Nel 2008 l’editore Arnoldo Mondadori dava alle stampe un bel libro sulla figura di Andreotti. Chi scrive ricorda bene la presentazione del volume nella sala conferenze al primo piano dell’Istituto Sturzo (gremita fino all’inverosimile) alla presenza dell’autore Massimo Franco, del diplomatico Riccardo Sessa e di Francesco Cossiga. Il Presidente emerito deliziò il pubblico raccontando una serie di aneddoti sul Divo Giulio, tra cui una passione giovanile per Mary Gassman, la sorella di Vittorio. Forse non era un retroscena inedito, ma al giovane cronista sembrò essere tale. Oggi quel libro viene ripubblicato (passando da Mondadori a Solferino) con l’aggiunta di un paio di nuovi capitoli. Sono la logica conseguenza dell’apertura dell’archivio “apostolico” vaticano (non più “segreto” per espressa volontà di Papa Francesco) agli anni del pontificato di Pio XII (1939-1958). 

Probabilmente Andreotti avrebbe approvato la “metamorfosi verbale” di Papa Francesco, da archivio “segreto” al più neutrale “apostolico”. Almeno lo avrebbe detto ufficialmente, tranne poi forse esprimere segretamente (senza confessarlo neppure a se stesso) una sua radicata convinzione. E cioè che le riforme, anche quelle fatte con le migliori intenzioni, di solito peggiorano le cose. Eppure sarebbe stato ben gratificato nel vedere quante volte è presente nel periodo in questione. 

Dalle carte messe a disposizione dall’archivio, emerge un giovane Sottosegretario di De Gasperi che compie i primi passi felpati nelle stanze del potere, sebbene già ben adagiato negli angoli più strategici, al crocevia di molte questioni di un Paese che si doveva risollevare dalle macerie di un conflitto disastroso. Le prime citazioni che affiorano dagli archivi riguardano il suo ruolo di mediatore dei giovani catto-comunisti di Franco Rodano, messi all’indice da Pio XII e dalla “penna” fedele del giovane Andreotti. Il suo nome compare per la prima volta negli archivi vaticani nel 1943 (in qualità di Presidente della Fuci) e di fatto non scompare più. 

Nel fascicolo degli archivi emerge anche il suo rapporto con il cinema italiano. Dalle polemiche sul neorealismo passando per le prime leggi sul diritto d’autore nel settore audiovisivo. La lunga parabola pubblica di Andreotti è strettamente legata alla storia del cinema italiano. Ed è una vicenda ricca di episodi, prese di posizione, controversie, amicizie con attori e registi.

Perfino leggende: la famosa frase «i panni sporchi si lavano in famiglia», che nel 1948 il futuro senatore a vita avrebbe riferito al capolavoro di Vittorio De Sica (Ladri di biciclette), a leggere le carte del diretto interessato non sarebbe stata mai pronunciata.

«Io il censore del cinema italiano? Ma se ho riaperto Cinecittà e rilanciato i nostri film nel mondo», annota nei suoi Diari quando gli viene rinfacciata la sua posizione anti-neorealista. Una corrente cinematografica, come sappiamo, in realtà avversata. L’Italia, scrive Andreotti, «non è popolata soltanto da pensionati in miseria e ladri di biciclette, è anche la terra di Don Bosco e di Forlanini».

Così un altro film di Vittorio De Sica (Umberto D) viene bollato come «disfattista». In realtà Andreotti si fa interprete pure delle preoccupazioni della Santa Sede. Il Sostituto alla Segreteria di Stato, mons. Giovanni Battista Montini (il futuro Paolo VI) si rammarica che “la maggior parte dei registi italiani non nutrisse sentimenti cattolici”. E nell’Italia bacchettona degli anni ’50, annota le “vibrate proteste” di Pio XII per alcune “scene femminili” non proprio apprezzate. 

In realtà, al Divo Giulio è stato riconosciuto un ruolo decisivo nella rinascita dell’industria cinematografica italiana nel dopoguerra. Dall’archivio apostolico, spuntano anche alcune lettere in difesa di Roberto Rossellini, attaccato dalla Legion of Decency americana per la sua relazione con Ingrid Bergman (che era sposata) e una trattativa con il Dipartimento di Stato Usa per una maggiore libertà nell’esportare i film italiani negli Stati Uniti.

Sottosegretario allo Spettacolo tra il 1948 e il 1954, Andreotti libera Cinecittà dagli sfollati del dopoguerra e firma la prima legge sul cinema. Impone una sorta di “dazio” sui film stranieri, istituisce il primo “fondo per lo spettacolo” e i premi alle opere di maggior valore artistico. Rilancia sia la Mostra internazionale d’arte cinematografica (il festival di Venezia) sia le sale parrocchiali. E annota ironico nei suoi Diari: «Noi cattolici siamo stati un po’ ingenui a lasciare il cinema nelle mani delle sinistre…».