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Un’Europa da Draghi?

Mario Draghi ha completato il lavoro cui l’aveva incaricato Ursula von der Leyen per prospettare un possibile percorso di riforma dell’Unione europea. Draghi ha parlato di riforme “radicali” e subito è nata la sua candidatura a guidare la Commissione di Bruxelles.

Persino Ignazio La Russa, ma solo perché interrogato al riguardo, ha riconosciuto che il nostro “Super Mario” ha i “titoli per ambire a ogni ruolo” per poi aggiungere prudentemente: ” Sulla ipotesi concreta non so dire niente e su quello che ha detto men che meno perché non ho letto il suo discorso”.

La prudenza è più che scontata nel caso di La Russa perché Giorgia Meloni sta sgomitando da mesi per porsi come possibile sostenitrice della riconferma di Ursula von der Leyen sognando addirittura, magari, di porsi con i suoi conservatori europei come il valore aggiunto necessario perché la tedesca resti alla guida della Commissione. Ma le cose potrebbero cambiare in fretta ed è necessario seguire il vento sul campo di regata.

La possibile candidatura di Draghi potrebbe diventare concreta se dalle urne il prossimo giugno uscisse un responso in grado di dare alle sinistre e al centro la forza per chiedere una diversa guida della Commissione, anche perché si tratterebbe di una grossa novità la riconferma dello stesso Presidente, e per di più germanico.

Vista l’aria che tira, e cioè del  tirare tutti a pensare ai propri affari, forse noi italiani dovremmo auspicare una soluzione del genere. E questo nonostante l’imbarazzo della Meloni che resta radicata nel suo conservatorismo intriso anche di posizioni estreme. Però, al dunque come giustificherebbe il sabotaggio di una eventuale possibilità per Mario Draghi che molto già fece per l’Italia alla guida della Bce quando tutti ci davano contro?

 

L’articolo è apparso sul sito di “Insieme”, il partito fondato da Stefano Zamagni.

https://www.politicainsieme.com/se-arriva-super-mario/

Senza competenze e formazione non c’è buona politica

Si dice che la crisi della democrazia, su cui gli studiosi e gli editorialisti discutono ormai quotidianamente, abbia  diverse cause. La tecnologia, la finanza, il clima, l’IA con i suoi sconosciuti e allarmanti algoritmi,  il mercato globale in perfetta sintonia con una concezione liberista, o ultraliberista, della società e dello stato, ecc. Non  dimenticando il disinteresse sopraggiunto e la disistima verso la classe politica. Assieme alla non per ultima chiusura individualistica, che detta ormai le leggi ai nuovi rapporti tra persone e al nostro vivere civile. Covid o non Covid, ci stiamo  abituando al fatto che a votare ci vada solo il 50% degli aventi diritto.

Alla base di questa crisi della democrazia, se non addirittura come causa prima scatenante, troviamo un’altra crisi. Piu preoccupante e pericolosa perché riguarda il cittadino e l’essenza della democrazia partecipata: quella del partito politico. Una sorta di utilissima associazione “preistorica”, che però ha dimenticato il meglio del suo passato, anche di quello recente. E che sopravvive per forza d’inerzia solo e grazie ad un “influencer” leader. E solo e grazie al sopraggiungere della comunicazione orizzontale polverizzata e data in appalto – quella dei social e dei  media vecchi e nuovi. Una associazione ormai personalizzata e tutta nelle mani del suo segretario. Tante associazioni, tanti partiti, e altrettanti segretari-leader che si moltiplicano come i funghi, sulla base di personale protagonismo e di rivalse narcisistiche. Ma che, ahimè, distruggono il vero significato e la vera essenza del pluralismo, ai giorni nostri trasformato in pluralismo di facce e di visi, e non di idee e valori.

Tanti leader insomma, che vivono solo nella cronaca quotidiana – televisiva possibilmente. E nella costante polemica dell’oggi col supposto o creato leader avversario. Ma disinteressati completamente  sul futuro e su quello che ci attende appena domani, non dico fra 10 anni. Un atteggiamento che diventa pericoloso  quando si ripercuote sulla base dei votanti e sopratutto su quella degli iscritti. Questi ultimi ormai abbandonati a se stessi, e nelle mani di quel poco che rimane delle sezioni territoriali, e soprattutto  del web. E verso i quali – specie se si ha a che fare con  giovani –  si è perso il gusto della formazione permanente. Degli approfondimenti culturali. Dei dibattiti che volano alto su quello che passa il convento della storia e della geografia, sulle “rivoluzioni epocali” – guerre  comprese –  e sui nuovi  equlibri mondiali da tempo iniziati.

Sulla importanza della formazione, è stato il lungimirante Sergio Fabbrini a soffermarsi sulle pagine domenicali del Sole 24 Ore. Convinto europeista, accanito e colto sostenitore di una unità politica della Ue, guarda sempre al futuro del nostro Continente e mai al passato. Partito di scopo o non scopo, e insistendo sempre su una Europa più integrata, secondo me è stato anche contento, come chi scrive, della proposta di una lista – ancorché di scopo – denominata “Stati Uniti d’Europa”. Ma proprio in  attesa delle prossime elezioni, ci ha fatto però capire che “…per i candidati europei occorrono competenze”. Con ciò sottintendendo il fatto che  la classe politica in circolazione è incompetente. E che occorre  formazione. A tutti i livelli.  Che occorre prepolitica formativa, prima dell’impegno politico. Che occorre insomma cultura, ancor  prima della notizia quotidiana, e dell’attacco quotidiano al leader avversario. Figuriamoci quello che pensa sulle competenze degli iscritti ai partiti e su quelle dei pochissimi giovani attivisti rimasti. 

