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L’uomo inconsapevole e colpevole: il paradosso del Processo di Kafka.

“Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., perché senza che avesse fatto niente di male, una mattina fu arrestato”.

(F. Kafka, Il processo)

Franz Kafka, nato a Praga nel 1883 e morto di tubercolosi nella stessa città nel 1924, scrisse “Il processo” tra il 1914 e il 1915 e, anche se l’opera rimase incompiuta, la prima edizione fu pubblicata postuma nel 1925. Uscì a cura del suo amico ed esecutore testamentario Max Brod, uno scrittore boemo che aveva ricevuto in consegna il manoscritto nel 1920. Questi ebbe il merito di salvare l’intero archivio delle opere incompiute di Kafka, il quale aveva invece manifestato il desiderio che fossero bruciate alla sua morte. Come scrisse Bruno Schulz nella prefazione dell’edizione del 1936: «Il romanzo, che Max Brod ricevette nel 1920 dall’autore sotto forma di manoscritto, è incompiuto. Alcuni capitoli frammentari, che avrebbero dovuto trovare la loro collocazione prima del capitolo conclusivo, vennero da lui separati dal romanzo, basandosi su quanto dichiarato da Kafka, e cioè che questo processo in idea è a dire il vero incompiuto e che le sue ulteriori peripezie non avrebbero apportato più nulla di essenziale al senso fondamentale della questione.»  La prefazione di Schulz viene riportata dall’edizione Feltrinelli come introduzione. Fu grazie a questo provvido salvataggio dei suoi scritti da parte dell’amico Brod che Franz Kafka,” sconosciuto in vita divenne famoso subito dopo la sua morte. Lasciandoci in eredità, anche contro la sua stessa volontà, tra i vari scritti uno dei capolavori assoluti della letteratura mondiale del ‘900, un romanzo distopico che costituisce l’allegoria dell’angoscia esistenziale (in questo Kafka stesso riconosceva in Kleist e Dostoevskij ‘una parentela di consanguineità” mentre Thomas Mann vi leggeva una ispirazione metafisica e la ricerca di Dio. Tanto che l’espressione “situazione kafkiana” è entrata nell’uso comune per riferirsi a condizioni esistenziali assurde, paradossali, razionalmente inspiegabili, angoscianti appunto. Anche la persona più metodica, ordinata, abitudinaria, priva di eccessi – e l’impiegato di banca Joseph K. non era dissimile da questa sommaria descrizione – improvvisamente una mattina (il giorno del suo 30° compleanno) può ricevere la visita di personaggi sconosciuti che gli comunicano un ordine di arresto, pur consentendogli  di continuare da casa l’attesa del processo e di  recarsi al lavoro: una soluzione narrativa sui generis che ricorda la condizione degli arresti domiciliari, ma non c’è una notifica formale, un capo di imputazione, tutto resta sospeso in una delirante  e continua attesa di un motivo, di una esplicitazione degli addebiti, soprattutto di quale sia il reato di cui viene accusato. Quella sera stessa, al ritorno dal lavoro parla di quanto accadutogli con la sua affittuaria, la signora Grubach. La padrona di casa lo rassicura circa l’arresto: «Lei non deve prendersela troppo a cuore. Che cosa non capita nel mondo!».

La descrizione del tribunale ove Josef si reca come da convocazione, la miriade infinita di stanze, aule, porte, scale, sottotetti comunicanti che si estendono a dismisura fin oltre la pianta del palazzo e di personaggi (figure torbide, inquietanti, ammiccanti, elusive, formali, severe, untuose, grottesche), che si incardinano alla perfezione in questo contesto ambientale, istituzionale e simbolico dove Josef K. pur chiedendola con insistenza non riesce ad avere una spiegazione al suo arresto, una motivazione al suo preannunciato processo, tratteggia un sistema giudiziario sordo e ottuso, in cui la burocrazia è tanto impietosa quanto cieca, pervicace e imprevedibile. Durante la prima udienza, molto affollata, il giovane K. tenta di difendersi spiegando l’illogicità manifesta della situazione: si trova lì, davanti a giudici e ad un folto pubblico senza conoscere i motivi della sua imputazione. La platea gli è ostile ed ogni sua argomentazione viene confutata o respinta ma senza spiegazione alcuna. L’ambiente è decisamente opprimente, come potrebbe esserlo ogni sede giudiziaria, ma l’intrico di dedali, scale, solai, sottotetti, aule, uffici e la presenza di altri numerosi imputati, tutti in attesa del “loro processo”, rende il contesto incomprensibile, non esiste un nesso tra atto di costituzione di K. e accusa, mai chiarita, tutto rende quel luogo assurdo e soffocante, tanto che uno di quei giorni Josef si sente male e viene portato fuori da quegli stambugi, nelle scale. 

Sono altresì presenti figure e azioni che nulla hanno a che vedere con il decoro di aule giudiziarie e che Josef incontra: una donna che fa il bucato e dice a K. che è atteso in udienza, un uomo e una donna appartati in atti sessuali, (lei è la moglie compiacente di un usciere), un pittore ritrattista per il tribunale che gli anticipa tre esiti possibili del processo. Sono dunque evidenti in modo stridente ed ambiguo i temi dell’incomunicabilità, del turbamento e della tentazione sessuale in una promiscuità fuori luogo e forse lasciva, della solitudine, dell’inquietudine e dei sensi di inadeguatezza e di colpa dell’uomo di fronte al mistero della vita, della sua impotenza a trovare la risposta al problema della precarietà esistenziale, che manda in frantumi ogni tentativo di darle un ordine emotivamente rassicurante. 

 

Per leggere il testo integrale 

India, un Paese che non rispetta il pluralismo religioso.

L’Alta Corte di Allahabad nell’Uttar Pradesh (India) venerdì scorso ha dichiarato incostituzionale il Madrasa Act del 2004 e ha ordinato al governo statale di spostare gli studenti iscritti al “sistema islamico” nelle scuole tradizionali.

Il distretto in questione è governato dal partito nazionalista indù Bharatiya Janata Party (BJP) del primo ministro Narendra Modi e negli ultimi dieci anni ha fatto notizia per aver approvato alcune delle leggi più controverse del Paese, leggi che discriminerebbero i musulmani  emarginandoli nella repubblica laica.

