Arnaldo Benini: La mente fragile L’enigma dell’Alzheimer

Arnaldo Benini è professore emerito di neurochirurgia e neurologia dell'Università di Zurigo. È stato primario di neurochirurgia alla Schulthess Klinik di Zurigo. Tra le sue pubblicazioni in italiano, ricordiamo, per Garzanti, Che cosa sono io. Il cervello alla ricerca di Sé stesso (2009) e La coscienza imperfetta. Le neuroscienze e il significato della vita (2012); per Raffaello Cortina Neurobiologia del tempo (2017) e il recente La mente fragile. L'enigma dell'Alzheimer (2018). Collabora alle pagine di Scienza e filosofia dell'edizione domenicale del Sole24Ore e alla pagina culturale del Corriere del Ticino.

Prof. Benini, il suo libro “La mente fragile  L’enigma dell’Alzheimer” (dal nome dello psichiatra e neuropatologo Alois Alzheimer che nel 1906 per primo descrisse la demenza presenile)  pone in evidenza il carattere “enigmatico” dell’Alzheimer. ”Enigmatiche” sono ancor oggi l’insorgenza, la progressiva degenerazione delle facoltà mentali, la ricerca di possibili terapie. Eppure si tratta di una malattia diffusa e tragica.  Prima di parlarne, le chiedo se è vera l’opinione molto diffusa che la demenza è inevitabile nell’età avanzata e che essa si annuncia con impedimenti, anche modesti, delle capacità cognitive (memoria, concentrazione, ecc) già a metà dei sessanta anni. Se a quell’età si comincia a dimenticare un nome o un numero di telefono si è colti dal terrore d’essere sulla strada della demenza

L’opinione che l’indebolimento cognitivo, che inizia a manifestarsi di regola nei sessantenni, sia il preavviso della demenza è falsa. L’indebolimento cognitivo è, in misura diversa da persona a persona, pressoché  la regola, ma solo un quarto delle persone in età avanzata o molto avanzata è demente, e dei pochi centenari quasi nessuno lo è. Il numero dei dementi si può ridurre con adeguate e disciplinate misure preventive, che poi sono, lo vedremo, le stesse che si raccomandano da sempre per vivere meglio e più a lungo.

Come ogni altro organo, il cervello s’invecchia e il suo invecchiamento si manifesta con un declino dell’attività mentale, che però non compromette la condotta di vita, le consuete attività, anche creative, e la convivenza. Il modesto indebolimento cognitivo (dimenticanze, non “arriva” una data o il nome di persone e località, non si trova ciò che s’è riposto poco prima, dubbi su numeri di telefono e passwords, a volte le donne comprano un vestito che avevano già, ecc.) è avvertito inizialmente solo dalla persona colpita. È la condizione che i gerontologi chiamano dimenticanza senescente benigna. In uno stadio più avanzato i mancamenti cognitivi, pur se discreti (come la richiesta o la ripetizione della stessa cosa più volte), sono avvertiti anche dai conviventi.

Può diventare impossibile apprendere nuove tecnologie, ad esempio informatiche, o concentrarsi a lungo. È lo stadio del deterioramento cognitivo lieve, indicato, ovunque nel  mondo, con l’acronimo inglese MCI (mild cognitive impairment). Non è demenza, che è la progressiva e inarrestabile distruzione dei meccanismi mentali, ma  la manifestazione dell’invecchiamento del cervello, che si manifesta nella maggioranza delle persone oltre i 65 anni. L’indebolimento cognitivo si contrasta con impegni mentali (letture, conversazioni a tema, ascoltare musica, disegnare, ecc), che possono avere risultati sorprendenti. Solo in un quarto dei casi disturbi analoghi sono la prima manifestazione della demenza, che peggiorerà e porterà a morte entro 7-10 anni.

Possiamo stabilire una sorta di equivalenza tra l’Alzheimer e la demenza – in quanto descrizione di un processo di declino – o la seconda definizione va piuttosto intesa come lo stadio conclusivo della patologia fino alla sua irreversibilità?

Dopo un secolo di ricerche, che hanno insistito prevalentemente e a lungo sul presupposto, già da Alzheimer giudicato incoerente, che la demenza fosse dovuta al progressivo accumulo nel cervello di sostanze di scarto (una débâcle con pochi eguali nella storia della scienza), finalmente gli enigmi dell’Alzheimer si stanno chiarendo. Ora che si sa che la demenza – cioè la distruzione inarrestabile dei meccanismi della mente – ha diverse cause pur se con segni e sintomi identici, si parla non di malattia ma di sindrome d’Alzheimer,  cioè di sintomi e segni da cause diverse, che provocano una lenta e progressiva degenerazione del tessuto cerebrale. Ci vogliono anni prima che il danno si manifesti, e per questo la demenza è una sindrome dell’età avanzata. All’epoca di Alzheimer l’attesa media di vita era di 50 anni, e nei libri di psichiatria del tempo s’imparava che il  cervello, fra tutti gli organi, era quello che meno d’ogni altro risentiva degli inconve-nienti dell’età. La breve durata della vita preservava dall’inde-bolimento cognitivo e dalla demenza.