Ma è stato Giuseppe De Rita ad essere ancora più chiaro. A proposito di competenze, di formazione e di corpi intermedi, nel corso di una intervista di qualche mese fa ad  Avvenire, in verità incentrata sull’ipotesi di un partito cattolico, ha chiarito che: “...sarà per inclinazione professionale, ma preferisco parlare di pre-politica”. E forse se la  prende con tutte le sparpagliate e solitarie iniziative cattoliche sul tappeto, tutte personalizzate ma  tutte senza un minimo cenno all’importanza del prepolitico formativo e culturale. Oggi necessario in quanto, a suo giudizio, siamo in presenza di “..cattolici sonnambuli“, motivo per cui, aggiunge, occorre ripartire dalle parrocchie e dai corpi intermedi per formare e preparare.

Sullo stesso tema della formazione e del prepolitico, si è soffermato giorni fa su questo blog, anche Marco Follini. Spronando i partiti, tutti, sulla “…urgenza di aprire scuole di formazione politiche ancor prima dei partiti...”, dal momento che per dare una certa identità al partito politico, significa promuovre e alimentare cultura politica. Perché la politica dei giorni nostri ha perso la prudenza e l’equilibrio, ed “… è diventata un…rifugio di persone spregiudicate“.   

Insomma, come fa capire anche Giuseppe Fioroni a proposito delle prossime elezioni, occorrono incontri culturali e prepolitici con una auspicabile “Camaldoli Europea“,  tempo fa  proposta dal Cardinale Zuppi, e poi  caduta  nel dimenticatoio.  E forse – aggiungo io –  occorre ri-aprire le scuole di formazione, comprese quelle benemerite diocesane, orientate all’impegno sociale e politico  dei cristiani. Una attività, quest’ultima, pensata per fornire una base culturale e tecnica, permeata di dottrina sociale della Chiesa e di valori cristiani che nel 1987 – subito dopo l’apertura della prima esperienza presso l’Istituto palermitano di padre Arrupe e padre Sorge – contava  ben duecento scuole sparse nelle varie diocesi italiane, mentre oggi ce ne sono meno di quaranta. 

Tutto questo mi ha fatto anche ricordare l’amico Giorgio Merlo. Tenace difensore di un “qualcosa” che sa  di centro cattolico. Da creare tuttavia sul nulla culturale e sulle incompetenze, come direbbe Fabbrini. Senza storicizzarlo, ma sganciandolo dalla società concreta (Luigi Sturzo), dalla diminuita partecipazione religiosa, e dai sopraggiunti ripensamenti sul significato di destra, sinistra e centro dei nostri giorni. Un centro, insomma, secondo l’estroverso Giorgio Merlo necessario, dal momento che ci troviamo di fronte ad una sinistra marxista, atea e proletaria da una parte, e di un fascismo gentiliano, borghese e clericale dall’altra. Oltre naturalmente ad un populismo tragico,  presente solo nel M5s. 

È stato proprio lui però, che tempo fa e con molta leggerezza ha deriso il prepolitico. Considerandolo  come un’accademica e inutile perdita di tempo. Inutile soprattutto per i partiti politici. Spero tanto che di fronte alle incompetenze in circolazione denunciate da Sergio Fabbrini,  una volta preso atto delle  debolezze formative e  culturali dei nostri parlamentari (attuali), e verificata la loro selezione casuale, Merlo si sia reso conto della sua precipitosa presa di distanza dal prepolitico. Ne ha le capacità.

Intesa e collaborazione nelle parole di Mattarella tra Bulgaria e Italia

[…] la Bulgaria per l’Italia è un partner imprescindibile. Sul piano bilaterale e come membro dell’Unione europea. Poi, anche come membro dell’Alleanza atlantica, siamo legati da questa comune appartenenza, comune sforzo di sicurezza e di pace –  insieme – che l’Alleanza atlantica interpreta.

E quindi intendiamo collaborare in pieno. Siamo lietissimi di collaborare, come stiamo facendo,  nella base di Novo Selo, che sono contento di visitare domani con il Presidente Radev, per occuparci –  insieme – della sicurezza, che è comune a tutti i Paesi dell’Europa, nell’Alleanza atlantica, dove le esigenze di ciascun Paese sono fatte proprie da tutti gli altri.

Così noi avvertiamo, come la Bulgaria, il vincolo di alleanza, e intendiamo svolgerlo ed esercitarlo.

È una condizione che sottolinea come, sul piano della sicurezza, le nostre collaborazioni siano intense, pienamente sviluppate e crescenti. Ma lo sono anche in altri settori.

Cortesemente il Presidente Radev ha ricordato come sia cresciuta la nostra collaborazione economica; il nostro interscambio va verso i sette miliardi, nell’anno passato. E speriamo che cresca velocemente, ulteriormente, perché tendiamo a sviluppare la collaborazione economica tra Bulgaria e Italia. Anche attraverso la presenza in Bulgaria di numerose imprese italiane, che sono il perno anche di questa collaborazione intensa tra i nostri Paesi sul piano economico e commerciale.