Le madrase, attualmente, forniscono un sistema educativo in cui agli studenti vengono insegnati il ​​Corano e la storia islamica insieme a materie generali come matematica e scienze. Esiste anche a un sistema equivalente per gli indù, noto come Gurukuls, istituti di istruzione residenziale in cui gli studenti imparano le antiche scritture vediche insieme a materie generali sotto la guida di un “guru” o insegnante.

Non è la prima normativa controversa in India.
Nel 2019, tra violenti scontri di piazza, il Parlamento ha approvato una normativa che esclude di fatto i fedeli di religione islamica dalle regolarizzazioni concesse ad altri migranti illegali. Il cosidetto Citizenship Amendment Act che lunedì 11 marzo il Governo indiano ha deciso di attuare e che di fatto accelera le richieste di cittadinanza indiana di indù, parsi, sikh, buddisti, giainisti e cristiani fuggiti in India dalle persecuzioni religiose in Afghanistan, Bangladesh e Pakistan, rendendoli idonei a compiere la loro richiesta di documenti a cinque anni dal loro arrivo nel Paese. Prima della sua applicazione, la religione non rappresentava un fattore determinante per permettere ai migranti di ottenere un passaporto indiano e tutti coloro che lo richiedevano dovevano attendere undici anni prima di avviare le pratiche.

Quando nel 2002 una serie di disordini tra comunità religiose sconvolse lo Stato del Gujarat, l’allora governatore Modi non si mosse mentre più di mille musulmani venivano uccisi da orde di indù inferociti.

Il centro di ricerca India Hate Lab ha documentato una media di due eventi di incitamento all’odio nei confronti dei musulmani al giorno in tutto il Paese. Il 75% di essi si è verificato negli Stati federali governati dal partito del premier Modi.

Ma non solo i mussulmani vivono con la paura della repressione. A Settembre dello scorso anno il governo canadese ha accusato “agenti del governo dell’India” di un coinvolgimento nell’omicidio a giugno di Hardeep Singh Nijjar, leader sikh canadese. Nijjar era uno dei principali sostenitori del movimento separatista sikh per la fondazione del Khalistan come stato sovrano che secondo il movimento dovrebbe sorgere nel Punjab, regione indiana al confine col Pakistan (secondo una parte del movimento lo stato dovrebbe includere anche il Punjab pakistano).

Inoltre, si registrano in India centinaia di attacchi ai danni dei cristiani, senza alcuna reazione da parte delle forze di polizia. Ora il BJP nega di discriminare i musulmani, o chiunque altro, e afferma di trattare tutti i cittadini allo stesso modo. Anche se già nel nome il partito politico di Modi, Bharatiya Janata Party (BJP), il Partito del Popolo di Bharat, altro non è che il Partito del Popolo Indù. Nulla a che vedere con gli insegnamenti di Gandhi che disse: “Nessuna cultura può vivere se cerca di essere esclusiva”

Einaudi fu in ogni tempo un’alta cattedra morale

Luigi Einaudi, già prima di entrare nell’agone politico per l’alto valore scientifico e morale del suo insegnamento, la probità della vita, fiero distacco da ogni compromissione col fascismo, costituiva uno dei più solidi punti di riferimento della cultura e della vita morale italiana.

Quando, nella ripresa della vita democratica del nostro Paese, egli entrò, con modestia pari all’imponenza della sua personalità, nella vita politica, determinò intorno a sé simpatia, rispetto, consensi ed aspettative.

La sua attiva partecipazione all’Assemblea Costituente con interventi sui problemi fondamentali dello Stato ispirati sempre a grande indipendenza di pensiero e linearità di visione, la successiva chiamata, in uno dei momenti più delicati della vita politica del Paese, al governo della Banca d’Italia ed alla direzione di uno dei Ministeri più impegnativi, la convinta fede europeistica, avevano dato la misura della costruttiva importanza del suo contributo.

Chiamato nel 1948 – anzi tratto con viva insistenza da una posizione di ritrosia – alla Presidenza della Repubblica, inaugurò uno stile di attiva, ma riservata e sobria, presenza in tutte le articolazioni dello Stato repubblicano, con indicazioni, consigli, mediazione e sovratutto con l’alta autorità che gli proveniva dal suo luminoso passato e dalla sua sperimentata e indiscussa imparzialità. La lealtà con la quale egli si presentò al Parlamento col messaggio di giuramento testimonia ancora una volta la sua personalità.

E tuttavia Einaudi non aveva mai reciso i legami col mondo degli studi e della cultura: la sua partecipazione anche da Presidente della Repubblica ai lavori dell’Accademia dei Lincei, la ripresa dell’insegnamento universitario (che gli fu conferito per legge a vita), la pubblicazione di severi e sereni ammonimenti contenuti in scritti che costituiscono anche un incomparabile esempio di prosa limpida e vigorosa e i contatti fecondi che egli mantenne col mondo politico costituirono un’ulteriore esplicazione della sua personalità, tutta tesa al servizio esclusivo del Paese. Fu in ogni tempo un’alta cattedra morale.

Non si può meglio scolpire la sua figura che con le parole con le quali il decano della Facoltà di Giurisprudenza della Sorbona, traendole da un suo scritto, lo salutò al momento del conferimento della laurea honoris causa: “l’idea della libertà contro l’intolleranza, della cooperazione contro la forza brutale, ecco la buona novella che occorre predicare agli uomini di buona volontà”.

 

Quirinale, 24 marzo 1974

Lezione su Sturzo: il rapporto tra spiritualità e vocazione politica.

