troppo tempo si è diffuso un senso di impunità nei comportamenti sociali e molta parte della cultura finora prevalente ha contribuito a de-responsabilizzare gli individui nei confronti della loro coscienza individuale.

La certezza o la speranza di farla franca, di cavarsela a buon mercato, di restare impuniti, di non essere scoperti, di ritenersi capaci di compiere il delitto perfetto, di essere tutelati in sede di procedimento giudiziario da tutta una serie di variabili attenuative ed indulgenti sono sostenuti troppo spesso da un lento e progressivo ovattarsi del “senso di giustizia” nell’immaginario collettivo.

Tutti invocano un tipo di giustizia che stenta a realizzarsi, perché alla colpa o al dolo subentrano le aspettative di resipiscenza e redenzione, la tutela del presunto colpevole supera la ricerca della verità: la morte è morte, non c’è più nulla da fare per chi non c’è più, niente è più esemplare di chi si emenda, di chi perdona: “in dubis abstine”…..“in dubio pro reo”.
E il legittimo diritto di difesa anche di fronte all’evidenza dei fatti, il ricorso alle attenuanti generiche, il pentitismo a buon mercato, l’invocazione troppo spesso ripetuta dell’incapacità di intendere e di volere, l’attenuazione del principio di consapevolezza e volontà, la scelta del rito abbreviato, lo sconto di pena, la sua conversione in una sanzione più mite, la facile e disinvolta cultura della riabilitazione, un buonismo intriso di cavilli procedurali e di scrupoli di coscienza: tutto attenua, tutto ridimensiona, bisogna capire … “ha perso la testa ma non voleva”… “è sempre stato un bravo ragazzo”… “è un uomo tutto casa e lavoro”…”sentiva delle voci che gli dicevano di commettere il male … ma lui non era consapevole … si è accorto dopo di ciò che ha commesso … ora è pentito e chiede perdono”.

Ma possiamo permettere di abituarci collettivamente al femminicidio, alla violenza criminale sui familiari, alla pedofilia, all’abuso dei minori, alla sopraffazione dei deboli e degli indifesi, allo stalking compulsivo, ossessivo e persecutorio …. come se fossero comportamenti socialmente dilaganti, fatti prevalenti di costume, giustificati dalla crisi economica, dalla perdita del lavoro, dal presunto tradimento, dalla debolezza umana, dalla provocazione, dal sentimento di possesso?

Credo fermamente di no.
Il susseguirsi di episodi di violenza e di offesa diventa esso stesso spettacolo, come nella sequenza di una fiction ad episodi mentre restano sul campo vittime senza colpevoli, rimane il dolore e la disperazione dei padri, delle madri, dei figli nel quale ci immedesimiamo con partecipazione emotiva sincera ma spesso effimera.
Alla radice della violenza c’è il prevalere del male sul bene, del crimine sull’onestà di intenti: c’è sempre l’uomo, la persona., l’individuo che in genere – eccetto rare e documentate situazioni di buio della coscienza – decide ed agisce secondo deliberazione e consapevolezza del delitto che sta compiendo.

Ricordo ciò che mi disse il Prof. Vittorino Andreoli: “ci pensi su due volte prima di dire … ‘conosco una persona’ “.
Che cosa scatta nella mente di chi alza il braccio per un gesto omicida? Non sempre o non solo la follia.
Non sempre e non solo l’istinto dell’ira irrefrenabile e inconsapevole
Si dovrebbe guardare a questi fatti per quello che sono, molto, troppo spesso: gesti cercati, costruiti, studiati e ‘scientemente premeditati’ di violenza, ad ogni costo, oltre il rispetto della vita altrui.

Sovente la “follia” viene confusa con una deliberata alterazione dell’ego, come un’ombra oscura che nasconde la realtà fino a negare “intenzione e volontà”.
E nelle pieghe di questi fatti di cronaca emerge lo spaccato di condizioni sociali e individuali coscientemente orientate verso il male.
“Non giudicate se non volete essere giudicati”: è vero.

Direi di più: in una società veramente civile ogni pena deve essere programmata in funzione del riscatto e della riabilitazione del reo.
Ma se archiviamo la violenza come comportamento possibile, imprevedibile, comprensibile, tollerabile cercando attenuanti e giustificazioni fino a forzare l’evidenza del principio di realtà ci poniamo tutti, indistintamente fuori da quella cerchia di valori e di esempi positivi ed orientati al bene comune sui quali si basa la nostra convivenza e l’idea stessa di civiltà.

In questo consiste forse la nostra “vera e inconsapevole follia”.