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La Voce del Popolo | Al centro con una posizione europeista

Forse è arrivato il momento in cui Bonino, Calenda e Renzi (ordine rigorosamente alfabetico) dovrebbero seppellire le loro grandi, piccole e piccolissime differenze per cercare di mettere insieme una lista comune per le elezioni europee. Obiettivo: unire le forze che temono lo scivolamento dei due maggiori schieramenti verso derive che possono lasciare qualche dubbio sul posizionamento internazionale del nostro paese. 

Non si vogliono seminare sospetti troppo maliziosi e neppure allarmi troppo esagerati. Ma non c’è dubbio che Salvini a destra e Conte a sinistra coltivano al riguardo idee tutte loro. Il primo tifando apertamente per l’antieuropeismo e per la Russia di Putin. Il secondo rompendo le righe sulla solidarietà verso l’Ucraina e nascondendo a malapena la sua preferenza per Trump. 

Si dirà che non è questa l’idea né della Schlein né della Meloni. Le quali però si guardano bene dal rischio (e dal dovere) di sconfessare i loro stessi alleati. Ora, il valore del centro di questi tempi non è tanto quello della sua buona educazione. Semmai deve essere quello della sua posizione atlantista e soprattutto europeista. E per quanti difetti si possano attribuire loro, tutti e tre hanno il merito di aver sempre coltivato a questo riguardo una coerenza adamantina. 

Dunque, non dovrebbe essere così difficile venire a capo delle loro dispute e offrire un punto di riferimento comune a quella larga parte del paese che vorrebbe essere rassicurata sul punto più cruciale dell’agenda politica. E cioè la nostra collocazione nel solco delle alleanze geopolitiche di sempre. Il resto, tutto il resto, conta assai meno.

 

Fonte: La Voce del Popolo – 28 marzo 2024

[Articolo qui riproposto per gentile concessione del direttore del settimanale della Diocesi di Brescia]

Alla domanda di centro non si risponde moltiplicando le liste

Se abbiamo ben capito, Emma Bonino ha posto alcuni paletti per far decollare la cosiddetta ”lista di scopo” in vista del voto per il rinnovo del Parlamento Europeo. E le tre condizioni sono molto semplici ma nette. E cioè, la lista di scopo non è nè un progetto politico, nè una federazione e nè, tantomeno, una prospettiva a medio/lungo termine. Il tutto finisce il 9 giugno sera. Contati gli eurodeputati europei ognuno torna a casa sua. Cioè nel suo campo politico tradizionale. Punto. In secondo luogo la lista di scopo non c’entra nulla con la ricostruzione del progetto politico del Centro a livello nazionale. È solo un escamotage per superare lo sbarramento del 4%. In ultimo, c’è una sorta di simpatico veto su eventuali candidati ex democristiani nelle liste.

Ecco perchè, e soprattutto dopo questo accordo tecnico/elettorale, se dovessimo fare un rapido censimento per capire quante sono le aggregazioni o i partiti centristi in vista del voto dell’8-9 giugno, ne contiamo sostanzialmente tre.

Innanzitutto Forza Italia che, sotto la guida di Antonio Tajani, ha assunto un ruolo politico e programmatico di tutto rispetto riscuotendo maggiori consensi, e soprattutto stima e rispetto, nell’area moderata e riformista italiana. Una lista che, almeno stando ai sondaggi, si dovrebbe avvicinare alla doppia cifra. Vedremo, ma è indubbio che il ‘nuovo corso’ di Forza Italia, e paradossalmente dopo la pesante e storica leadership di Berlusconi, ha segnato un significativo ‘valore aggiunto’ sul versante politico e dell’immagine complessiva del partito.

A seguire, come già ricordato all’inizio, la ‘lista di scopo’ tra il partito di Renzi, Italia Viva, i radicali dell’intramontabile Emma Bonino e qualche altro cespuglio. Con veti e pregiudiziali continui e ripetuti – come sentenziano ad ogni ora i vari referenti radicali – nei confronti di tutti quegli esponenti centristi o ex democristiani o popolari che non sono graditi in questa neo formazione. È di tutta evidenza che si tratta di una operazione elettorale, del tutto scontata e legittima, che punta solo ed esclusivamente a superare lo sbarramento del 4% ma che non coltiva nessuna ambizione politica futura.

In ultimo, almeno così pare sino ad oggi, la presenza autonoma di Azione, il partito di Carlo Calenda. Se non capitano ribaltamenti dell’ultima ora, sempre possibili nella politica fluida e liquida italiana, Azione andrà per conto suo con la sua ricetta politica, programmatica ed organizzativa sfidando con un pizzico di terrore sino alla fine della campagna elettorale la tagliola del 4%.

Ora, e di fronte a questa concreta situazione, è abbastanza facile arrivare alla conclusione che il peso elettorale delle tre liste sarà l’elemento decisivo ed essenziale per cercare di costruire – o ricomporre – il Centro politico, riformista e plurale nel nostro paese dopo il voto europeo. È altrettanto evidente che non può essere un Centro diviso, frammentato e polverizzato l’orizzonte entro il quale si costruisce, si rafforza e si consolida un progetto centrista, riformista e di governo.

Al contrario, questa rischia di essere la premessa per la sua dissoluzione o, meglio ancora, il non decollo. Eppure la domanda di Centro esiste e lo confermano quotidianamente i vari sondaggsiti. Ma per tradursi in una vera e credibile offerta politica è altrettanto evidente che si dovranno superare definitivamente ed irreversibilmente i personalismi, i veti, i rancori e le pregiudiziali – ovviamente di carattere personale e non affatto politiche o programmatiche – che nel tempo si sono infiltrati ed ossificati nella galassia centrista del nostro paese.

Infine, forse è ancora bene sottolineare che nel processo di ricomposizione della vasta e plurale area centrista sarà sempre più necessario ed indispensabile garantire la piena cittadinanza di quelle culture che storicamente hanno saputo costruire e rafforzare una ‘politica di centro’ e, al contempo, un progetto politico con un forte profilo centrista, riformista e di governo. Tra queste, la cultura del cattolicesimo popolare e sociale, senza la quale qualsiasi progetto centrista sarebbe destinato a sbattere contro gli scogli dell’improvvisazione, del pressappochismo e della superficialità.