[…] Sturzo fu eletto nel 1899 consigliere comunale di Caltagirone e poi nel 1905 pro-sindaco, e ancora nel 1915 vice-presidente nazionale dell’Anci), confluiva peraltro un’altra istanza di rinnovamento del cattolicesimo italiano. Nella seconda metà dell’Ottocento erano sorte nuove congregazioni religiose di vita attiva. Dentro il perimetro urbano, questi nuovi religiosi si spingevano ancora a questuare, ma non più per portare in convento l’elemosina ricevuta, bensì per ridistribuirla in città, ai poveri nei sobborghi e nelle periferie. Anche nella Sicilia di Sturzo era così: il beato Giacomo Cusmano a Palermo, padre Annibale Maria Di Francia a Messina, il cappuccino Angelico Lipani a Caltanissetta erano esponenti di quel rinnovamento. Sturzo, a sua volta, recuperava quella spinta caritativa, rivolta alla città, ma la ammodernava, cioè la coniugava con «le cose nuove», con le nuove realtà di cui parlava Leone XIII nella sua enciclica: così fondò a Caltagirone una cassa rurale e artigiana per combattere la piaga dell’usura, promosse le cooperative operaie (la sughereta nel bosco di Santo Pietro), istituì una delle prime scuole di formazione agraria in Sicilia, costituì associazioni di mutuo soccorso. Insomma, mise le mani in pasta, come si suol dire: e quelle mani erano le stesse che sgranavano il rosario e sfogliavano il breviario.

La spiritualità civica manteneva un marcato profilo evangelico. Per questo, il 17 dicembre del 1918, in una delle ultime riunioni preparatorie prima della fondazione ufficiale del Partito Popolare, a Roma, Sturzo disse ai suoi collaboratori che dovevano scendere nell’agone politico non con stendardi e con gonfaloni, ma con «il vangelo nascosto in petto». Riecheggiava, in questa affermazione, la lezione dell’anonimo autore della Lettera a Diogneto, secondo cui i cristiani sono l’anima del mondo. Ma come l’anima nel corpo, essi rimangono invisibili ancorché uniti al corpo stesso, cioè al resto dell’umanità.

È da questo orizzonte che deriva l’idea di aconfessionalità del Partito Popolare: un’idea che non coincideva con l’odierna nostra concezione della laicità (alla francese: come contrapposizione alla fede), perché con l’aconfessionalità Sturzo non chiedeva ai sodali del suo partito di rinunciare alla loro fede cristiana, ma semmai di fare politica per il bene di tutti, anche di chi cattolico non era. Gabriele De Rosa ha definito questa opzione come «l’utopia di Luigi Sturzo». Era la maniera sturziana, non clericale e nemmeno teocratica, di interpretare il motto di Pio X : instaurare omnia in Christo. Instaurare, appunto. Non restaurare. Non c’era, in Sturzo, nessuna inclinazione reazionaria, così come non ce n’era nessuna rivoluzionaria. Non si trattava, per lui, di lanciare la riconquista cattolica della società, ma di ridestare l’attitudine sociale e civica del cattolicesimo, la sua indole storica e “secolare”, la sua capacità di stare nel mondo per svolgervi un compito evangelico.

Molti dubitano che oggi una tale spiritualità possa essere riproposta a chi vive l’impegno politico. Eppure dal vangelo emerge un criterio d’azione che il credente può praticare anche in ambito politico. Lo si può formulare con una polarità apparentemente tautologica: portarsi dentro l’altro e portarsi l’altro dentro, cioè tentare di entrare in rapporto dialogico con un orizzonte valoriale e culturale diverso dal proprio e nondimeno dischiudere agli altri il proprio patrimonio di idee e di ideali. Sturzo, a mio parere, viveva questo tipo di attitudine evangelica, che è la stessa che veniva rilanciata nella Lettera a Diogneto, secondo cui non è lecito ai cristiani «disertare il posto che Dio ha loro assegnato» nella storia, dentro la città.

Sturzo visse quella sua passione civile interpretando laicamente ma non laicisticamente l’insegnamento di Gesù: «Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio». Come ha ben intuito Gustavo Zagrebelsky (in Scambiarsi la veste), questa frase non può essere considerata un manifesto della laicità moderna, pena il rischio di scivolare nell’anacronismo. Gesù non parlava ai politologi dei nostri giorni, ma ai teologi del suo tempo. I quali sapevano che solo Dio è Dio e Cesare è, semmai, solamente e semplicemente un cesare. Se le cose stanno così, allora la laicità intesa alla francese, come divaricazione tra fede e politica, non è l’ermeneutica più corretta della frase di Gesù. Che, difatti, crea un certo disagio al credente più che all’agnostico. È il disagio interiore che persino Sturzo provò quando, pur essendo prete, cominciò a occuparsi direttamente di politica e di amministrazione pubblica, facendo il pro-sindaco di Caltagirone dal 1905 al 1920. Non si trattò, per lui, semplicemente del disagio di non essere in regola con il non expedit pontificio, che vietava ai cattolici di fare politica nella nuova Italia unificata (per questo egli era non sindaco, ma pro-sindaco). Si trattò, per lui, di fare i conti con l’apparente inconciliabilità di due misure parimenti radicali, dotate entrambe del profilo alto della vocazione: da un lato esser “sacerdote” e perciò delegato a gestire il sacro (a mettersi in disparte, a fuggire dal mondo), d’altro lato esser “politico” e perciò deputato a gestire il mondo. In realtà, mentre andava vivendo quel suo interiore travaglio, Sturzo ripensava pure il rapporto — nella concretezza della sua stessa vicenda — tra spiritualità e politica, accorgendosi che esse sono due dimensioni differenti che però possono e debbono innestarsi a vicenda.

Questo crocevia tra vocazione alla santità e professione politica ci può apparire più chiaro se ricorriamo alla lingua tedesca. In tedesco — già a partire dalla traduzione che Lutero fece del termine paolino klḗsis (da kaléō, chiamare) — vocazione e professione sono due parole strettamente apparentate: Berufung (vocazione) e Beruf (professione, mestiere fatto ad arte). Sturzo ha testimoniato efficacemente che anche la professione politica — vissuta con competenza culturale e dirittura etica — può e anzi deve avere i connotati di una vera e propria vocazione.

Bari…centro d’Italia, dove s’infrange una pretesa classe dirigente.

Quel maestro delle telecronache sportive di Bruno Pizzul usava spesso una frase, quando a fine partita doveva descrivere la situazione di due squadre avversarie ormai prive di mordente e di energie che si affidavano all’improvvisazione per cercare di guadagnare la vittoria: “Sono saltati tutti gli schemi”.

