L’attore Elio Germano ha vinto l’Orso d’argento per il miglior attore al Festival di Berlino 2020 interpretando il ruolo dell’artista Antonio Ligabue (1899-1965) nel film, diretto da Giorgio Diritti, “Volevo nascondermi”. Già Flavio Bucci nel 1977 aveva indossato i panni di quel pittore e scultore in un memorabile sceneggiato televisivo diretto da Salvatore Nocita e scritto da Cesare Zavattini.  

Per fortunata coincidenza, l’anno seguente veniva approvata in Italia la legge Basaglia che disponeva la chiusura dei manicomi. Da quel momento – come afferma Vittorio Sgarbi – “Ligabue diventava, è diventato, l’emblema del riscatto dalla malattia mentale proprio nel momento in cui Franco Basaglia, padre dell’anti-psichiatria italiana, dopo l’esperienza all’ospedale di Trieste, innestava un meccanismo a catena che di lì a poco avrebbe conseguito anche l’avallo della legge”. Non a caso è proprio il critico ferrarese che cura, assieme a Marzio Dall’Acqua, la retrospettiva antologica “Antonio Ligabue. Una vita d’artista”, allestita negli spazi di Palazzo dei Diamanti a Ferrara fino al 5 aprile 2021. La mostra è dedicata a Franco Maria Ricci, recentemente scomparso, che ha contribuito a promuovere e far conoscere l’arte di Ligabue.

Sgarbi elenca con orgoglio i lavori esposti: “Parliamo di ben 107 opere e sono 77 pitture, 10 disegni e 20 sculture che vengono da collezioni private, quindi si tratta di opere mai viste prima dal grande pubblico. E per sculture intendo le terre non cotte. Noi le abbiamo tutte in mostra”. Ed ancora “Finalmente daremo a Ligabue la dignità che merita”.

Ligabue, nato a Zurigo, dopo un’infanzia difficile – tra l’altro la perdita della madre e di due fratellini – viene affidato a genitori adottivi ed inizia subito ad avere disturbi psicofisici, oltre ad essere ammalato di rachitismo. Viene espulso dalla scuola, aggredisce la madre ed è ricoverato più volte in manicomio. Giunge in Italia per il servizio militare e viene riformato. Si stabilisce nel 1919 a Gualtieri (il cui campanile viene spesso inserito nei suoi quadri), in provincia di Reggio Emilia, patria del padre adottivo.  Nella cittadina della Bassa padana, dove gli viene dato l’appellativo “El Tudesc”, inizialmente vive in un capanno e si guadagna da vivere facendo il manovale sul Po e, qualche volta, eseguendo disegni su cartelloni per comitive circensi, che arrivavano in paese. Un’esistenza, quella di Ligabue, difficile, colma di ostilità ed incomprensioni. Lui trova conforto nella pittura e nella scultura, raffigurando spesso animali esotici (leoni, cavalli, gorilla, tigri) che inserisce nel paesaggio emiliano. Nel 1928 egli incontra l’artista Renato Marino Mazzacurati, che, riconoscendo il suo naturale talento, lo aiuta materialmente e lo incoraggia. Diversi sono i ricoveri in manicomio, tra tutti particolarmente significativo quello dal ’45 al ’48, causato da una lite con un soldato tedesco. In quel caso gli viene riconosciuta una psicosi maniaco depressiva, caratterizzata da una aggressività sia verso gli altri che su se stesso.

Lui, così scontroso, dal carattere difficile, enigmatico ed orgoglioso, con l’arte racconta la sua vita, un dramma che cerca di alleggerire mentre impasta i colori, e con essi si sporca mani e viso, quando tratta l’argilla del Po, che plasma con impulsi prepotenti. Talvolta arriva a masticarla per renderla più malleabile. Così, da confusioni materiali, autonome ed incolte ispirazioni, memorie ed ossessioni, l’artista fa scaturire slanci creativi dai segni decisi. La sua indole “animalesca” spesso crea sinergia con i soggetti raffigurati come, ad esempio, leopardi ed aquile con cui dialoga perché si sente uno di loro e con i loro occhi vuole vedere il mondo.

Non è un caso che era affascinato dai rapaci ed in essi si identificava a tal punto da procurarsi una scorticatura al naso (visibile nei suoi autoritratti) simile al rostro dei cupi volatili. In molti si nota la presenza della motocicletta, una sua passione. L’intensità del suo sguardo s’insinua tra il ricordo di occhi di conigli (animaletti a lui cari) impauriti e fissità di felini pronti alla zuffa o di uccelli attenti alla preda. Dipingeva così, analizzando se stesso e giudicandosi.