Mons. Gallagher invita a guardare oltre la logica della guerra

Le due recenti interviste di monsignor Paul Richard Gallagher, Segretario per i Rapporti con gli Stati e le Organizzazioni Internazionali, il ministro degli Esteri della Santa Sede, al Tg1 e alla rivista dei gesuiti americani, “America”, contribuiscono a orientare il dibattito internazionale in questa fase delicatissima. Tre in particolare sono i punti, della posizione del Vaticano, ribaditi dal presule inglese, con specifico riferimento alle due maggiori guerre in corso: quella russo-ucraina e quella israelo-palestinese. La situazione in cui siamo attualmente, è una situazione “lose-lose”, in cui tutti perdono. La guerra non risolve i problemi, li aggrava e poi, comunque vadano, “tutte le guerre finiscono con una qualche forma di negoziazione”. Il terzo punto è la consapevolezza che la transizione geopolitica in corso è in ogni caso irreversibile, non saranno le armi a fermarla, e dunque per monsignor Gallagher appare “inevitabile” che quando la guerra finirà “ci sarà un nuovo ordine mondiale” caratterizzato da “più gruppi alleati nel mondo “, non solo Est e Ovest.

Credo che questa visione degli attuali problemi internazionali ci aiuti a considerarli da un’altra prospettiva. E anche in Italia le due suddette interviste  possono costituire uno stimolo per tutti, compresi i cattolici impegnati in politica e nelle varie forze politiche di maggioranza e di opposizione, a coniugare la lealtà e la solidarietà dell’Italia con il sistema di alleanze in cui è inserita con la necessità nel dibattito culturale, politico e mediatico di non alimentare delle narrazioni che invece concorrono a fare andare le cose nel senso opposto a quello auspicato da tutti.

Fermo restando, dunque, il contributo del nostro Paese alla linea decisa di comune accordo dalla Nato e dalla Ue, va nel contempo tenuta in considerazione la prospettiva generale in cui gli eventi bellici si collocano. Si deve considerare che comunque la guerra in Europa, anche nel caso malaugurato che si dovesse ulteriormente inasprire ed estendere, non garantirà la continuazione dell’egemonia occidentale sul mondo, ma anzi otterrà, come sta già succedendo da un decennio, una clamorosa eteogenesi dei fini. La Russia, che dal 1997 al 2014 è stata addirittura membro del club dei maggiori Paesi occidentali, il G8, è stata progressivamente spinta a stringere legami più stretti con Cina, India e Sud del Mondo, a causa di interventi destabilizzanti operati in Ucraina da gruppi di interessi privati, al di là della stessa volontà del governo americano di fare scoppiare la polveriera ucraina. 

Ora si deve raffreddare la situazione, aggravata dalla brutale invasione dell’Ucraina da parte della Russia  nel 2022, e sarà molto più difficile rimettere insieme i cocci, tentando di tornare possibilmente alla situazione iniziale, di una Ucraina reintegrata di tutti i suoi territori e nel contempo neutrale, non nella sfera di influenza russa e neanche in quella americana e inserita in un nuovo ordine internazionale dove non uno solo, ma più sistemi di alleanze concorrono a definire la politica globale.

Se invece si insiste nella narrazione della guerra come unica via da continuare a percorrere, e non si danno nuove chance alla diplomazia, si rischia di produrre qualcosa che assomiglia al fratricida e annoso scontro franco-tedesco del secolo scorso. Mentre tra Otto e Novecento francesi e tedeschi si scannavano per l’egemonia in Europa, a vincere alla lunga furono il Regno Unito e gli Stati Uniti. Nello scenario multilaterale attuale anche la guerra russo-ucraina-europea può esse vista come una guerra fratricida. E mentre Europa e Russia si combattono, il resto del mondo, guidato da Cina, India, Brasile prende il sopravvento. 

Vi è per questo l’urgenza che anche l’Occidente (per l’esattezza ormai solo più alcuni ristretti circoli ancora arroccati a difesa dei loro privilegi derivanti dall’unilateralismo e capaci di tutto per non rinunciarvi) si convinca che occorre contribuire al passaggio da una situazione “lose-lose” provocata dalla guerra a un sistema improntato alla logica “win-win”, di comune vantaggio per tutti. Non farlo, e crogiolarsi in narrazioni autoreferenziali, che non reggono al di fuori dell’Occidente, come sta succedendo ad esempio per la narrazione sull’Isis, può solo contribuire ad accelerare il declino anziché giovare alla rinascita dell’Occidente in un mondo sempre più multicentrico.

Via crucis, Pilato lascia spazio al peccato che incombe.

Malgrado l’iniziale esitazione di Pilato, la sentenza fu di condanna. C’era da accontentare il potere dei sacerdoti e dare soddisfazione al popolo appositamente sobillato per chiedere la giustizia che a loro piaceva secondo le convenienze della tasca. 

La guerra sparge ovunque i mattoni deturpati dalle schegge delle bombe, palazzi collassati dalla paura di altri colpi definitivi a condurli a morte, un continuo via vai di sfollati, strade desolate, d senza più spina dorsale, spezzate dalla polvere da sparo che ne intossica la tenuta. Tutta intorno, più vasta delle nuvole, la fame che ammanta gli spazi, mordendo per prima la pancia dei bambini. È questa la grazia che invocano gli adulti venendone sempre esauditi. Se piangono per la fame, non hanno lacrime per gli spari che piovono da ogni parte, così difendendosi dalla paura.

È venerdì. Pilato si è fatto da parte lasciando spazio al peccato di cattiveria che incombe. Da allora sono passati oltre duemila anni ma il quadro è del tutto attuale. Si dà inizio alla flagellazione, diversa da quella che conosciamo. Si intuisce appena un barcollante scheletro della casa di Pilato, ad occhio umano non si vedono soldati né ombra di altri presenti. C’è un vuoto assoluto, anche l’aria si è fatta da parte. Solo Cristo a ricevere colpi a più non posso da una mano ed una frusta invisibile. Manca persino la colonna a cui legare il suo corpo. Lo scenografo divino ha deciso così.