La sindrome d’Alzheimer consiste  in un processo degenerativo delle capacità cognitive che si conclude con una condizione di dissociazione dalla realtà che passa attraverso fasi di progressivo declino delle facoltà mentali: la conoscenza, la memoria, l’identificazione del se’ in rapporto agli altri  – per usare una metafora – come se una spugna cancellasse il passato, offuscasse il presente e rimuovesse ogni futuro.  Ci vuole  riassumere il decorso tipico dell’orribile tragedia dell’Alzheimer?

Le prime due fasi, già descritte, sono l’indebolimento della memoria e l’MCI. Molte persone avanti con gli anni si trovano prima o poi in queste condizioni, e in quelle rimangono fino alla fine. Non si tratta, lo ripetiamo, di demenza. L’equivoco nasce dal fatto che anche le prime manifestazioni della demenza sono simili, a volte anche per un paio d’anni, alla condizione di MCI. Agitazione, ansia senza motivo, irritabilità, depressione, apatia, sono sintomi frequenti dello scivolamento verso la demenza. Un disturbo allarmante è il disorientamento spaziale, inizialmente sporadico, poi sempre più frequente: la persona colpita, pur in un ambiente familiare, improvvisamente non sa dove si trovi, come andare a casa, dove sia la stanza che cerca, ecc. Anche il senso del tempo (specie della durata) può essere alterato.  Asocialità, o, come dicono gli psichiatri, “appiattimento degli affetti”, depressione medio-grave, disturbi del linguaggio, imbarazzo ad affrontare incombenze comuni, difficoltà fino all’impossibilità di compiere movimenti anche banali sono segni evidenti della demenza. La memoria episodica è sempre più compromessa, anche a brevissimo termine, e la persona non è più autosufficiente. Nella fase più avanzata essa non è in grado di provvedere alle incombenze più semplici (vestirsi, fare il bagno, pulirsi i denti), non sa usare oggetti comuni e progressivamente perde la consapevolezza di sé. Di regola c’è incontinenza per urine e feci. Manca la consapevolezza della propria condizione mentale e fisica, e quel che dice è talmente sconnesso che è difficile o impossibile capirlo. L’irrequietezza, la paura (ad esempio di rimanere soli) a volte la vergogna, portano spesso a scoppi di violenza verbale e fisica, rendendo indispensabile i sedativi. Nell’ultimo stadio il paziente può sopravvivere solo se accudito in tutto e permanentemente. È una condizione tremenda, la peggiore che si possa immaginare.

Quali sono le cause che determinano o favoriscono l’insorgenza della patologia specificamente diagnosticata come Alzheimer? Nel suo libro si legge che di norma essa si manifesta verso i 65 anni.              

Segni e sintomi della sindrome d’Alzheimer insorgono verso i 65 anni, perché, l’abbiamo visto, le lesioni cerebrali che li provocano peggiorano lentamente. All’epoca di Alzheimer la vita media durava 50 anni, e quindi non solo le demenze ma anche il deterioramento cognitivo, erano rari.

Ancora agli inizi degli anni ’80 del secolo scorso si parlava, a proposito dell’Alzheimer, che aveva iniziato a popolare le case cosiddette protette, di una “silenziosa epidemia”. Oggi essa è una piaga sanitaria e sociale che rischia di finire fuori controllo: la condizione fondamentale che ne determina l’espansione è il progressivo allungamento della durata della vita, che oggi, per maschi e ancor più per femmine, supera gli 80 anni e continua a crescere. L’allungamento di 6 anni dell’attesa di vita ha raddoppiato il numero dei dementi. Oggi i dementi senili nel mondo sono circa 50 milioni, nel 2050, anche con la diminuzione  dell’incidenza annuale in seguito alle misure preventive, si calcola che saranno circa 130 milioni. Se l’età avanzata è la condizione predisponente della demenza le cause sono quelle che determinano una sofferenza cronica del cervello, e che si dovrebbero prevenire: in primo luogo i disturbi cardiovascolari, in particolare l’ipertensione arteriosa a partire dai 40 anni d’età e la fibrillazione atriale non diagnosticate e curate in tempo; inoltre diabete, eccessivo peso corporeo, tabagismo, alcolismo, uso (non solo abuso!) di tutte le droghe, anche della cannabis, ridotta attività fisica, ridotto impegno intellettuale, insonnia, depressione, basso livello della vitamina B12: queste sono le condizioni che compromettono la materia del cervello e portano progressivamente alla demenza. Esse provocano lesioni cerebrali incurabili, e quindi la demenza è irreversibile.

