Belin, ed è subito Genova. Lo scavo linguistico della Treccani.

“Oggi nell’italiano parlato in Liguria, scrive Toso, «la forma originaria bellin viene usata come intercalare o segnale discorsivo, smarrendo completamente… la connotazione volgare: in tal senso, può costituire una pausa (‘è entrato lui, e bellin, non ha più parlato nessuno’), introdurre frasi interrogative (‘bellin, non verrà mica anche lui?’) ed esclamative (‘bellin se è buono!’), connotare enfaticamente l’azione (‘non so più cosa fare, bellin’), sostituire un’affermazione (‘bellin se ci andrei!’)”.

Marco Brando

Anche chi non è mai stato in Liguria di solito associa l’identità locale ad almeno due stereotipi: la presunta tirchieria e il ricorso assai ricorrente alla parola belin (dal punto di vista etimologico la grafia corretta è bellin, con la pronuncia be ́liŋ). Quest’ultimo termine, che è anche il nome dato all’organo sessuale maschile, viene usato come intercalare dai liguri doc: sia quando si esprimono in lingua genovese – nelle sue varianti da Ponente a Levante – sia quando parlano italiano. Come spiega la linguista Sabina Canobbio (già professoressa ordinaria all’Università di Torino) nell’Enciclopedia dell’italiano di Treccani, gli intercalari sono «sequenze… che il parlante inserisce qua e là nel discorso, come personali forme di routine e, in modo per lo più irriflesso, per punteggiare espressivamente il discorso stesso… Possono ricorrere più volte in una stessa enunciazione come veri e propri tic».

Un tic o un dio dei Celti?

Ai genovesi/liguri è meglio non dire che l’uso della parola belin è un tic. Potrebbero offendersi (in effetti, un terzo stereotipo attribuisce loro una certa irascibilità). In ogni caso, è un’espressione usata con talmente tante sfumature da riuscire a rappresentare vari stati d’animo e punti di vista; inoltre ha generato una serie di varianti e aggettivi, buoni per diverse occasioni. La linguista cita proprio il termine belìn come «una delle interiezioni “costituite da parole oscene o comunque colpite da un tabu linguistico, più o meno eufemizzate e desemantizzate, spesso marcate regionalmente», tanto da segnalare «la provenienza geografica”» (come pota nel caso dei bergamaschi).

La domanda che molti si pongono è questa: come è nata la parola belìn? Il fatto che in Liguria si usi in maniera così sistematica induce tutti – inclusi gli stessi liguri, perlomeno quelli non-addetti-ai-lavori della linguistica – a ritenere che sia tipica della zona dalla notte dei tempi. Basti pensare che, secondo una delle ipotesi “etimologiche” più pittoresche, deriverebbe dai nomi di due divinità “falliche”: Baal o Belo, di origine semitica/fenicia, o Belenos, caro ai Celti. Spiega GenovaToday: “Questo dio veniva adorato anche dagli antichi Liguri, entrati a contatto con le popolazioni celtiche”. Insomma, in Liguria, secondo questa teoria, si direbbe belin da almeno tremila anni. Per altri, invece, il termine è legato a “budello” o “budellino”, la parte dell’intestino crasso di alcuni animali usata per i salumi insaccati.

Dice il dialettologo

In realtà, il linguista genovese Fiorenzo Toso, specialista dell’area ligure, professore ordinario all’Università di Sassari, ha dovuto deludere i fan dei Celti e pure i salumieri. Lo ha fatto già nel 2015, esaminando la questione nel suo Piccolo dizionario etimologico ligure e, più dettagliatamente, nel volume Parole e viaggio. Itinerari nel lessico italiano tra etimologia e storia. L’intera questione va rivista alla luce della cronologia. In estrema sintesi, la parola bellin – a dispetto della sua popolarità – ha cominciato a “colonizzare” Genova soltanto nell’Ottocento. Il professore cita un anno preciso: il 1894, quando viene attestata per la prima volta. Mentre la variante savonese abbellinou – cioè ‘ingenuo, credulone’ – era comparsa 52 anni prima.

Paròlle do gatto

«Bellin non è attestato in genovese», scrive Toso, «prima di Carlo Randaccio» (Genova 1827 – Roma 1909), che proprio nel 1894 lo tenne a battesimo nel suo volume Dell’idioma e della letteratura genovese. Anche se il derivato abbellinòu, ‘minchione’, «compare nel 1842 a Savona, intuibile per la rima, essendo sostituito (a parte la lettera iniziale e quella finale), da puntini di sospensione: “Tutte cöse che se fan / con pöchìscimi dinæ… / ma se semmo a……æ!» (‘tutte cose che si potrebbero fare / con pochissimi soldi… / ma se siamo scemi!’)”». I punti di sospensione si spiegano col fatto che durante l’Ottocento in Liguria nei confronti dell’intera famiglia lessicale dei termini considerati volgari (le cosiddette parolacce) c’è stato un ostracismo nell’uso letterario. Sono le espressioni definite simpaticamente in genovese pòule o paròlle do gatto. Il professore spiega: sono «quelle che per diffusa convenzione sarebbe bene non pronunciare pubblicamente, da… dare metaforicamente in pasto alla bestiola di casa», come si fa con gli avanzi.

Con Bacigalupo

L’ostracismo durò «almeno fino alla pubblicazione nel 1895 di un’opera che segna per certi aspetti una piccola ‘rivoluzione’ nell’uso scritto del genovese». Succede con la pubblicazione della «parodia dell’Eneide (scritta, appunto, nella lingua locale, ndr) di Niccolò Bacigalupo» (Genova 1837-1904): «Ai toni e ai temi ‘alti’ della tradizione locale comincia a subentrare, come presa d’atto del ruolo ormai debole del genovese come strumento identitario e comunicativo, la piena accettazione della dialettalità, in quanto manifestazione letteraria aperta anche all’utilizzo di voci triviali. In tal modo, la popolarità di una parola come bellin irrompe pienamente nell’uso scritto in tutta la sua complessità semantica». Per esempio, Bacigalupo scrive: «A-o bellin dove semmo? e che manëa / a l’é questa, perdïe, de voei trattâ?» (“Caspita, dove siamo? E che maniera / è questa, perdio, di trattare?”). «Nel poemetto sono anche attestati i principali derivati, alcuni dei quali destinati… ad affermarsi» nel linguaggio usato dai liguri.

 

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