C’è un silenzio che fa inorridire un dolore che geme per non riuscire a dare spettacolo, a digiuno di condivisioni con uomini e donne a fare contorno alla esecuzione. Non sa su chi abbattersi e come eccitare i cuori dei carnivori che adorano vedere il sangue schizzare dalla schiena del condannato.

Il dolore si sente solo; forse urla ma non ha chi possa sentirlo, si sgola all’impazzata almeno per far in modo che egli stesso sia uno spettatore a cui arrivare. La schiena di Cristo è il crocevia delle parole dette nei secoli da uomini contro che se le dicono di santa ragione, da un tempo senza tappe. Ogni sillaba è una frustata che approda con la presunzione di essere quella definitiva e chiudere la partita, dicendo agli altri della vittoria. Un istante dopo, la replica di altre lettere e altre scudisciate di quelli che non si arrendono ed hanno ancora da dire la loro.

Il corpo di Cristo è un alfabeto scomposto di urla lacerate, accumulate nei millenni, che non trattengono più l’ordine della grammatica. Un giorno le tonsille si riposeranno ma il figlio di Dio è ormai segnato per sempre. Anche a Lui è stata tolta di imperio la parola. Gli hanno lasciato dei rantoli incomprensibili che suonano alle orecchie dei violenti come di provocazione, dal suono di vendetta ed allora ancora giù botte e colpi fino allo sfinimento.

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Putin alza il tiro e punta all’Europa

Fonti vicine alla Casa Bianca, al Pentagono e al Dipartimento di Stato avanzano l’ipotesi che Putin, intensificando per numero e potenza di fuoco l’aggressione militare all’Ucraina, punti a giocare allo scoperto, avvalendosi di minacce e provocazioni: non più ‘operazione militare speciale’ ma dichiaratamente “guerra” vera e propria, estesa “oltre”, a cominciare dai Paesi Baltici, in primis l’Estonia. Come se il mondo che osservava cosa stava accadendo in questi due anni fosse stato composto da un’accozzaglia di minchioni disposti a credere al teorema della denazificazione e della riconquista delle sole regioni orientali dell’Ucraina. 

Non bastano le blasfeme benedizioni del Patriarca Kirill (ex KGB) a convincere il popolo russo sull’apertura delle porte del Paradiso per coloro che si immolano per la Patria. Aver perso più di 300 mila uomini sui campi di battaglia non ha indotto lo Zar a ripensamenti: la strategia era stata elaborata da tempo e puntava lontano. Le elezioni plebiscitarie-farsa al quinto mandato (inframmezzato dalla parentesi puramente formale del rincalzo Medvedev) con l’87% dei consensi, l’omicidio di Navalny e Prigozin e gli arresti di altri oppositori al regime stanno rinsaldando Vladimir Vladimirovic nel convincimento che nulla gli è precluso : un delirio di onnipotenza che va fermato senza permettergli di alzare l’asticella dei suoi ricatti. 

La violenza crescente con cui si sono intensificati i bombardamenti, il lancio ininterrotto di missili e droni non lascia spazio a possibili negoziati: ciò che chiede la comunità internazionale e ciò che il popolo stesso vorrebbe sono elusi dai progetti incendiari del Cremlino. Ormai l’asservimento dell’establishment interno è (apparentemente) totale e paradossalmente giova alla causa belligerante di Putin la strage terroristica alla Crocus City Hall di Mosca in cui hanno perso la vita almeno 139 persone mentre il numero dei feriti ha superato le 300 unità. 

La reazione dello Zar è apparsa calcolata e sequenziata: dopo il silenzio iniziale, l’ammissione che l’attacco terroristico è stato realizzato da un commando dell’ISIS, che peraltro ne ha rivendicato per due volte la paternità. Subito dopo la distinzione tra esecutori e mandanti del gesto criminoso in danno di innocenti cittadini, ha preso subito corpo la pista della matrice ucraina, con l’appoggio strategico degli USA e del Regno Unito (che simbolicamente, nell’immaginario collettivo rappresentano l’icona del mondo occidentale e della NATO). Dopo l’arresto sotto tortura dei 4 esecutori materiali della strage e di altri complici, la loro confessione non è bastata per identificare la fonte islamica dell’attacco. Dopo il discorso esplicito dello Zar sono intervenuti Nikolai Patrushev, segretario del consiglio di sicurezza, Alexsandr Bortnikov capo del servizio segreto FSB e Dimitri Peskov, portavoce del Cremlino per chiudere il cerchio: “gli attentatori sono stati addestrati in Medio Oriente sotto la guida di Kyiv, tanto è vero che dopo la strage al Crocus Cyti Hall sono fuggiti – -sulla stessa auto con cui erano arrivati – in direzione dell’Ucraina”. 

Peccato che proprio il Presidente della Bielorussia e fedele alleato di Putin, Aljaksandr Lukasenko, abbia smentito questa via di fuga e di “reimpatrio” affermando che gli attentatori integralisti islamici fossero diretti a Minsk, proprio per evitare il controllo al confine ucraino, il più militarizzato e presidiato del territorio. Ma il teorema della matrice ucraina con il supporto di USA e G.Bretagna era stato studiato a tavolino per giocare il risiko dell’escalation e coinvolgere in un colpo solo Kyiv e l’Occidente. Intanto l’agenzia Bloomberg scrive che “secondo quattro fonti vicine al Cremlino non ci sono prove del coinvolgimento di Kyiv nell’attacco terroristico” mentre gossip anonimi di Mosca confermano che Putin stesso era presente quando i suoi funzionari politici erano giunti a questa conclusione. 