Abbiamo parlato, come il Presidente poc’anzi ricordava, del futuro dell’Unione europea, delle scelte che dovrà compiere per diventare sempre più coesa, con un’Unione sempre più solida e più capace di svolgere nel mondo un ruolo protagonista. E quindi con l’esigenza di compiere scelte importanti che le consentono di svolgere questo ruolo.

Nel Consiglio europeo che nelle prossime ore si svilupperà, e a cui parteciperà il Presidente Radev, si parla già di alcuni argomenti importanti come la competitività nell’Unione, elemento che consente – sviluppandolo adeguatamente – di offrire possibilità e opportunità maggiori per il futuro  dei nostri giovani.

Abbiamo condiviso la soddisfazione per la nuova intesa intervenuta nell’Unione, approvata definitivamente dal Parlamento europeo poche settimane addietro, per quanto riguarda l’asilo e la migrazione. È un accordo, un’intesa che supera quella ormai datata – e del tutto inattuale – di Dublino di tanto tempo addietro, e apre la porta ad una collaborazione più intensa dell’Unione per governare un fenomeno crescente che richiede di essere affrontato dall’Unione in quanto tale.

Bulgaria e Italia sono interessate dal fenomeno. La Bulgaria, con la rotta balcanica, l’Italia per quella mediterranea. E siamo convinti entrambi che questo fenomeno possa essere governato con ordine, non in maniera scomposta e disordinata come avviene oggi, se viene fatto proprio e assunto come proprio il compito dall’Unione europea.

Abbiamo parlato molto dell’allargamento. Siamo, come in ogni aspetto importante, pienamente d’accordo – Bulgaria e Italia – sull’esigenza di allargamento dell’Unione europea. Naturalmente per Ucraina, Moldova, Georgia, ma soprattutto per i Balcani occidentali.

Tengo a sottolinearlo soprattutto perché i Balcani occidentali, da quasi 20 anni, sono in itinere, sono in strada per l’ingresso nell’Unione, ed è il momento di accelerare velocemente questo percorso di ingresso per completare l’Unione. Ed è importante che questo avvenga in tempi veloci. Siamo, in questo, pienamente consenzienti e d’accordo. 

Del resto, la Bulgaria, per i Paesi che sono in attesa di entrare nell’Unione europea, rappresenta un esempio importante di come ci si adopera e ci si muove per un ingresso efficace nell’Unione europea.

Vi è una quantità di argomenti che abbiamo toccato con il Presidente. Tra questi abbiamo parlato, naturalmente, anche delle crisi che tristemente contrassegnano, in questo momento, l’Europa al suo interno, con la gravissima aggressione della Russia all’Ucraina ai confini dell’Europa e nell’area mediterranea, con quel che avviene in Medio Oriente.

Riteniamo che si debba continuare a dare il massimo sostegno all’Ucraina per riaffermare il principio della pari dignità di ogni Stato. E che non è ammissibile che uno Stato più grande e più forte possa pretendere di imporre con le armi la sua volontà a uno Stato meno forte e meno grande.

Questo sovverte i principi della civiltà, che nel mondo sono cresciuti nel corso dei secoli, e che sono stati alla base della nascita delle Nazioni Unite nel ’45. 

Quindi, riaffermando tutto ciò e difendendo l’Ucraina, aiutandola, riaffermiamo questo principio.

Naturalmente abbiamo detto, insieme – con il Presidente Radev, cercando in ogni modo con grande impegno e ostinazione – qualunque strada possibile per giungere alla fine del conflitto e a una pace giusta.

Abbiamo parlato del Medio Oriente, dell’orribile pagina disumana del 7 ottobre contro Israele da parte di Hamas, e della condizione drammatica, dal punto di vista umanitario, che si registra a Gaza con la reazione di Israele e con le tante vittime della popolazione civile di Gaza.

Il rischio che si allarghi il conflitto è drammaticamente presente per il mondo. Anche lì va fatto ogni sforzo – come si sta facendo – perché si trovi una strada per giungere alla soluzione unica possibile di due Stati per due popoli.

Questo è stato l’argomento anche della Riunione straordinaria del G7 di tre giorni addietro, che ha esortato al ‘cessate il fuoco’ e a trovare una strada per definire finalmente una condizione stabile di pace. […]

 

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https://www.quirinale.it/elementi/110819

I docenti fragili davanti alle commissioni di verifica Inps

Ora che lo smart working è stato rimosso dalle tutele dei docenti lavoratori fragili si possono trarre alcune conclusioni su una vicenda tormentata che resta una delle pagine più vergognose della storia repubblicana. Il lavoro agile preesisteva alla normativa introdotta dal primo Governo Conte e via via rinnovata a singhiozzo, in ritardo, con limitazioni (solo i privati, non i pubblici fino alla Direttiva Zangrillo del 29/12/2023 che intendeva porre rimedio nel pubblico impiego ad una disparità di trattamento di profilo costituzionale).  

Applicata in tutti i Ministeri meno che in quello dell’Istruzione e del Merito, ma limitatamente al personale docente: non c’erano soldi per pagare i supplenti, eppure so che ci sono Dirigenti amministrativi che lo smart working lo fanno anche ora, con contratti ad personam. So anche di qualcuno che ha scritto al Ministro Valditara e al Presidente Mattarella senza ottenere risposta. Preesisteva – dicevo – la legge 81/2017 che affermava che il Dirigente Scolastico “può” organizzare modalità flessibili di lavoro e di formazione del personale: qualcuno ha chiesto di applicarla ma si è sentito rispondere “può” ma non “deve”: una grande prova di comprensione e umanità verso malati le cui patologie sono state poi certificate “fragili” dal D.M. Salute del 4/2/2022. 