Niente più coordinate precise, confusione in mezzo al campo, disordine tattico e tecnico per affidare al caso e all’invenzione del momento la soluzione del match. È quello che si potrebbe dire per descrivere, in brutale sintesi, la pessima vicenda di Bari che ha tenuto banco questa settimana.

Proviamo a far tornare indietro il film.

Il ministro Piantedosi (quello che si è autobattezzato con vanto “questurino” in pieno Parlamento) tiene una riunione con un viceministro della giustizia in carica, con un sottosegretario in piena funzione e con uno stuolo di parlamentari di destra che gli sottopongono l’esigenza di avviare lo scioglimento ai sensi della legge antimafia di uno dei più importanti Comuni d’Italia, quello di Bari (retto da uno dei principali esponenti della sinistra italiana, Antonio Decaro, presidente in carica dell’Anci, probabile candidato alle elezioni europee e possibile successore di Elly Schlein alla guida del Nazareno in caso di rovesci elettorali del Pd).

Il fatto, già in sè, rappresenta un unicum di proporzioni inaudite. Non si era mai visto, nella storia della Repubblica, che un ministro dell’interno prendesse ordini su materie di propria ed esclusiva competenza da parlamentari della sua area politica. Nella prima Repubblica, se un manipolo di deputati e senatori Dc avessero richiesto al ministro dell’interno un incontro per chiedere a gran voce lo scioglimento per mafia di un comune capoluogo retto da un avversario politico, qualunque ministro dell’interno (democristiano per tutta la durata di quella esperienza storica) li avrebbe rispediti al mittente rifiutandosi di sottoporsi a un incontro simile. Come mi ha detto un antico frequentatore del Viminale: “Non solo Taviani, o Scelba, o Rognoni o Mancino non li avrebbero neanche fatti entrare, ma anche un qualunque sottosegretario li avrebbe fatti parlare con gli uscieri avendo saputo il tenore della richiesta”.

Così funzionava, quando c’era la politica. Ma oggi ci sono i “questurini”. E quindi avviene che una parte politica che fa sempre professione di garantismo, con tanto di viceministro alla giustizia all’assalto, si trasforma in novelli Robespierre che invocano lo scioglimento per mafia (un’onta tremenda, dal danno di immagine quasi inemendabile) di un comune che – peraltro – tra neanche 3 mesi è chiamato al voto per naturale conclusione della consiliatura.

E a quel punto, secondo un copione che sembra scritto da Ionesco, le parti immediatamente si rovesciano. Una sinistra tradizionalmente pronta agli impulsi giacobini e giustizialisti, si impalca immediatamente a garantista urlando al complotto. Chiamando inevitabilmente ad una domanda: ma cosa sarebbe accaduto se, anzichè a Bari, la procedura di scioglimento per infiltrazioni mafiose fosse avvenuta in un comune retto dalla destra – chessò, Palermo? Facile immaginarlo: da sinistra sarebbero arrivati pronunciamenti e concioni anti-corruzione, inviti a procedere alla richiesta di scoglimento del Comune senza indugi, fino alla inevitabile fiaccolata della legalità.

Gli schemi di gioco saltano, fino al punto da arrivare – dentro una escalation emotiva che sembra avere una regia comunicativa non banale – a sfiorare le vette del paradosso.

Mentre da destra si soffia sul fuoco giustizialista, da sinistra parte una campagna di beatificazione del buon Decaro, con i suoi laudatores che dicono che in questi anni ha combattuto per bonificare il Comune dalla mafia! Dimenticandosi di dire chi c’era prima di Decaro in Comune, ovvero il prode Michele Emiliano, il vero regista delle operazioni di trasformismo e di andirivieni politico degli ultimi vent’anni in Puglia, che improvvisamente oggi balzano agli occhi della sinistra evidentemente distratta nelle esigenze di magnificazione della “primavera pugliese” di Emiliano e Vendola (altro passante di questi anni baresi, pugliesi e italiani).

E gli schemi, lungo questo teatro dell’assurdo, saltano completamente in un incredibile comizio nel quale Michele Emiliano si vanta di avere “portato Decaro dalla sorella del boss”. Gli schemi sono saltati, le parti si sono invertite, il gioco dell’assurdo si è sviluppato.

Di tutta questa brutta pagina della politica italiana dovrebbe rimanere impressa a ciascuno di noi l’assoluta inadeguatezza, la sfrontatezza spregiudicata e la vacuità impalpabile di una pretesa classe dirigente che – da destra a sinistra – ha semplicemente dato prova di cosa significhi non essere attrezzati per la guida di un Paese.

 

[Tratto dal profilo Fb dell’autore, capogruppo di Italia Viva al Senato]

La dissoluzione delle regole spalanca le porte all’incognita del virtuale

Piccoli e grandi segni ci rappresentano una crescente accelerazione nel processo di transizione tra la realtà consolidata dei comportamenti prevedibili e delle abitudini che ci conservano, verso le incognite del virtuale, che in modo più onesto e ortodosso potremmo definire il luogo dove tutto è possibile. 

Ci sono contrasti stridenti che vanno come schegge impazzite in direzione opposta. Siamo stati affascinati e poi subito impauriti dalla digitalizzazione pervasiva che guida i processi di transizione: oggi tutto è transeunte, il valore della vita, l’autocontrollo, il senso del limite, l’identità.

Tempo fa ragionavamo con il Prof. Vittorino Andreoli sul concetto di “realtà aumentata”: l’incipit era l’avvento del Metaverso e ci si chiedeva se non fosse sufficiente fermarsi a conoscere e rispettare la realtà “normale”, il concetto stesso di normalità. Perché – ci si domandava – dobbiamo creare un mondo esterno a quello in cui viviamo ed accreditarlo come frontiera della futura esistenza? Perché rinunciare alla ragionevolezza, alle regole, all’uso del pensiero critico e- con esso- della stessa coscienza, intesa come consapevole certezza ad un tempo razionale e morale?

In quei giorni Geoffrey Hinton – considerato il padrino dell’intelligenza artificiale – pioniere della ricerca sulle reti neurali e sul “deep learning”, lasciava Google con una motivazione che faceva riflettere: “I programmi di IA hanno fatto passi da gigante e ora sono piuttosto spaventosi. Al momento i robot non sono più intelligenti di noi ma presto potrebbero esserlo”, aveva affermato alla BBC prefigurando scenari distopici impensati persino dalla fantascienza. “Il chatbot potrebbe presto superare il livello di informazioni di un cervello umano, mentre ‘cose’ come GPT-4 oscurano una persona nella quantità di conoscenza generale”.