Ciò nonostante TV e stampa – a cominciare da Vladimir Solovev – hanno martellato l’opinione pubblica russa – “fresca di elezioni plebiscitarie” – con un crescendo accusatorio contro Kyiv e “l’Occidente intero”. Girano intanto dei filmati degli oppositori interni russi secondo cui agenti dell’FSB erano fisicamente presenti nel teatro per allontanarsene chiudendo le vie di fuga prima delle raffiche di mitra che hanno falcidiato gli spettatori. Il teorema del coinvolgimento, di più, della matrice ucraina dell’attentato consente tuttavia a Putin, appena riconfermato Presidente di calare le sue carte, barando come ha sempre fatto secondo un teorema criminale che non riconosce il diritto di autodeterminazione dei popoli, eliminando fisicamente l’ opposizione interna e giocando sporco quando afferma di essere sempre stato disposto al negoziato mentre la distruzione dell’Ucraina è stata un crescendo impressionante di attacchi di ogni tipo, da Bucha a Mariupol, da Kharkiv a Zaporizhzhia, da Odesa a Kyiv, diurni, notturni, senza un solo giorno di tregua. 

L’Ucraina è il chiodo fisso di Putin, già dal momento in cui è salito al potere per volere di Eltsin; con la sua invasione tuttavia si sta dipanando un piano più ambizioso che mira all’Europa, all’Occidente e allo scontro con la NATO. Le strategie di lungo periodo dello Zar sono ambiziose e giocano anche sul sostegno diretto o indiretto di Cina e India: il suo piano dovrebbe in teoria concludersi entro questo quinto mandato presidenziale. 

Nel frattempo l’Europa inizia forse a capacitarsi di un pericolo imminente che va oltre le forniture di gas e il commercio di grano, oltre le stesse sanzioni doverosamente implementate, giacché appare all’orizzonte la catastrofe di un possibile attacco ai Paesi Baltici e ai confini occidentali dell’Ucraina. Fa specie, per quanto ci riguarda una certa superficialità con cui l’Italia si prepara alle elezioni europee: il refrain è sempre lo stesso: candidature, capilista, alleanze, manuale Cencelli, dominio dei partiti che non tengono conto dei problemi della società civile che ad onor del vero – parliamo delle tasche e degli interessi dei cittadini – guarda con sospetto e indifferenza l’appuntamento elettorale. Proprio nel momento in cui si addensano all’orizzonte nubi fosche e tristi presagi e qualcuno comincia a pensare all’utilità di un esercito europeo e – in primis – ad una coesione e compattezza necessarie. Finora l’Europa ha lanciato a Putin segnali di diffidenza ma anche di intrinseca debolezza. Dai talk show dopo i TG italiani emerge ad esempio quanto il filoputinismo sia infiltrato, riuscendo a mistificare e falsare le informazioni, e quindi alimentando lo sconcerto.

PoliticaInsieme | La democrazia d’investitura costituisce una brutale semplificazione.

[…]

Si è ripetuto in questi ultimi tempi che la proposta Meloni si porrebbe in un punto di mediazione tra eccessi del parlamentarismo e governabilità, ma essa risulta invece più estremista rispetto a quella del Presidenzialismo elettivo americano, perché ivi è rispettata rigorosamente la separazione dei poteri [Lo si vede attualmente, ogni giorno, dalla difficoltà che ha il Presidente Biden a far approvare dal Congresso – che alla Camera dei Rappresentanti ha una sia pur piccola maggioranza repubblicana – gli aiuti in armi all’Ucraina].

Infatti «il ddl. in esame si colloca al di fuori dei canoni ordinari che il costituzionalismo contemporaneo ha individuato come essenziali per la garanzia di democraticità del sistema e dei principi dello Stato di diritto» (ASTRID, Paper n. 93, Costituzione quale riforma? La proposta del Governo e la possibile alternativa, Passagli, ed. 2024).

Lo aveva espresso con icastica arguzia fiorentina il politologo prof. Sartori quando, scrivendo di Ingegneria costituzionale comparata, aveva sentenziato: «L’inserimento in un sistema parlamentare di un premier non rimuovibile eletto direttamente, è come mettere una pietra in un motore» [op. cit. VI ed. 2013, p. 131].

Detto ciò bastano adesso poche osservazioni sul tentativo della ultravolontaristica mediazione portata avanti da Libertà Eguale (Morando, Tonini e Ceccanti) e dalla Fondazione Magna Carta (Calderisi, Quagliariello e altri) che mira ad ottenere un testo condiviso, in quanto approvato dai 2/3 dei parlamentari, così da evitare il referendum costituzionale.

Su di esso, però, non tanto sul tentativo ma sulle premesse di queste avances, si è resa protagonista anche la ministra Casellati, che è andata al recente Seminario dove si discuteva sul da farsi, per ribadire che «dopo avere fatto tante concessioni all’altra parte [supposte concessioni dico io] resta però un punto ineludibile e non negoziabile, cioè l’elezione diretta del premier».

Ebbene se le cose stanno così, se il cuore della madre di tutte le riforme sta nell’elezione diretta della signora Meloni, allora il tavolo del negoziato non si apre neppure. Invece, se venisse rimossa questa pregiudiziale, si potrebbe intervenire a latere con poche modifiche mirate della Costituzione, che peraltro potrebbero essere veramente in numero minimo, anche perché gli elementi prevalenti sono senz’altro quelli di modifiche dell’assetto istituzionale con leggi ordinarie, a costituzione invariata.

Ma, insieme a ciò, si dovrebbe fare ben altro, mi riferisco a una profonda riscrittura della legge elettorale, vigente – il cosiddetto Rosatellum – così da eliminare tante storture presenti in questo momento: dalle liste bloccate alle pluricandidature. Penso all’opzione possibile per un maggioritario a doppio turno oppure per un proporzionale corretto, così da ottenere quanto è indispensabile per la governabilità, ma non di più, non eccessivamente su questo piano. A tale proposito sia la legge elettorale tedesca e la connessa sfiducia costruttiva, sia la legge elettorale spagnola potrebbero andare bene per il nostro caso.

Si tratterebbe poi di intervenire, finalmente, con una legge sui partiti politici, di attuazione dell’articolo 49 Costituzione, compresa la loro democratizzazione interna ed incluso il finanziamento pubblico, possibilmente contribuendo alle loro spese di funzionamento. Sarebbe un sostegno, neppure troppo indiretto, alla vita democratica.