L’artista per anni non è stato valorizzato come merita. L’istinto e l’amore per la natura hanno avuto il sopravvento nella sua mente irrequieta, folle, accarezzata da genialità artistica. Ligabue, che veniva chiamato il matto (Toni al mat), ha espresso visioni del suo pensiero, pulsioni di quella “quasi serenità” che solo la pittura poteva concedergli a dispetto di una vita difficile, in un mondo in cui il diverso veniva (forse ancor oggi è così..) considerato pazzo, malato e, spesso, da tenere a distanza. La sua esistenza è stata costellata da povertà e solitudine. Si narra che ad ogni donna che incontrava chiedeva un bacio. Un aneddoto interessante perché ci fa capire il bisogno di affetto che l’artista aveva, una necessità tipica di coloro che hanno scompensi emotivi, vite complicate, rassegnazioni e “urla interiori”, tutte manifestazioni che neanche loro comprendono fino in fondo. La figura di una donna vicina gli mancava, a tal punto di vestirsi talvolta a casa da donna per immaginare una compagnia femminile, forse per colmare il vuoto di una madre distante, assente.

Follia e genio. Ed ecco che le memorie dipinte, le nature morte, le scene con animali, le tormente di neve ed i paesaggi appaiono scenografie delle sue intime narrazioni. Nelle fantasie esprime la psicologia della sua personalità, vibrante come le sue pennellate, e conduce per mano l’osservatore verso mondi immaginari frammisti con la realtà che lo circonda, affollata da animali visti da fanciullo allo zoo: rapaci, leoni, serpenti, ecc. Sono animali che lottano, alla ricerca della libertà (l’animale cerca di uscire dalla gabbia come lui stesso cerca di fare dalle sue psicosi) oppure per difendersi da nemici. 

Riuscendo ad entrare in empatia con alcuni lavori possiamo quasi sentire i rumori di una foresta, in cui tigri dalle fauci spalancate ci riportano alla mente le urla interiori di dolore, una angosciante stretta al cuore simile a quella che si prova di fronte all’urlo di Munch. Seppur distanti nel tempo e nell’estetica, in entrambi ritroviamo la solitudine, la malattia sociale, la mancanza di amore, l’isolamento, la tensione. Sono tutti ingredienti dell’infelicità.

Questo grande artista contemporaneo mi ricorda tanto il pittore brasiliano Chico da Silva (1910-1985), nato nella selva amazzonica. Anche lui, eterno bambino con un ramo di “sana follia”, dipingeva animali costruiti dalla propria fantasia ingenua e tormentata. Molti dei suoi quadri raccontano di battaglie tra animali aggressivi dai colori forti, una vivacità cromatica ci fa dimenticare la crudezza della lotta. 

Dalla foresta amazzonica torniamo alla bassa padana del Nostro….

L’arte si deve capire, si deve amare, si deve saper leggere oltre alla pura visione ed oltre all’analisi estetica è doveroso far emergere concetti e messaggi velati, soprattutto nel caso di Ligabue, genio popolare, in cui, come sottolinea Sgarbi “… l’istinto gioca certamente un ruolo di notevole rilievo, ma che non è certo privo di quella che viene chiamata la ‘ragione dell’arte’, cosciente di avere una base di formazione, per quanto empirica e non colta”. Una nevrosi lucida, una sorta di forza contro la timidezza, a volte manifesta in alcuni fiori, evasioni visive serene subito bloccate da negatività, simboleggiate da scorpioni.

Il successo internazionale arrivò nel 1961 con una personale alla Galleria La Barcaccia di Roma. Ormai critica e pubblico lo conoscevano e lo apprezzavano. Ma lui non era cambiato. Seppur ben vestito e con una situazione economica diversa, egli era sempre alla ricerca di affetto, disperato nella sua profonda solitudine. La sua arte era voluta ma lui come individuo no. Forse per la vergogna o paura che poteva incutere. A lui bastava un bacio, con il quale diceva che “…  il giorno diventa splendido”.

Ha dipinto fino alla fine, nonostante colpito per anni da parziale paresi. In realtà, allineando con un insano discernimento il suo pensiero ed il suo rapporto con il tempo, egli è ancora vivo perchè le sue opere sono l’essenza stessa di Antonio Costa (Ligabue).