In piena emergenza pandemica i docenti sono stati sottoposti a controllo – anche su loro richiesta – del “medico competente “di istituto: chi è stato valutato idoneo a riprendere l’attività di insegnamento, chi messo in malattia equiparata al ricovero ospedaliero, con codice nosologico V07, chi non idoneo fino alla fine dell’emergenza sanitaria e utilizzato in smart working. Controlli esperiti più volte nella fase emergenziale e successivamente: situazioni di organizzazione del lavoro agile rigorosamente rispettose e applicative della normativa vigente. So di una docente alla quale il Dirigente ha chiesto due volte il certificato con l’indicazione della diagnosi, non fidandosi di ciò che il medico competente o – su sua indicazione – il medico di base o lo specialista avevano certificato. Un reato penale da segnalare al Garante della privacy e all’A.G.: cosa non fatta per obbedienza alla richiesta ricevuta. 

Nella molteplicità delle situazioni verificatesi sul territorio ho riscontrato – seguendo la vicenda dei fragili con decine e decine di articoli pubblicati- modalità applicative differenti: i Dirigenti scolastici, oggettivamente in difficoltà per una normativa in continua evoluzione, hanno dimostrato grande buon senso e comprensione verso situazioni di reale criticità e difficoltà applicativa: parliamo di docenti con tumori, affetti da patologie immunodepressive che li sovraesponevano al contagio, da artrite reumatoide. L’elenco delle patologie fragili si trova come è scritto nel D.M. “Speranza” del 4/2/2022. 

Qualcuno si è immedesimato preside sceriffo o capitano della nave come i Ministri pro-tempore della P.I. li avevano definiti? Linguaggio inopportuno che forse ha fatto sentire qualcuno tanto autoritario da dimenticare che la normativa che regolava (e regola tuttora, a prescindere) la materia della fragilità aveva come scopo principale la “tutela” dei lavoratori – loro malgrado ammalati. Come il caso di quella docente che in tre mesi di smart working (a volte concesso con resistenza, come fosse una regalia) ha scaricato 200 attestati di corsi di formazione, che doveva ogni settimana presentare alla segreteria di istituto, trascorrendo giornate intere al computer nonostante avesse rappresentato al medico competente la disarticolazione delle dita di una mano: niente da fare, il Dirigente non ammetteva autoformazione o lettura di libri con successivi report: nonostante il Ministro Valditara al Convegno della Fondazione Einaudi nel luglio 2023 avesse raccomandato il mix della formazione digitale e di quella libraria. Una scelta dell’et-et, l’aveva definita, non dell’aut-aut. 

Avendo svolto il ruolo di ispettore per oltre 20 anni non ricordo che mi fossero stati segnalati casi di stakanovismo da guinness dei primati: 200 attestati non mi risulta che qualcuno li abbia conseguiti nell’intera carriera. Si aggiunga che questa modalità di organizzazione dello smart working per i docenti aveva totalmente e disinvoltamente disatteso l’art.8 del D.L. 29/9/2023 n° 132 che prevedeva il loro utilizzo nel Piano triennale dell’offerta formativa di istituto: un utilizzo più flessibile e utile alla scuola stessa. Mi domando quale vantaggio abbia tratto quella docente dallo smanettare ‘quotidie’ la tastiera e dal seguire corsi con argomenti diversi tra loro, in media 5 al giorno. 

Adesso che questo palcoscenico dell’italica burocrazia tradizionale e digitale ha chiuso i battenti, mi viene spontaneo chiedere ai Ministri per le Disabilità avvicendatisi in questi ultimi tre–quattro anni quale tipo di interventi abbiano realizzato per garantire le tutele costituzionali dei lavoratori malati. La scuola brilla per pluralità di situazioni disparate e disperate. Ora che cala il sipario – in cauda  venenum – emergono alcune perle che inanellano la sequenza di tre anni sofferti e per taluni umilianti. Giunge notizia di docenti fragili che – esaurito lo smart working ma non il congedo del comporto contrattuale – vengono inviati a controllo delle commissioni provinciali di verifica. Come se sopportare la disgrazia di una grave malattia fosse una colpa di cui render conto, come se i tre, quattro, cinque certificati del medico competente via via racimolati strada facendo fossero carta straccia. 

E qui subentra un ulteriore aspetto di criticità valutativa. Fino ad un anno fa le commissioni di verifica per l’idoneità professionale avevano sede presso gli uffici territoriali del MEF. Accadeva, se non sbaglio, che il soggetto sottoposto a visita veniva visitato e valutato, insieme alla documentazione che presentava, da un collegio medico al completo. Mentre risulta che ora che la competenza valutativa è passata in capo agli uffici decentrati dell’INPS il soggetto venga valutato da un medico “monocratico” il quale solo in un secondo tempo riunisce una commissione alla quale riferisce l’esito della visita. Quindi questa Commissione di cui fa parte anche un rappresentante del Ministero istruzione e Merito (MIM) prende in considerazione il caso e decide. Conoscendo uno di questi componenti del MIM ho avuto conferma di questa valutazione “differita” del caso. 