Si potrebbe, anzi si dovrebbe intervenire e si deve intervenire sul bicameralismo perfetto e paritario, non nel modo incerto e confusionario del progetto Renzi, ma in altro e diverso e modo, tenuto conto anche di una necessaria rivitalizzazione delle autonomie regionali e locali e di una effettiva crescita dei principi di sussidiarietà e di solidarietà, ridando slancio anche al Terzo Settore e al protagonismo dei corpi sociali intermedi.

Si dovrebbe intervenire sui Regolamenti parlamentari, sullo statuto di garanzia per l’Opposizione, così come sulla disciplina dei decreti legge, maxi emendamenti e quant’altro. Ecco tutto questo si può fare con la legislazione ordinaria senza toccare la Costituzione e ricavando un beneficio di democraticità e di efficienza delle nostre istituzioni.

Da ultimo voglio terminare con due citazioni. La prima di Leopoldo Elia, nel testo prima citato, che dice così: «La nostra forma di governo può certo essere razionalizzata, ma non pervertita passando dalla delega ai vertici dei partiti, quale purtroppo c’è oggi, a quella illimitata ad un uomo o/a una donna soli; al contrario è necessario che la politica non sia sospesa, ma continui e perché con essa nessuno possa sottrarsi al principio di responsabilità» [Costituzione, una riforma sbagliata, cit., p. 367].

Da ultimo termino davvero con alcune riflessioni di una personalità importante, il cui nome vi dirò alla fine, e questo riguarda anche il punto toccato precedentemente del tentativo in corso di migliorare il testo e di addolcirlo in una seconda lettura. Ci ammonisce così questa autorità: «Alcuni esponenti della maggioranza parlamentare hanno affermato che il testo in via di approvazione verrà corretto o almeno migliorato, ma si tratta di un testo non migliorabile, che neppure si può correggere salvo una completa riscrittura estremamente difficile. I caratteri di fondo, il DNA, di questo testo sono identificabili in questi punti: un sistema di governo impraticabile, con forti rischi di paralisi istituzionale; un Primo ministro über alles; un significativo affievolimento del ruolo di arbitraggio del Presidente della Repubblica. Si tratta di caratteri che rendono il testo irrecuperabile, salvo a cancellare ogni cosa e a scriverlo daccapo, per intero.

Arrivo alla conclusione e che è questa: il testo così come oggi è, non è suscettibile di miglioramento. Si tratta di un testo il cui impianto è assolutamente da respingere. Va pertanto accolto il suggerimento di Leopoldo Elia volto a rappresentare alla pubblica opinione la gravità delle conseguenze di approvazione di questo testo. Non si tratta di un intento strumentale, perché realmente disastrosi sarebbero gli effetti di queste dissennate modifiche della Costituzione».

Adesso avrete la curiosità di sapere chi ha scritto parole così chiare e nette, tali da essere intitolate “Un testo dissennato e irrecuperabile”. L’autore che è stato da me fedelmente riportato si chiama Sergio Mattarella, (op. cit., pp. 213-215).

Concluderei dunque così: è opportuno – equum et salutare – restare nell’alveo della forma di governo parlamentare opportunamente razionalizzata e fondata sull’equilibrio tra i poteri, facendo tesoro delle migliori esperienze parlamentari dei Paesi europei, che non prevedono né l’elezione popolare né l’indicazione obbligatoria del Primo ministro.

 

Per saperne di più

https://www.politicainsieme.com/no-alla-democrazia-dinvestitura-di-enzo-balboni/

Dibattito | Il tentativo di Renzi di rifare il centro.

È condivisa l’idea che da soli e divisi non si va da nessuna parte, nel migliore dei casi, come è accaduto in questi anni, ci si riduce al ruolo di subalterni ininfluenti a destra o a sinistra. Il ruolo di esponenti dell’area ex Dc o popolari svolto in partiti di destra o di sinistra, come ben ci ammoniva Donat Cattin riferendosi ai cosiddetti “indipendenti di sinistra” (ma vale anche per quelli di destra), alla fine, è quella di coloro che si ridurranno a sperimentare come sia sempre “il cane che muove la coda”. 

Il tema della ripresa di un ruolo politico dei cattolici in Italia, già sottolineato dall’insegnamento degli ultimi papi, è stato recentemente evidenziato dai vescovi lombardi e non dovrebbe risultare estraneo nemmeno alle più alte gerarchie della Chiesa italiana. 

E l’altro tema, quello di un rinnovato soggetto politico che intenda assumere, nella totale autonomia e responsabilità laicale, l’ispirazione dall’umanesimo cristiano e dai principi della dottrina sociale cristiana, appare vieppiù cruciale; e cruciale se si vuole concorrere alla nascita di un centro nuovo della politica italiana, alternativo alla destra nazionalista e sovranista e alla sinistra alla ricerca affannosa della propria identità, attualmente condizionata da orientamenti di stampo radicale lontani dalla sua storica tradizione. Un centro ampio e plurale in cui possano ritrovarsi le migliori tradizioni repubblicane, unite dalla volontà di difendere e attuare integralmente la Costituzione. 

Ciò, per quanto ci riguarda, presuppone la ricomposizione della nostra area politica, sociale e culturale, vittima della suicida diaspora post-democristiana, per troppo tempo alla mercè di divisioni dettate da egoistiche logiche personalistiche, tuttora in atto. Le elezioni europee, regolate da una legge di tipo proporzionale, avrebbero dovuto essere l’occasione speciale per superare le vecchie casematte e per dar vita a una lista unitaria dei Democratici cristiani e Popolari. 

In realtà non abbiamo avuto la determinazione di impegnarci nella raccolta delle firme e, adesso, per quella strada non ci sarebbe più tempo. Divisi sulle prospettive di appartenenza alle diverse famiglie politiche europee, come conseguenza più delle scelte compiute e che si intendono consolidare in campo nazionale, tutte foriere di ruoli subalterni come su indicato, ciascuna di queste diverse realtà si sono orientate verso liste di amici di destra o di sinistra.