Una rappresentazione immaginata alle soglie di un baratro ormai prossimo. 

Si cercano perciò regole che ci consentano un approccio ed un uso strumentale dell’intelligenza artificiale, conservando la nostra dimensione umana: le macchine al servizio della persona e non il contrario. Questo è il tema del momento ma trovo mistificazioni e incertezze nel dibattito in atto. Se ne parla come se si trattasse di merce da scegliere negli scaffali dei supermercati, come se tutti fossero esperti venditori per fiduciosi e superficiali clienti.

Contemporaneamente molti segni di impazzimento collettivo nelle azioni di vita quotidiana ci convincono che qualcosa sta cambiando, dentro e fuori di noi. Assistiamo ad uno sgretolamento di valori, in nome della tolleranza ammettiamo tutto, rinculiamo sulle tradizioni, perdiamo il senso della ragionevolezza, il relativismo etico privo di ancoraggi ci conduce all’omologazione culturale e all’imbecillità collettiva. Osserviamo dunque intorno a noi: a forza di mettere in discussione principi e riferimenti ideali, ci fermiamo all’apparenza delle cose, guidati dalla cancel culture e dal politically correct, idolatriamo privacy e trasparenza mettendo le manette ai polsi delle relazioni sociali. Facili all’indignazione e sempre alla ricerca delle colpe degli altri, commossi alle fiaccolate ma pronti ad impugnare il coltello per aggredire e vendicare. 

Gli studenti che picchiano gli insegnanti, le bande di minorenni che compiono atti delittuosi: sentivo al Tg di una gamba tagliata col machete, di una bici fatta piombare addosso ad un ragazzo dall’alto di un muro, inchiodandolo per questo sulla sedia a rotelle. Senza contare i quotidiani femminicidi, gli abusi sessuali in danno dei minori, le storie di violenza aberrante che giungono dalla cronaca. Vien da pensare quanto ciò dipenda dalla caduta di freni inibitori, quanto dall’emulazione (i modelli televisivi sono eloquenti: armi, coltelli, sgozzamenti, sangue a fiotti), quanto dal senso di impunità e quanto, infine, dal valore effimero che stiamo attribuendo alla vita. 

Qui il virtuale e i social tracciano percorsi devastanti, aprono scenari senza confini. Cosa ci sta succedendo? Che cosa consapevolmente o inconsapevolmente facciamo per rendere sempre più disinibita e conflittuale la vita? La violenza è palpabile ovunque: le guerre – ormai possiamo parlare di terza guerra mondiale – ne sono l’irrefrenabile espansione. Se non sappiamo gestire la democrazia, la libera convivenza, le relazioni umane, il confronto delle culture, la nostra stessa più intima identità come possiamo pensare che tutto improvvisamente si ricomponga, che ci si fermi sulla soglia del cupio dissolvi

Aveva ragione Vico quando parlava di “corsi e ricorsi storici”. Con il 900 non si è fermato l’orrore degli olocausti e dei genocidi, tutto si ripete, la civiltà conseguita e le norme stabilite non ci hanno convinto. Putin ripete Stalin e Hitlter quanto ad efferatezza, in Israele e in Palestina si perpetua la tragedia dell’orrore perenne. Quanti bambini sono stati uccisi dalla scelleratezza umana?  Non c’è luogo del mondo dove si viva in pace: quella senz’armi e quella interiore.

E insieme a questa carneficina della violenza fisica, dentro e fuori di casa, nelle trincee o nei paesi rasi al suolo, nell’ecatombe della polvere e dell’odore della morte, c’è la violenza simbolica, ingannevole e silente sua sorella del male. La sensazione è che qualcosa di irreparabile possa accadere: nella vita quotidiana saltano i limiti del rispetto e della dignità, l’onestà è conculcata nell’umiliazione, la famiglia si va disgregando e con essa la scuola, un tempo il tabernacolo dei valori che contano nella vita.

Qualcuno le ha rovinate entrambe, ribaltando a poco a poco e rendendo inutile lo scopo stesso della loro sussistenza. Siamo tutti colpevoli, “ciechi e supponenti” come mi ha scritto Paolo Crepet, indifferenti e soli, incapaci di gestire un rapporto d’amore, di esprimere una relazione di empatia, tra incompetenza, insensibilità, approssimazione, ignavia: tutti vittime disorientate e incerte nel nebuloso limbo dell’effimero, incapaci a distinguere tra il valore della vita e la sua dissoluzione.

 

Dopo Mosca, unità contro il terrorismo non guerra delle narrazioni.

I fatti politicamente più rilevanti del giorno successivo alla strage al Crocus City Hall di Mosca sono stati essenzialmente quattro: il quadro completo delle reazioni internazionali di condanna dell’atto terroristico, la tempestiva cattura di tutti e quattro i presunti terroristi autori della carneficina, il messaggio di Putin alla nazione, la diversità fra la Russia e l’opinione pubblica occidentale nel tenere in conto la rivendicazione dell’attentato da parte dell’Isis-K.

Va registrata l’unanimità della comunità internazionale nel condannare l’attacco a Mosca e nel ribadire la condanna del terrorismo, visto in tutto il mondo come un nemico degli stati e delle organizzazioni internazionali, che cerca di condizionare l’agenda politica regionale e globale per conto di forze che operano dietro, o al di fuori, delle istituzioni. Oltre le divisioni che sussistono fra Occidente e Russia, e Sud del mondo, l’attentato a Mosca ha fatto emergere un comune posizionamento della comunità internazionale nel combattere la minaccia per i singoli stati e per il mondo costituita dal terrorismo.

Sul fronte delle indagini, l’Fsb, i servizi russi, ha reso noto che sono state arrestate undici persone, fra cui tutti e quattro i presunti terroristi autori della sparatoria e dell’incendio alla sala concerti moscovita, mentre tentavano di fuggire in auto verso il confine ucraino.