Ora io credo che potrebbe definirsi collegiale una Commissione che visiti “ictu oculi” e “de visu”, cioè in presenza il soggetto di cui valutare l’idoneità ovvero la non- idoneità alla mansione ordinariamente svolta. Sommessamente esprimo questo parere: la valutazione del caso è adeguata se tutti i componenti della Commissione sono presenti e si esprimono, raccogliendo anche le deduzioni del chiamato a visita. “Tres faciunt collegium” ci insegna la giurisprudenza tramandata e consolidata e ciò vale non solo per la redazione di un verbale ma anche e soprattutto per la visita medica, che sola può offrire tutti gli elementi di valutazione ai componenti della commissione di verifica. 

Potrebbe forse definirsi “visita medico collegiale” quella che avviene in differita rispetto alla visita di un solo medico e che si pronuncia sulla base della relazione del valutatore monocratico, inoltre “per tabulas”, cioè prendendo visione del cartaceo ma senza vedere di persona, conoscere, valutare e perché no ‘ascoltare’ il soggetto su cui si deve assumere “in scienza e coscienza” una decisione che può condizionare la futura carriera, fino al licenziamento? Direi senza dubbio di no. Si tratta di esseri umani, ‘persone’ che hanno vissuto sofferenze e convivono con malattie serie. Mi pare una osservazione non peregrina o pretestuosa poiché a mio parere sussistono gli estremi per impugnare in ogni sede un verbale redatto “postumo” alla visita e sottofirmato da commissari non presenti alla visita stessa.  Sommessamente, in tutta umiltà, mi permetto evidenziare l’opportunità di una riflessione, al Governo e alla Presidenza dell’INPS. 

Aggiungo che a mio parere non ha senso sottoporre una persona “certificata fragile” a visita di verifica. Ci sono docenti immunodepressi e trapiantati che con cure adeguate svolgono il loro lavoro con dignità ed efficacia. Si può dichiarare non idoneo un fragile a motivo della sua patologia, disattendendo magari le diagnosi-prognosi delle strutture del SSN che lo hanno in cura? Credo proprio di no.

Sergio Mattarella: “Bachelet, uomo del dialogo”.

[…] Bachelet, anche quale Vicepresidente del Consiglio Superiore, è stato testimone autentico dei valori della nostra Costituzione. Si adoperava costantemente per la ricerca di prospettive condivise anche in considerazione delle fratture ideologiche che attraversavano il nostro Paese.

Essere “uomo del dialogo” è stata, sin dall’inizio, la caratteristica della sua attività politica e sociale. Già nel 1946, a vent’anni, da studente, dirigente della Fuci, ricercava sempre il confronto dialettico con le altre componenti universitarie in vista della ricostruzione dell’Italia democratica: “Con nessuno dei nostri simili – scriveva – abbiamo il diritto di rifiutarci o di essere pigri nel gettare il ponte”.

Il dialogo è stato sempre un tratto distintivo del suo impegno nella società profuso lungo l’intero arco della sua vita, nelle organizzazioni cattoliche, nell’insegnamento nelle aule dell’università, nel Consiglio superiore della magistratura, in ogni altra attività pubblica. Il dialogo rappresentava per lui, più che un metodo, l’essenza della democrazia.

La ricerca del confronto non era strada agevole e, talvolta, da taluno neppure apprezzata, in una stagione tra le più tormentate e conflittuali della storia repubblicana, dove non soltanto le parole e le ideologie si facevano più aspre, ma la violenza delle armi pretendeva di farsi strumento di lotta politica, elevando gruppi criminali a soggetto politico.

In quegli anni drammatici, Vittorio Bachelet esprimeva la convinzione che il rafforzamento delle istituzioni democratiche si realizzasse non attraverso lo scontro, ma con scelte – per quanto possibile condivise – di piena e coerente attuazione dei principi della nostra Costituzione.

La sera prima del brutale assassinio, accompagnando a casa l’amico Achille Ardigò, aveva con lui discusso della minaccia terroristica, giungendo alla conclusione, condivisa, che il terrorismo andasse combattuto senza rinunciare ai principi della legalità democratica, nel rispetto delle regole costituzionali, senza ricorrere all’arbitrio, in quanto la Repubblica dispone delle risorse capaci di far prevalere i valori della Costituzione anche nei momenti più critici.

Bachelet era convinto, inoltre, che la coerenza dei comportamenti fosse un efficace strumento di comunicazione e, in tempi di disorientamento, valesse più di una lezione dalla cattedra. È stata questa esemplare coerenza a segnarne l’impegno, sempre di grande valore, in ogni ambito.

Da Presidente dell’Azione cattolica, aveva vissuto intensamente gli anni del Concilio, le speranze e le aperture verso la società che cambiava e nei confronti di una generazione che sognava una società sempre migliore. È stato protagonista della scelta religiosa di quella organizzazione, che – come ripeteva – non fu mai intesa come una rinuncia, un abbandono dell’impegno pubblico, ma come un ritorno sincero e umile alle origini, una nuova e coinvolgente riproposizione dei valori essenziali.

Vittorio Bachelet non ha mai ostentato la sua fede, anche se ben nota a tutti, ma l’ha tradotta in un’autentica, laica, testimonianza umana e istituzionale in ogni ruolo in cui è stato chiamato a svolgere funzioni pubbliche di alta responsabilità.

I valori della collaborazione e della lealtà istituzionale erano evidenti nel suo stile di ascolto e nella sua visione autenticamente aperta al confronto, al punto di vista altrui.

Di questo costituisce, in qualche modo, testimonianza anche la votazione che lo portò alla vicepresidenza di questo Consiglio. Bachelet prevalse per un solo voto su Giovanni Conso, ma l’amicizia e la stima tra queste due personalità era alta e tale rimase.

