Articolo pubblicato sulle pagine di Mente Politica a firma di Luca Tentoni 

Il nuovo sistema elettorale dovrebbe essere sottoposto all’esame delle Camere dopo la legge di riforma costituzionale che potrebbe abolire la “base regionale” di elezione dei senatori e parificare l’elettorato attivo a quello per Montecitorio. Diversamente, l’unico modo per cercare di uniformare i meccanismi dei due rami del Parlamento consisterebbe nel disegnare collegi – per Camera e Senato – corrispondenti alle regioni, attribuendo (col d’Hondt, per esempio) tutti i seggi in loco, senza recupero proporzionale.

Ma, come sa chiunque abbia una minima conoscenza dei sistemi elettorali, se i deputati sono il doppio dei senatori (saranno 400 contro 200, dando per scontato il sì popolare al referendum) la dimensione della circoscrizione per Montecitorio è doppia: dunque si possono avere 10 deputati e 5 senatori in una regione, con soglie implicite d’accesso molto diverse; per avere un seggio alla Camera può essere sufficiente il 6-7%, ma il doppio per il Senato. Quindi non avremmo risultati omogenei. Palazzo Madama avrebbe quasi solo rappresentanti di grandi partiti, mentre Montecitorio ne avrebbe anche qualcuno dei piccoli. La revisione della “base regionale” e dell’età per eleggere il Senato è però una riforma che richiede tempo.

Intanto, possono nascere tentazioni, quale per esempio quella di attendere il referendum “taglia-seggi” e poi andare subito a nuove elezioni che falcidierebbero tutti i partiti tranne i tre maggiori (M5S, Pd, Lega) salvando forse (con penalizzazioni) FdI, FI, Italia viva. Si dirà che questo governo è nato proprio per evitare le elezioni, dunque il problema di attendere per fare le riforme costituzionali, regolamentari ed elettorali non si pone. Ma questa maggioranza può durare fino al 2021 o addirittura – come alcuni pensano – fino al 2022 (quando si eleggerà il successore di Mattarella)? Davvero pensiamo che due o tre anni, in politica – soprattutto ai nostri tempi – non siano un’eternità? Tre anni fa Renzi non aveva ancora perso il referendum; era a Palazzo Chigi sicuro di vincerlo. Quel che è accaduto subito dopo, senza contare il voto politico del 2018 e quello europeo del 2019, è storia nota. Inoltre c’è un problema: nell’era della politica senza progetti “lunghi” – rivolta soprattutto a mantenere o ad accrescere il consenso in vista delle successive elezioni sempre imminenti, regionali o politiche che siano – l’elettorato non sembra voler comprendere che lo Stato ha ormai a disposizione scarse o nulle risorse da distribuire (semmai ha il problema di riallocare quelle che già ci sono, creando però una platea di “vincitori” poco soddisfatti e di “vinti” furibondi).

Una legge di bilancio come quella che si sta discutendo, per esempio, non è “vendibile” mediaticamente perché è praticamente tutta fondata sulla sterilizzazione dell’aumento IVA, ma non regala sogni o illusioni. Forse, però, è questa l’assicurazione sulla vita della legislatura: si andrà a votare quando si potrà offrire agli elettori qualche consistente trasferimento di risorse (come fu per il reddito di cittadinanza e la promessa “flat tax”), altrimenti i “giallorosa” andranno incontro ad una sonora sconfitta (ammesso che superino le prove delle nove elezioni regionali da qui a fine primavera).

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