E ieri vi è stato anche il messaggio del presidente russo Vladimir Putin alla nazione. Un discorso duro ma equilibrato, senza riferimenti alle due rivendicazioni targate Isis, ma anche senza, almeno per ora, puntare il dito sui suoi nemici interni o esterni come il governo ucraino, limitandosi a specificare il confine dove erano diretti i presunti attentatori arrestati. Il leader del Cremlino ha posto l’accento sul fatto che la Russia conta sulla cooperazione “con tutti gli Stati che condividono sinceramente il nostro dolore”, facendo appello a una comune lotta che interessa gli stati, compresi quelli occidentali, contro un fattore destabilizzante e incontrollabile come il terrorismo, che, almeno per le sue azioni più eclatanti, necessità di complicità e di appoggi possibili solo con il coinvolgimento di pezzi di apparati deviati. Forse a questo ha alluso Putin parlando delle responsabilità di “tutti coloro che stanno dietro i terroristi” e della necessità di non permettere a costoro, “chiunque siano, chiunque li guidi” di compiere nuovi crimini. Da questo passaggio si potrebbe evincere che ciò che più interessa al governo russo sia reagire rispetto a quelle forze che, non da oggi, mirano alla destabilizzazione della Federazione Russa, più che cercare di strumentalizzare l’attentato in funzione della guerra di invasione in Ucraina.

In ogni caso, si rafforza l’impressione che i tempi successivi a questo attentato saranno caratterizzati da una guerra delle narrazioni, sia in Russia che in Occidente. Contesa che, com’era prevedibile, le due rivendicazioni dell’attentato a Mosca di venerdì sera da parte dell’Isis della provincia afghana di Khorasan, hanno già innescato. Le istituzioni russe non hanno sinora fatto riferimento a un marchio come quello dello Stato Islamico caratterizzato da un alto tasso di ambiguità, di indefinitezza, di mutevolezza, di sorprendente tempismo, tanto più nella sua versione afghana che è riuscita a suon di attentati e di provocazioni persino ad avvicinare, anziché far accentuare i loro contrasti, i governi di Teheran e di Kabul, facendo loro mettere in secondo piano vari contenziosi.

La speranza è che non si impongano quelle narrazioni, di opposto segno, capaci di aggravare ulteriormente la tensione internazionale, perché significherebbe assecondare ciò a cui il terrorismo mira, l’estensione del caos e dell’instabilità, riducendo le possibilità che la transizione geopolitica in corso, di ridefinizione di un nuovo assetto globale più adeguato ai tempi e più partecipato e inclusivo, possa avvenire con i mezzi della politica in modo il più incruento possibile.

Erano giovani e li hanno visti arrivare: Maiori 40 anni dopo.

L’idea è stata di Dario Franceschini. Semplice ma essenziale. E cioè, i delegati che si sono trovati a Maiori per il Congresso Nazionale del Movimento Giovanile della Dc del 1984 si sono ritrovatidopo 40 anni. Per fare un partito? Per avviare una riflessione dopo 40 anni di impegno politico e di militanza politica? O per fare una corrente – parlando con il linguaggio comune della prima repubblica – all’interno di qualche partito? Nulla di tutto ciò. 

La ragione di fondo dell’incontro sulla costiera amalfitana rispondeva solo ed esclusivamente ad una motivazione dettata dal ricordo e dall’amicizia. Quella vera, però e non quella dettata da ragioni burocratiche e protocollare. Certo, a differenza del ritrovo di qualche settimana fa a Firenze della vecchia FGCI con la presenza dei “sacerdoti” del solito caravanserraglio della sinistra ex e post comunista italiana,

quello di Maiori – com’era nella migliore consuetudine dei democristiani – è stato un incontro fra vecchi e giovani amici per ricordare i fasti di quella generazione approdata all’impegno politico negli anni ‘80 e che poi, almeno per alcuni di quelli, si è dispiegata lungo l’impervio e complesso

cammino della cosiddetta seconda repubblica. Un cammino che ha visto proprio quella generazione, ovviamente ancora unita a Maiori nella casa madre della Dc seppur spalmata nelle tradizionali correnti di quel partito, dividersi nella nuova e per certi aspetti singolare ed anacronistica offerta politica.

Ma, per restare all’incontro promosso da Franceschini a Maiori, quello che non si può non rilevare è che anche da una iniziativa che non prevedeva una riflessione politica ed organizzativa immediata, è emersa una precisa consapevolezza. E cioè, anche da un incontro semi conviviale e tra molti piccoli ma significativi conciliaboli, si può innescare la scintilla di un nuovo e certamente diverso impegno politico. È altrettanto ovvio che è del tutto inutile infilarsi in questi dettagli ma è altrettanto evidente che da una comune cultura politica, e storica, può ripartire un cammino di ricerca, di riflessione, di critica e quindi anche di azione che solo gli accadimenti concreti e la storia degli avvenimenti ci dirà dove collocarli politicamente. 

Perché a volte, come ci ricordava spesso l’indimenticabile Guido Bodrato, uno dei “maestri” della nostra generazione, “è la categoria della imprevedibilità a determinare gli accadimenti politici”. E l’incontro di Maiori con quasi 200 persone, al di là della volontà o dei desideri degli stessi partecipanti, rientra a pieno titolo proprio nel monito, severo ma realistico e sempre contemporaneo, di Guido Bodrato.

Ricordare Einaudi ricordando De Gasperi: siamo tutti loro debitori.

Ricorrono oggi 24 marzo, 150 anni dalla nascita di Luigi Einaudi, l’economista, il governatore della Banca d’Italia, il presidente della Repubblica nato a Carrù nel 1874, ma anche il grande intellettuale pubblico che tanto ha contribuito al progresso civile, oltre che economico, del paese. È l’occasione per ricordarlo. E, tuttavia, tutte le volte che ricordiamo Luigi Einaudi dovremmo ricordare Alcide De Gasperi, e viceversa. È infatti dalla loro convergenza, dal loro incontro, dalla loro intesa che venne tanta parte della ricostruzione materiale e morale del paese dopo la guerra. Ebbero accanto negli anni della guerra giovani di grande valore, come Guido Carli e Sergio Paronetto. “Forse per prudenza, forse per caso, De Gasperi ed Einaudi – ha scritto Carli nelle sue memorie – avevano costruito in pochi mesi una sorta di ‘costituzione economica’ che avevano però posto al sicuro, al di fuori della discussione in sede di Assemblea costituente”. In che cosa consisteva quella loro “costituzione economica”? In due pilastri: l’economia aperta e l’economia mista come fattori indispensabili per lo sviluppo del paese. 