In quel momento della storia repubblicana fu un segno di unità perché, senza rinunciare alle proprie convinzioni, il loro rapporto inalterato assunse un valore cruciale per la salvaguardia di questa istituzione, per il suo funzionamento, la sua credibilità.

Con questo spirito, Vittorio Bachelet ha guidato l’organo di governo autonomo della Magistratura, coniugando fermezza di principi e disponibilità al dialogo nella ricerca di convergenza tra prospettive diverse.

La composizione delle diversità – è ben chiaro a tutti – non si realizza ricorrendo a logiche di scambio, che assicurano l’interesse di singoli o di gruppi. Un metodo del genere rappresenterebbe la negazione del pluralismo democratico, che ispira le nostre istituzioni repubblicane e che Vittorio Bachelet ha sempre promosso.

Nella sua azione era guidato dalla convinzione che, nonostante tutte le difficoltà, fosse possibile ricomporre le divisioni, mettendo da parte gli interessi particolari e recuperando così il senso più alto della politica al servizio delle Istituzioni.

L’intitolazione della sede del CSM a Vittorio Bachelet assume, per questo, un grande significato: richiamare il valore del suo impegno e seguirne l’insegnamento.

Nella logica criminale dei suoi assassini, Bachelet rappresentava le istituzioni che contrastavano con determinazione la violenza terroristica utilizzando soltanto gli strumenti costituzionali e, insieme, esprimeva un profondo senso della comunità e della coesione sociale.

Questi due elementi – la Costituzione e il senso di comunità per la coesione sociale – hanno sempre sconfitto i tentativi di lacerazione della società e di disarticolazione delle sue istituzioni. […]

 

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https://www.quirinale.it/elementi/110752

Berlinguer ti voglio bene. La svolta della Schlein è una sorpresa?

Ritengo del tutto strumentale, nonchè scorretta, la polemica sul volto sorridente di Enrico Berlinguer nella tessera del Pd 2024. La ritengo strumentale e sbagliata per due ragioni di fondo.

Innanzitutto perchè Berlinguer è stato uno dei maggiori leader politici della prima repubblica. Ha guidato il più forte partito comunista dell’occidente per lunghi 12 anni e, soprattutto, è riuscito, seppur nel pieno rispetto dell’ortodossia sovietica dell’epoca, a ritagliare uno spazio e un ruolo autonomi per la storia e le vicende politiche del comunismo italiano. Un elemento, questo, che ha fatto proprio di Berlinguer uno dei principali leader della storia del comunismo internazionale.

In secondo luogo, e a prescindere dalla figura di Berlinguer, è noto a tutti – almeno credo – che il Partito democratico progressivamente è diventato il naturale erede della storia del Pci/Pds/Ds. L’intuizione originaria di unire le principali culture riformiste nello stesso partito contenitore elettorale si è esaurita abbastanza velocemente e oggi il Pd è un luogo politico radicalmente diverso rispetto ad un passato anche solo recente. E l’arrivo della Schlein al comando ha rappresentato la naturale e fisiologica chiusura di quella fase inaugurata con Veltroni nel lontano 2007. Perché oggi parliamo di un partito che esprime, e del tutto legittimamente, un profilo politico e culturale di una sinistra radicale, massimalista e libertaria che, non a caso, individua nei populisti dei 5 Stelle, nell’estrema sinistra di Fratoianni e nell’ambientalismo fondamentalista di Bonelli i naturali interlocutori ed alleati per costruire un progetto politico e di governo.

Detto questo, e per fermarsi a queste due sole ragioni, quello che invece stupisce ed incuriosisce è la tesi di coloro – a cominciare dai pochi Popolari rimasti in quel partito – che a loro volta si stupiscono della scelta della Schlein per la tessera Pd del 2024. Stupisce perché tutti sanno, ma questa volta veramente tutti, che quel partito non centra nulla con la storia, la cultura, i valori e la prassi del cattolicesimo popolare e sociale. Non c’entra nulla con le storiche, e del tutto legittime, battaglie dei comunisti italiani. Soprattutto sulla “questione morale”, oggi molto sbandierata, ricordando proprio la famosa intervista di Berlinguer ad Eugenio Scalfari del 1981 contro “il sistema di potere della Democrazia Cristiana”.

Ecco perché arriviamo persino a condividere l’iniziativa della Schlein di dedicare proprio a Berlinguer la tessera del Pd 2024. Per un fatto innanzitutto di coerenza, di coerenza, di trasparenza e di lungimiranza del nuovo corso del Pd. E la Schlein, checchè se ne dica o se ne pensi, è una leader politica e culturale coerente. Come lo dovrebbero essere, su un fronte alternativo, quelli che continuano a dichiararsi Popolari nel Pd.

Un contributo dell’Italia per una nuova agenda transatlantica

Un contributo italiano alla definizione di una nuova agenda transatlantica. Questo l’ambizioso scopo della conferenza organizzata dalla Sioi (Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale) e dalla Divisione diplomazia pubblica dell’Alleanza Atlantica in questi ultimi due giorni –  il 15 e 16 aprile – a Roma presso la caserma dell’Arma dei Carabinieri Salvo D’Acquisto, per i 75 anni della Nato.