Negli ultimi tempi si sottolinea da più parti e con casistiche molto ampie, che l’ipertensione arteriosa insorge spesso senza disturbi  a 40-50 anni, non viene diagnosticata e quindi non curata per anni, e il danno da essa prodotto nel cervello porterebbe più di altre malattie alla demenza. Da qui la raccomandazione di misurarsi la pressione arteriosa regolarmente a partire dai 45 anni d’età. Questa misura preventiva è in ogni caso opportuna perché l’ipertensione arteriosa provoca molti e spesso gravi disturbi. Con gli apparecchi di oggi ognuno può misurarsela da solo a casa. La demenza non si cura. L’unico provvedimento è la prevenzione, che, ad esempio nel caso dell’ipertensione arteriosa e dei disturbi cardiocircolatori, sta dando risultati sorprendenti. L’informazione circa l’opportunità della prevenzione andrebbe organizzata su larga scala dalla medicina di base.

 Oltre allo stile di vita sbagliato esiste anche una componente ereditaria?

La risposta non é conclusiva, perché non si sa ancora tutto. La lunghezza della vita è un fattore genetico come l’altezza del corpo e il colore dei capelli. Oltre al limite genetico non si può vivere. Quanto a lungo si vive  dipende poi da ciò che si fa e ci succede nella vita. Abbiamo visto quali sono le condizioni che danneggiano il cervello accorciando la vita dei neuroni. Mutazioni genetiche casuali possono accorciare la vita dei neuroni nel senso di una forma genetica della demenza (non ereditaria) contro la quale nulla si può fare. Difficile valutarne la frequenza: meno di un quinto dei casi. Di regola questi pazienti sono più giovani.

Mi pare di cogliere nel suo libro la consapevolezza che la medicina e la ricerca clinica hanno compiuto notevoli passi in avanti nello studio di questa malattia.

Alzheimer, nel 1906, descrisse nel cervello della sua paziente 52enne affetta da “demenza presenile” sostanze che poi trovò in gran  quantità anche in cervelli di persone morte senza demenza. Non tutti i cervelli di dementi avevano quelle sostanze, per cui concluse, secondo la buona regola della medicina,  che se la demenza insorgeva con e senza quelle sostanze, esse non potevano esserne la causa. Ancor oggi si continua a sostenere da molte parti, a dispetto dell’evidenza, che la demenza dell’età avanzata è dovuta alle placche amiloidi e alle fibrille descritte da Alzheimer.  Su questa teoria palesemente falsa si è sviluppata una prassi d’accertamenti con risonanze magnetiche e punture lombari fastidiosa e totalmente priva di senso: la presenza di placche e fibrille, anche numerose, non significa che la persona diventerà demente.  

La diagnosi cosiddetta precoce in pazienti  sani di mente pone certamente un problema non banale di  etica medica. Ce ne vuole parlare?

Certamente. Per la prima volta nella storia della medicina, procedimenti che dovrebbero salvaguardare da danni futuri con diagnosi precoci e precliniche, pongono problemi etici di cui si parla poco. Nei casi di MCI, frequenti in età avanzata, senza disturbi del comportamento, non è lecito spaventare il paziente e i suoi familiari con la previsione d’ammalare di Alzheimer: la prognosi, l’abbiamo visto, è impossibile. Si può vivere con MCI per molti anni o precipitare nella demenza più grave in poco tempo. Si sostiene da più parti, senza fondamento, che la diagnosi precoce, prima dell’insorgenza di disturbi, cioè in persone sane, della presenza di placche e fibrille nel cervello consentirebbe prevenzioni e cure più efficaci. Quali? Non ne esiste nessuna, oltre alle prevenzioni generiche. Che senso ha cercare lesioni in persone sane di mente, di cui non si sa se e quando avranno i mancamenti della demenza? A chi si deve raccomandare un’indagine in uno stadio preclinico della malattia, quando si sa che molti di coloro con placche e fibrille rimarranno sani di mente fino ad età avanzata? E che non si conosce nessun provvedimento per prevenire o rallentare la demenza? La diagnosi di demenza è clinica.

Il medico che si occupa di malattie come l’Alzheimer non è forse  inevitabilmente indotto  a considerare con  trasporto emotivo  anche  i risvolti umani di queste storie dolorose?

Si è già sottolineato che la condizione del malato d’Alzheimer è fra le peggiori che si possano immaginare. Si dice che il paziente non ne è cosciente, e forse questo è vero ed è per lui una fortuna. Ma ci sono momenti, e chi ne ha avuto esperienza non li dimentica, in cui anche il malato grave che sembra ignorare tutto, improvvisamente, quasi sempre urlando, si chiede: “Ma perché tutto questo? Quanto devo ancora vivere così?” Sono momenti di una consapevolezza la cui angoscia è inimmaginabile.