Conseguenza di tutto questo, il rischio di incrementare le fratture e le difficoltà di ricomposizione. Avendo come obiettivo strategico la nascita del nuovo centro della politica italiana, noi Democratici cristiani e Popolari, impossibilitati a costruire una lista da soli, dovremmo cercare di concorrere alla costruzione di una lista compatibile con i nostri valori e tale da porsi come strumento di ulteriore aggregazione al centro. Se non ora,  successivamente. Non mancano tentativi in questa direzione, volti a organizzare una lista di area centrale di Democratici cristiani e Popolari con Matteo Renzi e il partito di Italia Viva, non solo per eleggere qualche deputato al parlamento europeo, ma, soprattutto, per avviare il progetto del nuovo centro politico che sarebbe quanto mai prezioso per l’Italia.

Un’iniziativa che dovrebbe essere favorita dalla più ampia realtà del mondo cattolico italiano, se non vogliamo disperdere quanto di positivo la cultura politica dei cattolici democratici, liberali e cristiano sociali hanno saputo esprimere nella lunga storia dell’unità nazionale, drammaticamente interrotta con l’uccisione di Aldo Moro, la fine della prima repubblica e la successiva diaspora democratico cristiana. Spero che possa prevalere il buon senso e la disponibilità di quanti, al di là degli interessi personali dei singoli, sapranno operare per favorire la riuscita di questo progetto.

Condizioni geopolitiche internazionali e le difficoltà istituzionali interne rappresentate dall’ormai permanente astensione elettorale e conseguente rottura dell’equilibro tra gli interessi e i valori dei ceti medi produttivi e delle classi popolari, con un perdurante patologico bipolarismo forzato da una legge elettorale da cambiare; ecco,  condizioni come queste, importanti e gravi, reclamano la nascita di un centro politico nuovo che con molti amici Democratici cristiani e Popolari andiamo invocando da tempo. Un progetto che non può più essere rinviato.

AsiaNews | Mosca nell’occhio del mirino dei terroristi dell’Isis-K.

Vladimir Rozanskij

 

La cellula dell’Isis legata all’Afghanistan, il Vilayat Khorasan noto come “Isis-K”, ha rivendicato da subito la paternità dell’assalto alla Krokus City Hall in periferia di Mosca con la strage di 137 persone e centinaia di feriti. E l’autenticità di queste dichiarazioni è supportata anche dai video girati dagli stessi terroristi, nonostante i tentativi di Putin e dei russi di indirizzare i sospetti sui “nazisti ucraini” che addestrerebbero i terroristi contro la Russia per conto degli americani e dell’intero Occidente.

L’Isis-K è apparso per la prima volta nel 2014, come gruppo fiancheggiatore dell’Isis in Iraq, e il nome “Khorasan” richiama una regione poi scomparsa che si estendeva sui territori di Afghanistan, Iran e altre zone dell’Asia centrale. I suoi aderenti agivano nelle zone settentrionali e orientali dell’Afghanistan, ma nel 2019 furono sopraffatti nei combattimenti sia contro i talebani, sia contro la coalizione occidentale ancora presente nel Paese. In un rapporto del Consiglio di sicurezza dell’Onu del 2023 si parlava però di una crescita del movimento, che aveva superato i 6 mila miliziani, raccogliendo cittadini di Afghanistan, Azerbaigian, Iran, Russia, Turchia, Tagikistan e Uzbekistan.

Secondo l’analista di questioni militari, e ufficiale della polizia israeliana Sergej Migdal, l’attentato di Mosca è stato molto probabilmente organizzato dall’ala afghano-tagica dell’Isis-K. A suo parere, “la vergognosa ritirata degli americani del 2021 ha poi permesso al governo dei talebani di Kabul di mostrarsi come amici della Russia, e i suoi membri dalle lunghe barbe che passeggiano liberamente al Forum economico di San Pietroburgo, presto parteciperanno a concorsi musicali o sportivi insieme ai bielorussi e ai cinesi”. Il Khorasan in realtà reagirebbe a questa situazione, rimanendo storicamente avversario dei talebani, ritenuti “troppo morbidi” nel perseguire la vera purezza dell’Islam radicale.

L’Isis si mostra contrario anche al regime islamico iraniano, diventato a sua volta uno dei principali partner della Russia in Medio Oriente. Questo sarebbe il motivo dell’attentato compiuto a gennaio durante la cerimonia per l’anniversario dell’uccisione del generale Qasem Soleimani, dove oltre cento persone sono morte in seguito alle esplosioni provocate dal Vilayat Khorasan. “La Russia appoggia i talebani e gli iraniani perché sono contro l’America, non certo per amore delle pratiche islamiche – osserva Migdal – e l’Isis con la sua sezione afghana vede la Russia come principale sostegno ai suoi due peggiori nemici, i regimi di Kabul e Teheran”. Alcuni mesi fa ci fu anche un attentato proprio contro l’ambasciata russa in Afghanistan.

A soffrire particolarmente di questo intreccio di ostilità è poi proprio il Tagikistan, che vede molti suoi cittadini unirsi alle truppe afghane dell’Isis, vista l’impossibilità di esprimere posizioni islamiche radicali all’interno del Paese. Secondo il presidente Emomali Rakhmon, soltanto negli ultimi tre anni sono stati compiuti attentati in 10 Stati diversi con la partecipazione di 24 cittadini tagichi, che vengono spesso arruolati anche solo per soldi, sfruttando la vicinanza etnica e le tendenze religiose. Questo certo non giova alla reputazione di un Paese già considerato una delle peggiori dittature dell’Asia centrale, che deve subire anche lo smacco di essere associato al terrorismo e all’estremismo.

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Per saperne di più

https://www.asianews.it/notizie-it/Il-Vilayat-Khorasan-tra-Russia-e-Tagikistan-60426.html

Per una politica umana: la riscoperta del cattolicesimo democratico.

La comunità italiana è profondamente smarrita, meglio angosciata. Da una parte la guerra “parziale” in uno con un crescente clima di odio, dall’altra un profondo dualismo tra la “narrazione” economica dell’ultimo ventennio e la realtà vissuta da decine di milioni di italiani, ha creato un quadro di grave rottura del principio di rappresentanza (democratica) come può evincersi dalla netta caduta dell’esercizio del diritto di voto (alle ultime politiche affluenza alle urne del 64%).

