Quando l’emergenza Coronavirus sarà terminata, ci saranno delle questioni decisive da ricordare. Alcune, le più importanti, riguardano il significato della vita, l’idea che abbiamo di noi stessi, la pretesa di invulnerabilità che ci hanno dato la scienza e la tecnologia e che un piccolo virus venuto da Wuhan è bastato a scuotere. Sono aspetti di carattere esistenziale, culturale, religioso. Però poi ci sono questioni per la comunità in cui viviamo, che richiedono risposte politiche forti. Può forse valere la pena, anche se siamo ancora nel pieno dell’emergenza, cominciare a prendere appunti per il prossimo futuro.

La prima questione fondamentale riguarda il ruolo della sanità pubblica. Come sappiamo, negli Stati Uniti fare un tampone costa 3000 dollari. Da noi è una spesa coperta dal Servizio sanitario nazionale. Pur avendo dato finora eccezionali capacità di tenuta, la sanità pubblica italiana ha bisogno di investimenti massicci, sia per l’ordinario sia per l’emergenza. Non tutto si può fare in deficit.

Dunque, una volta passato il Coronavirus, bisognerà riconsiderare le priorità della spesa sociale. Il problema è che la gente non si fida più dei soldi immessi nel «calderone» della spesa pubblica, che finiscono in mille rivoli non sempre produttivi e preferisce incassare sostegni e sussidi diretti. Si potrebbe allora pensare a una «spesa ipotecata»: cioè vincolare un investimento a un certo risultato verificabile, per esempio l’assunzione di un numero definito di medici e infermieri, come si sta cominciando a fare in questi giorni.
La seconda questione riguarda il rapporto tra Stato e Regioni. È chiaro che serve più flessibilità. L’emergenza non ha colpito in modo uniforme e dunque hanno ragione i governatori Fontana e Zaia a chiedere più finanziamenti pubblici per la Lombardia e il Veneto.

Allo stesso tempo serve più coordinamento, perché in un’emergenza nazionale decide il governo centrale e non può accadere che ciascuna Regione pretenda di muoversi in autonomia. Si tratta quindi di riprendere (mettendolo fuori dalla contesa politica), un lavoro di riordino del Titolo V della Costituzione, che tutti ritengono necessario ma che di volta in volta è stata contestato e affossato, perché inserito all’interno di progetti di riforma politica più ampia e divisiva.

La terza questione riguarda la comunicazione istituzionale e di conseguenza l’informazione. Il messaggio del governo, degli enti territoriali, degli ospedali, degli esperti, è stato finora troppo frammentato e contraddittorio (se non addirittura caotico), talvolta influenzato dalle esigenze della lotta politica e inevitabilmente condizionato dalla gran voglia di apparire dei politici. È indispensabile trovare forme «neutrali» di comunicazione istituzionale, magari inventandosi una figura unica di «portavoce» ufficiale delle emergenze, che sappia de-politicizzare il messaggio.

La quarta questione (forse la più importante) riguarda l’Europa unita. Il suo nucleo originario, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), nacque proprio per affrontare quella che allora era un’emergenza: porre fine alle guerre secolari tra Francia e Germania. Questo dovrebbe essere il senso profondo dell’Unione Europea: mettere insieme più Paesi, tutti piccoli, per avere una risposta di scala maggiore a problemi globali. Ma questa capacità sembra essersi smarrita. Di fronte alle grandi emergenze del nostro tempo (terrorismo, migrazioni, epidemie) l’intervento dell’Unione si è dimostrato costantemente al di sotto delle sue potenzialità. Quale emergenza più grande del Coronavirus vogliamo aspettare per mettere mano a una riforma radicale del modo in cui funziona l’Europa? Per avere, in buona sostanza, un nuovo “Piano Marshall” a guida europea? Forse grazie al Coronavirus siamo diventati tutti keynesiani (senza conoscere Keynes). Va bene aumentare il deficit (d’intesa con Bruxelles) ma in spesa per investimenti, piuttosto che in spesa corrente.

E’ possibile che, nei prossimi mesi, anche la competizione politica nel nostro Paese cambierà profondamente. Il rinvio del Referendum sul taglio del numero dei parlamentari potrebbe l’inizio di un calendario nuovo e di un tempo diverso. Partiti e leader saranno giudicati da come si saranno comportati di fronte all’attuale emergenza e da ciò che sapranno dire su come fronteggiare quelle che ci riserverà il futuro. Serviranno meno chiacchiere e più progetti, meno promesse e più impegni: dunque una vera e propria riconversione per la politica italiana.