Joe Biden nel corso della sua lunga carriera politica ha accumulato una solida esperienza in politica internazionale, sia in qualità di parlamentare sia durate gli otto anni vissuti da vicepresidente. Le linee guida che seguirà in questo campo, dunque, saranno il frutto anche delle sue personali convinzioni e valutazioni, ancorché confrontate ovviamente con i suoi collaboratori a cominciare dal nuovo Segretario di Stato Anthony Blinken.

In virtù di questa considerazione si è già tracciato il profilo della politica estera americana per i prossimi quattro anni: ripresa del multilateralismo, del dialogo e della cooperazione internazionale sui temi inerenti il clima e più in generale l’ambiente, rilancio della NATO e dell’alleanza con l’UE, confronto assertivo con Russia e Cina, prudenza nella gestione dell’insieme dei dossier medio-orientali, da quello iraniano a quello mediterraneo.

Questo indice riassuntivo implica però una scelta a monte in parziale contrapposizione con gli anni di Obama, ovvero la convinzione che gli Stati Uniti debbano tornare ad assumere il ruolo loro proprio di attori globali nel mondo, anche a tutela dei principi democratici, sempre più marginali in varie aree del pianeta e soprattutto calpestati da potenze autoritarie, la Cina in primo luogo, sempre più minacciose.

Naturalmente ciò non significherà una ripresa delle attività militari, per ragioni d’ordine sia morali sia economiche considerando che la scala delle priorità è dominata dai problemi interni. Ma si orienterà verso una sorta di ripresa energica del sostegno a un’idea delle democrazie viste e intese come non solo baluardo opposto alle spinte illiberali emerse in varie parti del globo (e anche all’interno degli States, come si è visto) ma ancor più come avanguardia di una visione sociale e umanista delle modalità con le quali affrontare tematiche decisive per il futuro dell’umanità, dalla necessaria regolamentazione della rivoluzione digitale o, meglio, dei suoi derivati, quali ad esempio l’intelligenza artificiale, al riscaldamento globale, al nuovo proliferare di barriere daziali e tariffe doganali destinate inevitabilmente, se non controllate, ad accentuare la divisione del mondo in ricchi (pochi) e poveri (molti) favorendo l’attenzione di questi ultimi verso le sirene delle autocrazie promettenti sviluppo e crescita economica a poco (apparente) costo.

Sirene ammalianti che provengono, soprattutto, dalla Cina. Il tema strategico dei prossimi dieci anni e probabilmente assai di più sarà, come chiunque riconosce, il confronto USA-Cina per la primazia mondiale. Questo è ormai assodato. Il punto ora è vedere con quali modalità differenti rispetto al precedente Presidente Joe Biden lo affronterà. Probabilmente cercherà di utilizzare l’arma pacifica del confronto e non quella delle minacce. E’ assai improbabile, al tempo stesso, che egli abbassi la guardia, in ciò senz’altro supportato da un Partito Democratico molto critico nei confronti della potenza asiatica e della dittatura ivi dominante. Il confronto si avvierà là dove lo scontro fra Xi e Trump è stato al calor bianco, ovvero sul terreno degli scambi commerciali. 

Ed infatti nelle more di una transizione troppo lunga a Washington il leader cinese ha messo a segno due colpi niente male. Dapprima l’accordo RCEP (Regional Comprehensive Economic Partnership) con i dieci paesi dell’ASEAN (Association of Southeast Asian Nations) oltre a Giappone, Sud Corea, Australia e Nuova Zelanda: un pacchetto che vale quasi un terzo della popolazione mondiale e che, assai importante è il notarlo, include tradizionali alleati proprio degli Stati Uniti. E poi siglando un accordo sugli investimenti di un certo rilievo addirittura con la UE. Accordo sul quale si è innestata una discreta polemica nei confronti della Cancelliera tedesca, che avrebbe utilizzato il suo semestre di presidenza dell’Unione per favorire la Germania, molto legata commercialmente alla Cina, senza attendere l’avvio della nuova presidenza americana e ponendo così un ostacolo alla ripresa dei rapporti amicali e collaborativi fra UE e USA. Considerazione condivisibile, anche se non si può dimenticare quanto la Cina sia già in Europa, e non per responsabilità della signora Merkel: col Gruppo dei 17+1 (Paesi dell’Europa orientale, Paesi balcanici e Grecia), vera testa di ponte nel continente che si aggiunge allo sbarco in diversi porti mediterranei e non solo che verranno utilizzati quali terminali della famosa Belt & Road Initiative o Via della Seta che dir si voglia.