Tralasciando, per ora, gli effetti dei nuovi drammatici scenari geopolitici appare fondamentale indagare il malessere italiano dalla parte del dualismo tra narrazione economica e realtà vissuta dai cittadini.

Il cuore della narrazione economica è rappresentato dall’andamento del PIL nazionale nell’ultimo ventennio pari all’1,8% (equivalente ad una sostanziale stagnazione reale) sapientemente prospettato (TG dopo TG) come l’indice significativo di un andamento positivo dell’economia. Una fake news colossale che, non corrispondendo alla vita reale delle persone, disorienta e allontana dalla politica.

Ma perché si tratta di una fake? Procediamo con ordine. Un PIL reale stagnante non è mai un buon indicatore tranne che sia in atto una profonda modifica strutturale dell’economia come la dismissione di un settore bellico o la conversione di un altro (dalle automobili alle bici). Dunque il PIL reale italiano è già di per sé un indicatore della crisi italiana. E ciò senza considerare tre elementi che nel tempo hanno modificato profondamente il suo stesso “valore”.

Intendiamo riferirci alla “monetizzazione” dei prodotti servizi del PIL, alla sua patologizzazione e all’inedita concentrazione dello stesso (in termini di quota percentuale del reddito e del “patrimonio” detenuto dall’1% della popolazione).

All’inizio del terzo millennio abbiamo assistito ad una accelerazione del processo di monetizzazione, inteso come attribuzione di valore a beni definibili comuni. Si pensi all’esternalizzazione dei servizi familiari (una casalinga non produce reddito ma se decide di lavorare crea un doppio reddito: il suo e quello della donna di servizio che dovrà assumere per le faccende familiari). L’acqua pubblica non ha un valore monetario, quella privata cresce ogni giorno di più. Venti anni fa una partita di coppa dei campioni trasmessa dalla RAI valeva zero PIL, oggi i diritti televisivi del calcio e di tutti gli altri sport valgono intorno al 2% del PIL.

Parallelamente il PIL ha assorbito la valorizzazione di prodotti/servizi umanamente patologici, senza per questo volere esprimere giudizi morali. Si pensi all’inedito PIL prodotto dalle scommesse di gioco, dal consumo di alcool, dal fumo, dalla pornografia, dal cibo spazzatura. Come se ciò non bastasse il PIL (nella sua veste reddituale) ha subito una profonda redistribuzione a favore dell’1% della popolazione che ai nostri giorni detiene il 40% del patrimonio e guadagna il 25% del reddito nazionale.

L’effetto combinato di queste tre inedite tendenze porta ad una stima di un’effettiva diminuzione del PIL “buono” (come direbbe Draghi) per il 99% della popolazione italiana nell’ordine del 50%!

Ecco spiegato il profondo malessere nazionale: mentre “l’oligarchia” racconta di una sostanziale tenuta del Paese, il 99% della popolazione subisce sulla propria pelle il dimezzamento del “PIL buono” pro capite.

Da qui, dunque, bisogna ripartire, per creare le premesse di una nuova politica economica nazionale nella consapevolezza che in questa manipolazione sta la diabolica capacità dell’1% di governare il 99%, pur essendo in una democrazia dove 1 vale 1 in termini di voti!

In altri termini, il Paese e quindi la politica democratica hanno bisogno di un nuovo indicatore di sintesi del benessere economico: il PILb99. Ovvero il prodotto interno lordo decurtato dei beni e servizi patologici (secondo una commissione nazionale di assoluto rigore scientifico) percepito dal 99% della popolazione.

Una riforma che non costa nulla ma ridarebbe un fondamento economico oggettivo alla rappresentanza democratica.

In questo contesto, e solo in questo contesto assumerebbero valore e incisività specifiche politiche tese alla riconnessione comunitaria del tessuto sociale del Paese.

 

La politica fiscale

La progressiva riduzione delle aliquote ad una è semplicemente scandalosa. Il fondamento originario degli scaglioni fiscali era la progressività contributiva delle diverse classi sociali individuate dagli stessi. Ridurre ad una aliquota significa affermare che davanti al fisco siamo tutti uguali. Di contro proprio per incidere sul PILb99 le aliquote vanno estese introducendone almeno 2 nuove: da 100.000 a 500.000 euro; ed oltre 500.000 euro. Così come le percentuali IVA andrebbero modificate in funzione del valore sociale dei prodotti/servizi.  In un paese demograficamente vecchio è scandaloso che i pannolini per bambini hanno un’aliquota come quella di una Ferrari. Ne è tollerabile il regime fiscale successorio per i patrimoni superiori a 10 milioni di euro.

 

La politica industriale

È ampiamente condivisa l’opinione che l’industria nazionale nell’ultimo ventennio non abbia brillato per innovazione ed efficienza. Di contro sono a tutti noti gli utili conseguiti. E’ lecito quindi dedurre che essi sono il risultato dell’evoluzione oligopolistica dei mercati dei diversi settori che vanno riformati per ritornare ad una vera concorrenza nella consapevolezza che la nuova “lotta di classe” non è più tra operai e capitalisti ma tra multinazionali e imprese territoriali. Si pensi al settore delle energie rinnovabili la cui “natura” frazionabile è stata mortificata da barriere all’entrata volute dai grandi colossi, con il risultato, già evidente ma non del tutto esplicito, di avere regalato al capitale internazionale un settore che in sinergia con l’agricoltura e l’edilizia pubblica avrebbe potuto produrre  nuova diffusa ricchezza: un potenziale grande asset strategico del Paese. 

In questa prospettiva assumono rilevanza tematiche specifiche di civiltà, quali una nuova regolamentazione degli allevamenti intensivi che andrebbero semplicemente eliminati, riportando gli animali alla terra; ripristinare il regime pubblico dell’acqua; avviare una profonda riflessione sull’obsolescenza programmata con particolare riguardo a quella di origine pubblica in specie nei settori della mobilità, nell’edilizia e delle nuove tecnologie.