La prima scelta, quella a favore dell’economia aperta, consisteva anzitutto nell’impulso da entrambi dato all’adesione alle istituzioni di Bretton Woods, cioè la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale, segno forte della collocazione geopolitica dell’Italia nel campo occidentale e della ritrovata immissione dell’Italia nell’economia internazionale; nonché nell’eguale impulso dato al processo di integrazione europea, nel quale entrambi sostennero con forza che occorresse partire dalla politica, e non dall’economia: e che la difesa europea avrebbe indotto ad avere un bilancio europeo, e il bilancio un parlamento. La seconda, quella relativa all’economia mista, consisteva nell’accettazione, sia pure a certe condizioni, della nuova economia pubblica, a cominciare dal mantenimento in vita dell’IRI e successivamente dalla creazione della Cassa per il Mezzogiorno. Istituzioni accettate e sostenute anche per la fiducia riposta in personalità straordinarie per integrità morale e competenza tecnica, su tutti Donato Menichella, che Einaudi definì un “tecnico insigne”. De Gasperi, Einaudi, Menichella: sono loro i grandi ricostruttori, e ad essi va aggiunto Ezio Vanoni. 

Ma c’è un’altra convergenza tra Einaudi e De Gasperi, che va al di là e che viene prima di quella pratica sulle concrete forme e opzioni della ricostruzione. Ed è la convergenza ideale di fondo, sia pure nella diversità dei loro percorsi intellettuali e politici. E la convergenza dice: la democrazia liberale si fonda sulle istituzioni e ha come fine la persona. Si legga il discorso di Einaudi in occasione del giuramento come presidente della Repubblica il 12 maggio 1948, in cui egli sostiene la necessità di “conservare della struttura sociale presente tutto ciò e soltanto ciò che è garanzia della persona umana contro l’onnipotenza dello stato e la prepotenza privata, e garantire a tutti, qualunque siano i casi fortuiti della nascita, la maggiore uguaglianza possibile nei punti di partenza”. Non possiamo, leggendolo, non rilevare l’affinità, l’idem sentire, il legame con il Testamento politico di De Gasperi (1942), in cui è forte la presenza di Paronetto: “la costituzione economica non si crea (…) con cieco automatismo delle forze libere in gara, come aveva sperato il liberalismo classico, ma si forma sotto il vigile controllo dello Stato che deve intervenire a disciplinare le forze libere e preservarle dagli uomini di preda”. In una lettera alla moglie, De Gasperi scrisse: “Ci sono uomini di preda, uomini di potere, uomini di fede. Io vorrei essere ricordato fra questi ultimi”. Einaudi e De Gasperi furono uomini di fede, capaci di quelli che Thomas Mann definì “investimenti di fede e di entusiasmo”, tipici dei costruttori e ricostruttori. Perciò, quando ricordiamo De Gasperi, ricordiamo Einaudi, e viceversa. Siamo tutti loro debitori.

 

Giovanni Farese

Giovanni Farese è professore associato di Storia dell’economia nell’Università Europea di Roma. É Managing Editor di The Journal of European Economic History e Marshall Memorial Fellow del German Marshall Fund of the United States. È autore di numerosi scritti sulle istituzioni e i protagonisti della ricostruzione, tra cui il volume Luigi Einaudi. Un economista nella vita pubblica (Rubbettino 2012).  

Roma, lunedì 25 marzo 2024, ore 11.00 – Sala della Protomoteca (Campidoglio). Il convegno, che si svolgerà alla presenza del presidente della Repubblica, ospiterà, dopo una prolusione del governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta, tre relazioni scientifiche di Giovanni Farese, Roberto Pertici e Angelo Maria Petroni. L’accesso alla sala è solo su invito. Sarà possibile seguire l’evento in diretta streaming su corriere.it

Un libro prezioso a ottant’anni dall’eccidio delle Fosse ardeatine

Il 24 marzo sono ottant’anni dalla strage delle Fosse Ardeatine. È difficile, forse impossibile, trovare uno studio o un libro sul massacro delle Fosse Ardeatine di cui si rendono responsabili i tedeschi – le SS di Herbert Kappler, Karl Hass, Erich Priebke, spietati criminali aguzzini – che non segua teoremi o ricostruzioni o montature succedutesi nel tempo, fin dai giorni immediatamente seguenti l’eccidio. Soprattutto è impossibile trovare uno storico che si interessi delle 335 vittime. Per i tre ufficiali delle SS sunnominati, le stesse vicende della cattura, della detenzione e, in un caso, dell’uscita dalla detenzione presentano regolarmente qualche lato apparentemente opaco, inspiegato, poco convincente. 

Si pensi alla grave rottura del patto di consultazione preventiva dei comunisti con le altre forze rappresentate nel CLN (nel cui comitato militare siedono Giuseppe Spataro per la DC è Giorgio Amendola per il PCI); oppure al sospetto di un preventivo accordo di massima tra Kappler e i comunisti per non mettere nel mirino una unità combattente operativa efficiente (vittime dell’attentato di via Rosella furono degli anziani ausiliari altoatesini: soggetti di serie B quanto a efficienza bellica); l’atteggiamento in quei frangenti altalenante e ambiguo di Giorgio Amendola, uno dei giovani capi militari comunisti, soprattutto nei momenti successivi all’attentato; l’ideazione tecnica dell’attentato da parte non di una figura di vertice, ma di un militante che aveva la ventura di abitare nei pressi del luogo dell’esplosione dell’ordigno; soprattutto, la circostanza che il 24 marzo precede di due-tre giorni il rientro in Italia di Palmiro Togliatti: in un certo senso, la situazione tragica creatasi con l’attentato e la successiva strage è il benvenuto riservato al capo (da notare che il coordinamento militare viene immediatamente dichiarato decaduto e lo stesso Comitato centrale del CLN rischia la rottura; per fortuna, Togliatti arriva appena in tempo – il 27 marzo -, sconfessa nella sostanza i suoi e rimette insieme i cocci del vaso infranto). 