Insomma, dove l’America è stata se non assente certo meno presente durante gli ultimi anni lì la Cina si è introdotta. Ora la nuova Amministrazione dovrà rispondere, con un inevitabile protagonismo che a oggi però non è dato sapere come si manifesterà. 

Un altro grande terreno, sul quale per la verità Trump ha operato con molta attenzione – al di là del giudizio di merito su quanto fatto – è il Medio Oriente e il mondo arabo più in generale. Si dice che Biden sia propenso a riallacciare il dialogo con Teheran per poi riattivare l’accordo sul nucleare ma non potrà al tempo stesso non tener conto dell’eredità lasciatagli: solide relazioni commerciali, ma anche politiche, con la monarchia saudita e soprattutto una rete di collegamento sunnita che ha condotto al riconoscimento di Israele da parte di Bahrein, Emirati Arabi, Marocco e Sudan, che vanno ad aggiungersi a Egitto e Giordania. Gli “Accordi di Abramo”, come sono stati definiti, hanno lasciato decisamente ai margini la questione palestinese, che una volta, al contrario, dettava l’agenda di quel quadrante geopolitico. 

Terreno minato, al solito, quello mediorientale. Che a Biden non potrà non ricordare le incertezze, e dunque gli errori, di Obama nella vicenda siriana e pure in quella libica. E che hanno determinato, nel tempo, il riaffacciarsi della Russia nell’agone della geopolitica internazionale col suo insediarsi in un Mediterraneo molto caldo lasciato al suo destino inspiegabilmente e colpevolmente da un’Europa assente e assillata unicamente dal problema migratorio senza comprendere che quest’ultimo deve essere affrontato anche politicamente, relazionandosi con le nazioni africane e mediterranee in esso coinvolte. Un terreno di confronto che potrebbe rivelarsi aspro esiste dunque anche con Mosca. E’ invero difficile, oggi, prevedere come esso si svilupperà. Le avvisaglie, con l’esplosione del caso Navalny, non depongono in favore di una dialettica franca ma cordiale, come usa dire il paludato linguaggio della diplomazia. Più probabilmente sarà un confronto duro e non facile.

Resta l’Europa. I problemi aperti sono molti, e non tutti sono stati determinati dall’improvvida presidenza Trump. Che certo ha fatto di tutto per amplificarli (si pensi ai dazi sull’acciaio e sul vino) ma che non è responsabile, ad esempio, delle questioni molto rilevanti relative alla tassazione dei giganti californiani del web. Il rientro degli USA negli accordi di Parigi sul clima è senz’altro un buon punto di rinnovato contatto con una Commissione Europea che sulla lotta al cambiamento climatico ha impostato una quota importante del proprio programma. Dei problemi che potranno sorgere dal recente accordo con la Cina si è detto. Vi saranno nuove discussioni non tanto e non solo sul contributo finanziario alla NATO (il famoso 2% del PIL) quanto su aspetti più specificatamente militari e strategici, sottovalutati dall’Amministrazione Trump ma non adeguatamente considerati neppure da quella Obama.

La questione però più rilevante sarà un’altra, e proprio l’intesa raggiunta dalla UE con Pechino lo testimonia: i rapporti col mondo asiatico, ovvero con tutta quell’area bagnata dall’Oceano Pacifico che già oggi è (e ancor più sarà nel prossimo futuro) la più avanzata e in più forte crescita nell’intero pianeta. Con l’implicita ammissione che è quella la nuova frontiera della politica americana. E lo è inevitabilmente perché gli Stati Uniti dovranno contrastare la evidente volontà cinese di avvicinare a sé gli altri Paesi dell’area, sino ad oggi buoni alleati di Washington. 

La partita strategica è quella. L’Europa dovrà decidere se e come parteciparvi. Restarvi fuori sarebbe un errore imperdonabile. Presenziarvi in qualità di terza forza intermedia fra i contendenti potrebbe rivelarsi un’ambizione esagerata. Collaborare con la Casa Bianca sarà la via più naturale, e aver a che fare con Biden e non con Trump favorirà questa scelta non così fantasiosa. Saranno però le modalità della collaborazione a fare la differenza. E’ su queste che la UE dovrà ragionare, a partire dal giorno seguente il primo cordiale augurio di buon lavoro al neo Presidente degli Stati Uniti. Ovvero da ieri.