 

La politica bancaria

Trent’anni or sono il sistema bancario nazionale registrava una originale composizione tra pubblico e privato, tra piccole e grandi realtà, tutte comunque in mano nazionali con una adeguata capacità di soddisfare la variegata domanda, nonché di veicolare il debito pubblico verso i portafogli italiani. Oggi assistiamo all’operare di un regime oligopolistico a controllo estero che registra rilevanti profitti con un debito pubblico prevalentemente in mani extra nazionali. Forse sarebbe il caso di una riflessione anche solo per riprendere in considerazione un processo di separazione tra banca commerciale e banca di affari. Anche se è evidente che la BCE non lo permetterà mai, almeno sino alla prossima crisi sistemica, che potrebbe essere indotta da un allargamento degli conflitti geopolitici, atteso che oggi non c’è rapporto tra il PIL mondiale e l’enorme quantità di ricchezza finanziaria.

 

La politica sociale

Un mondo sempre più complesso e dinamico riducendo  le relazioni e le certezze familiari, in uno con la instabilità lavorativa, accresce la domanda di protezione pubblica. Con questa consapevolezza occorre una nuova e ambiziosa politica sanitaria e formativa invertendo i trend privatistici. Ma non basta. Finita la polemica strumentale sul reddito di cittadinanza, occorre ripensare ad una misura che non lasci nessuno senza cibo, servizi essenziali e casa.

Tra Renzi e la Bonino un patto di sopravvivenza

Costituisce senz’altro un fatto da registrare positivamente l’accordo dato per raggiunto dai media fra Italia Viva e Più Europa per la presentazione di una lista comune alle prossime Europee. Un’intesa che dovrebbe consentire a due forze facenti parte della stessa famiglia europea di Renew Europe sotto la cui insegna questa volta corrono anche Pde e Alde, di superare agevolmente lo sbarramento. I partiti di Renzi e Magi infatti, sono a forte rischio quorum e questa decisione potrebbe aiutare entrambi a superare la soglia del 4%. E un non impossibile allargamento di tale accordo al partito di Calenda potrebbe fare addirittura sperare in un risultato a due cifre, anche se alle elezioni le somme aritmetiche valgono meno della proposta politica che sarà percepita dall’elettorato.

Altro dato importante da sottolineare di questa intesa è il probabile nome della lista per gli “Stati Uniti d’Europa”. Un segno distintivo che deve rimandare alla necessità per l’Europa di compiere quel salto di qualità indispensabile a poter stare nel gruppo delle  potenze di questa epoca post-unipolare. Viene spontaneo il collegamento con l’agenda delle priorità per la riforma dell’Unione Europea delineato da Mario Draghi con autorevolezza nel dibattito internazionale. Un riferimento che dovrà trovare una giusta misura, da un lato per evidenziare con chiarezza il sostegno della nascente lista per l’unità europea alle proposte dell’ex presidente del Consiglio e della Bce, e dall’altro per evitare di politicizzare quella che rimane una figura “tecnica”, una grande risorsa al servizio dell’Ue e di tutti.

Credo non si possa nascondere nel contempo neanche che si tratta di un accordo che manifesta qualche limite, e bisognerà lavorare per superarlo. Il limite maggiore per responsabilità di tutti coloro, nessuno escluso, che in questi anni hanno rilanciato la necessità di una ricomposizione del centro, è lo stato di necessità, dovuto  al superamento del quorum, che ha consigliato l’intesa. Si tratta di un passo avanti, non di una proposta organica. Questo passo avrebbe dovuto essere, invece, il risultato di una politica, e lo dovrà essere comunque, se si vorrà apparire credibili alle elezioni. Scontiamo ora il fatto che non si è avviato ancora alcun significativo percorso di partecipazione per aprire una fase costituente di un partito di centro. Si è restati nella frammentazione e di ciò sinora, chi più ne ha tratto vantaggio, è sembrato essere il partito di Antonio Tajani.

Vi è poi da capire come sarà definita e riconosciuta la partecipazione alla lista per gli Stati Uniti d’Europa di quelle sigle che fanno riferimento al popolarismo, e che si dimostrassero interessate ad aderirvi. Alla spicciolata, in forma anonima di adesioni personali o con il riconoscimento di una specificità di un’area culturale e di una relativa quota nel progetto? Si tratta, a mio avviso, non solo e non tanto di una questione di spazi ma soprattutto di definire la possibilità per offrire un contributo specifico che non potrà che arricchire nel suo insieme la proposta della lista.

La concorrenza è molto agguerrita. Candidature come quelle, per citarne un paio,  di Marco Tarquinio o di Fabio Pizzul, nel Partito Democratico appaiono fortemente attrattive a un elettorato cattolico e popolare che vuole che l’Europa torni a essere una potenza di pace, riconciliandosi con le sue ragioni fondative. Anche il mondo delle PMI, delle straordinarie filiere produttive italiane non è entusiasta dei muri che si stanno costruendo nell’Est Europa e verso l’Estremo Oriente. L’economia ormai globalizzata e interdipendente non la si può più disaccoppiare a piacimento senza creare problemi al tessuto produttivo.

Ecco allora la necessità di collegare il traguardo degli Stati Uniti d’Europa, e della lista che lo sostiene, a una nuova visione del mondo. Non si può rimanere intrappolati nella difesa di un ordine basato sull’egemonia occidentale, che non esiste più nei fatti, e tentare con tutti i mezzi, come cercano di fare alcuni – compresa una guerra senza fine, che dura ormai, nei suoi vari pezzi, da oltre trent’anni – di tenerlo in piedi anche rispetto a chi è più titubante. Il prezzo per l’Europa sarebbe altissimo, e un azzardo sarebbe non cambiare strategia.

Se si saprà, proprio attraverso l’arricchimento di diversi filoni culturali, tra cui quello cattolico-democratico e popolare, rendere la lista frutto dell’intesa tra Italia Viva e Più Europa, plurale e partecipata, si farà un servizio alla democrazia, motivando magari anche qualcuno in più a uscire dall’area di un astensionismo causato da un lungo deficit di offerta politica, che si è trascinato e accresciuto negli anni.