Partendo dalla consapevolezza che va ricostruita una architettura di sicurezza e di cooperazione globale si è discusso di come “disegnare una nuova agenda transatlantica”, ha spiegato l’ambasciatore Riccardo Sessa, presidente della Sioi, in materia di sicurezza e di pace in un’epoca di trasformazioni globali.

La conferenza che ha reso per due giorni Roma capitale della Nato anche per la presenza di tutti i 32 ambasciatori rappresentanti permanenti presso la Nato dei rispettivi Paesi membri, insieme a molti esperti, diplomatici, politici e militari, è stata aperta dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Il capo dello Stato ha sottolineato in particolare tre punti. Il primo: cosa ha rappresentato per l’Italia la scelta di essere nel gruppo dei Paesi fondatori della Nato nel 1949? Il superamento dell’esclusione da ogni circuito internazionale, “una scelta essenziale di reingresso nella politica internazionale”. Una decisione che fu anche oggetto di profondo dibattito, come si addice alle democrazie, ma che alla fine ha dimostrato la saggezza delle scelte guidate da De Gasperi e Sforza. Il Patto Atlantico, siglato 4 aprile del 1949 “avrebbe contribuito, infatti, alla identità politica della Repubblica”.

Gli altri due aspetti evidenziati da Mattarella riguardano l’attualità. “Non ci può essere separazione tra sicurezza del fianco nord e sicurezza del fianco sud dell’Alleanza” ha affermato il capo dello Stato, invitando a rivolgere maggiore attenzione all’area mediterranea e medio-orientale.

Per la Nato di tratta di continuare il dialogo già intrapreso con i Paesi delle suddette aree. Quest’anno, infatti, ricorrono anche gli anniversari di due partenariati della Nato con Paesi dell’area MENA (Middle East and  North Africa). Il Dialogo Mediterraneo, creato nel 1994, con sette Paesi della regione del Mediterraneo meridionale (Egitto, Giordania, Israele, Marocco, Mauritania, Tunisia e Algeria). E l’Iniziativa di Cooperazione di Istanbul avviata nel 2004, rivolta a quattro Paesi della regione del Golfo Persico (Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait e Qatar). 

Mattarella, infine, ha richiamato la necessità di dare compimento al progetto di una difesa comune europea che “consentirà alla Nato di essere più forte” in “un mondo irreversibilmente contrassegnato dal ruolo di grandi soggetti internazionali”. Un “cambiamento radicale”, che va nella stessa direzione di quelli invocati ieri a La Hulpe da Mario Draghi in ambito  economico per rendere l’Ue adatta al mondo di domani.

La conferenza si è articolata in vari panel su questioni – chiave: dal sostegno all’Ucraina, con l’intervento della premio Nobel per la Pace Oleksandra Matviichuk, al futuro della Russia, passando per la deterrenza, la difesa della democrazia e dello Stato di diritto, le sfide globali e le situazioni di instabilità regionali dai Balcani, al Mediterraneo al Golfo Persico.

Per l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, capo di Stato maggiore della Difesa e prossimo presidente del Comitato Militare della Nato, la ragione principale del successo dell’Alleanza  Atlantica è “la scelta politica” che “per la prima volta nella storia” ha visto “un trattato militare” collegare “la difesa della sicurezza esterna dei suoi membri ai valori della democrazia.”

In chiusura dei lavori il ministro della Difesa, Guido Crosetto, ha affermato che la Nato “deve avere il coraggio di adeguarsi ai tempi e la sfida sarà la velocità, il pragmatismo e la capacità di avere una vera visione e strategia comune”.

I contenuti e il metodo di questa conferenza hanno offerto alla politica una valida occasione per affrontare, evitando le sirene del populismo, le questioni della difesa, dimostrando che sono molto più efficaci alla causa della pace e della sicurezza i contributi sul merito e la consapevolezza che la voce dell’Italia è autorevole e influente in seno all’Alleanza. Un invito a credere nel ruolo della politica, che sta alla base del Patto Atlantico e che rende possibile  coniugare la compattezza necessaria con all’altrettanto necessario dialogo e confronto fra Paesi amici.

Pomeriggi popolari: si discute di Europa tra guerre e pace.

Nel cuore di Roma, presso la Sala della Lupa di Palazzo Montecitorio, il think tank “Parole Guerriere”, fondato da Diego e Dalila Nesci, torna ad animare il dibattito politico con un incontro di grande attualità. “Guerre e pace: Europa al bivio” è il titolo del 23esimo evento del ciclo “Pomeriggi popolari a Montecitorio. Dentro la politica: dialoghi sulle priorità del Paese”, un appuntamento che assume un’importanza cruciale alla luce del complesso scenario geopolitico attuale.

Con l’Europa al bivio tra conflitti e tensioni, l’incontro si propone di indagare le profonde conseguenze delle guerre in corso e il ruolo del continente europeo in questo contesto. A pochi mesi dalle elezioni per il Parlamento europeo, l’evento si configura come un’occasione preziosa per riflettere sulle sfide e le scelte di enorme portata che l’Europa si trova ad affrontare.

Relatori d’eccezione allieteranno il dibattito: Federico Petroni, coordinatore della scuola di Limes, il giornalista Tommaso Labate e lo scrittore Igor Sibaldi. A seguire, un vivace confronto tra gli onorevoli Licia Ronzulli (Vicepresidente del Senato di Forza Italia), Maria Stella Gelmini (Azione), Enrico Borghi (Italia Viva) e Giuseppe Fioroni (Tempi Nuovi). I lavori saranno moderati da Diego Antonio Nesci, fondatore ed organizzatore, insieme all’On. Dalila Nesci, del think tank “Parole Guerriere”.