Invece, con il nuovo libro di due valenti storici,Mario Avagliano e Marco Palmieri (Le vite spezzate delle Fosse Ardeatine, Einaudi) anche le vittime salgono agli onori della storia.

Un passo indietro. All’epoca, nel 1944, Giulio Einaudi ha da poco iniziato la sua attività di editore. Per la selezione dei titoli apparsi nell’editoria mondiale e da portare a stampa in Italia si avvale, nelle materie società ed economia, della consulenza di due giovani amici cattolici: Franco Rodano, il leader della Sinistra Cristiana fortemente legato a Palmiro Togliatti, e Sergio Paronetto (quest’ultimo amico anche di suo padre, il grande economista Luigi, di suo fratello, l’ingegnere siderurgico Roberto, che fa il commissario-presidente dell’IRI per le province liberate dell’Italia centrosettentrionale, e di un suo cugino di secondo grado, l’ingegnere dell’IRI Agostino Rocca che fa il patron di industrie importanti come la Finsider, la Dalmine, la SIAC e l’Ansaldo). 

Gli autori Avagliano e Palmieri hanno fatto una operazione di concezione semplice, giusta, necessaria; finora – guarda caso – trascurata: la raccolta delle biografie dei 335 caduti. Dalla lettura di queste si sprigionano una pluralità di significati e profili che fissano in qualche modo il significato di quella che fu la terribile denegazione dell’umanità perpetrata dai militari tedeschi, in preda alla barbarie nazista, con l’aiuto dei loro scherani italiani fedeli al regime di Salò. Gli autori pongono la questione di chi e cosa fosse l’Italia contro la quale si muove la distruttrice ex disumana macchina nazista. Viene ricostruito un complesso mosaico che però fornisce un’identità sufficientemente precisa a un gruppo: non si tratta di partigiani (soltanto), di ebrei  (soltanto), di oppositori del regime (soltanto), di ricchi  (soltanto) o di poveri (soltanto), di anziani o di giovani  (soltanto): è uno spaccato della popolazione; hanno in comune il fatto di formare l’Italia reale, comprese quelle poche unità di stranieri che vengono aggregati ai votati al massacro.

Il metodo con cui sono state messe insieme le biografie costituisce motivo di peculiare interesse: c’è naturalmente la ricostruzione personale di tipo narrativo; ma soprattutto c’è la spremitura di ogni possibile ragguaglio biografico proveniente dagli archivi pubblici: ad esempio, anche dalla lettura del casellario giudiziario e degli atti giudiziari. Nulla dunque che possa essere legato al mito. Nella letteratura storiografica legata agli eventi formativi della epopea antifascista si trovano spesso ricostruzioni che, pur non potendo negare loro validità in assoluto, hanno nascosto dietro appunto al mito molteplici aspetti nello stesso filone, ma distinti: ad esempio, l’azione militare anti-tedesca; l’azione anti-regime; l’azione di ripristino della libertà e della democrazia. L’uso apodittico e pervasivo della categoria dell’antifascismo può in più di un caso essere stato in tutti questi decenni ingannevole. Tale genere di scelta di precisazione produce effetti storiografici anche notevoli: per dire, chi ha mai messo in primo piano che tra i trucidati ci furono anche dei fascisti (ex)? Dei militari, dei poliziotti, dei carabinieri? Degli adolescenti? La categoria dell’antifascismo – forse effetto, più che causa, della strage delle Fosse Ardeatine – ha offuscato la speciale qualità plurale delle vittime, unificandola sotto un protocollo unitario eccessivamente sommario: che è andato a ricoprire anche le vittime quindicenni o i passanti sorpresi dalle parti di via Rasella subito dopo l’attentato. Addirittura, da parte degli illustri presentatori del libro a Palazzo di Firenze, sede della Società Nazionale Dante Alighieri, sono stati avanzati dubbi circa la validità del (complesso) concetto di guerra civile in Italia dal 1943 al 1945. Ora, con l’opera di Avagliano e Palmieri possiamo inforcare gli occhiali giusti per leggere la storia, quelli agostiniani del Vero e quelli della verità-realtà delle vittime (che, per non essere primariamente parte di una formazione in campo, sono tanto più nostri fratelli; e che, nella lettura del libro, avvertiamo come tali). 

Allora, quello che affascina nell’opera di Avagliano e Palmieri è un triplice elemento: la ricostruzione storiografica, che si uniforma alla freddezza solo apparente della ricerca negli archivi, è un dato da salutare positivamente (l’esame del libro riserva continuamente al lettore momenti di autentica commozione; il rigore del metodo non esclude affatto l’emotività di fronte alla restituzione degli avvenimenti); quindi, la fuoriuscita definitiva dall’ideologia – ideologia d’antan -, da salutare altrettanto positivamente; infine, il coraggio di fare la scelta di sottolineare l’importanza delle biografie, sia pure quando i coprotagonisti sono tanti e sono persone normali, senza un ruolo volontario decisivo. 

Non è dunque il racconto della realtà storica a dover inseguire il pensiero dello storico, ma è quest’ultimo a doversi adattare quanto più possibile alla molteplicità pluralistica delle risultanze della ricerca. Più molteplicità irriducibile di quando si fa storia biografica di persone invece che storia di idee, è difficile trovare; ed è ancora più difficile averne ragione elaborando il materiale trovato. Il libro, esemplare sotto il profilo metodologico, è augurabile che sia seguito da tanti altri saggi di storia in cui abbondino le biografie dei tanti coprotagonisti. Sarà così che riusciremo meglio a comprendere – e a utilizzare positivamente – fenomeni storici che ci hanno coinvolto e riguardato come collettività; ma che ci scoraggiano perché i protagonisti sono tanti e sconosciuti. Personalmente amerei che ci si esercitasse di più e meglio con un evento complesso come la ricostruzione postbellica italiana. Dovremo fare uno sforzo. Ma alla fine potremo sapere a chi dobbiamo essere riconoscenti.