“Siamo convinti che solo il confronto onesto e leale sulle sfide planetarie in cui siamo immersi, possa conferire un senso profondo all’agire politico, da troppo tempo orientato alle urgenze invece che alle priorità”, affermano i Nesci.

L’evento “Guerre e pace: Europa al bivio” si configura come un appuntamento da non perdere per tutti coloro che desiderano approfondire le tematiche relative al futuro dell’Europa e al suo ruolo nel mondo. Un’occasione per riflettere, confrontarsi e contribuire a costruire un futuro più sicuro e prospero per il nostro continente.

Per i giornalisti ed operatori è possibile accreditarsi all’indirizzo mail: eventi@paroleguerriere.info

L’arduo gioco iraniano: tante bombe per non fare la guerra?

Vi sono due aspetti, apparentemente contraddittori, che emergono dall’attacco sferrato dall’Iran a Israele nella notte fra sabato e domenica. Da un lato il lancio di centinaia di droni e missili effettuato direttamente dal territorio della Repubblica Islamica sembra essere stato studiato apposta per non produrre danni gravi: ampiamente preannunciato e facilmente contrastabile (considerando il noto scudo protettivo antimissile costruito da Israele e supportato nell’occasione dall’aviazione di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e, dato da considerare con grande attenzione, Giordania) come in effetti è avvenuto. 

È la conferma di ciò che tutti gli analisti sostengono da quando è iniziata la crisi di Gaza, ossia che gli ayatollah non vogliono entrare in guerra con Israele consapevoli dei rischi che essa comporterebbe per il loro stesso regime. Dall’altro, però, la rete stesa dai pasdaran – i Guardiani della Rivoluzione – attraverso una politica estera parallela a quella ufficiale dello Stato, ha implicato la formazione di alleanze sul territorio con un solo obiettivo unificante: la distruzione di Israele. A questo poi se ne aggiunge un altro, specifico di Teheran: l’estensione dell’influenza sciita nella regione e il conseguente predominio geopolitico e dunque anche economico. Su questo secondo fronte l’avversario principale è certamente l’Arabia Saudita, terra sacra dell’Islam sunnita.

Siamo in Medio Oriente, e ciò che appare contradditorio agli occhi occidentali non necessariamente lo è davvero. Cerchiamo di spiegarci. 

Teheran ha finanziato, addestrato e armato movimenti locali impregnati di fanatismo religioso utili ai suoi obiettivi di medio-lungo periodo. Così ha aiutato Hezbollah in Libano, gruppo sciita che oltre a controllare militarmente ed economicamente il sud di quel paese, influendo politicamente in modo significativo sul debole governo di Beirut, costituisce altresì una permanente minaccia per il nord di Israele. 

Ha aiutato Hamas anche se sunnita, in quanto fazione palestinese ostile a qualsiasi accordo con lo Stato ebraico, tentazione che invece l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha più volte avuto (peraltro contrastata, sull’altro versante, dall’estremismo ebraico che ha utilizzato gli aggressivi coloni in Cisgiordania per bloccare ogni possibile sviluppo in tal senso). 

Ha aiutato le milizie sciite Houthi in Yemen sia nella guerra civile che insanguina quel disastrato paese da oltre dieci anni sia nella loro azione di sabotaggio delle vie marittime commerciali sul Mar Rosso, che rappresentano il fronte meridionale dell’accerchiamento di Israele oltre che un formidabile problema per l’Arabia. 

Ha aiutato lo sciita di fede alawita Bahar al-Assad nel massacro del suo popolo asservendo la Siria al progetto strategico della cosiddetta “Mezzaluna sciita”, il collegamento che senza soluzione di continuità collega l’oriente persiano col Mar Mediterraneo passando attraverso Iraq (ove l’influenza e il potere iraniano sono notevoli e ove, per non trascurare alcun dettaglio, in ogni caso viene sostenuto il gruppo terroristico sciita Kataib Hezbollah), ovvero attraverso Siria e Libano. Una rotta anche commerciale di grande interesse per chiunque voglia operare in quell’area e che dunque ostacola il predominio regionale dell’Arabia, come detto l’altro obiettivo strategico iraniano. La Siria, inoltre, costituisce un altro anello dell’accerchiamento di Israele, questa volta a est al confine con le alture del Golan occupate da quest’ultimo sin dal 1967.

Questa ragnatela distesa nel tempo rischiava però di venire distrutta dallo sviluppo degli “Accordi di Abramo”, che promettevano di allargare sino addirittura all’Arabia Saudita la rete statale sunnita di riconoscimento di Israele e di avvio di relazioni anche commerciali e non solo diplomatiche. A Egitto e Giordania che ormai da decadi riconoscono lo stato ebraico si erano così aggiunti Marocco, Emirati, Bahrein in attesa, appunto, dei sauditi e sotto l’egida americana.

Per gli ayatollah era di vitale importanza disinnescare questo pericolo, enorme dal loro punto di vista. E così hanno lavorato a un qualche riavvicinamento diplomatico con gli avversari religiosi e geopolitici di Riad, con l’aiuto non certo disinteressato della Cina e nell’ambito del nuovo sviluppo dei paesi “Brics plus”, alleanza dal carattere antioccidentale ancora tutta da decifrare. Poi qualcun altro, guarda caso protetto dall’Iran, il 7 ottobre ha provveduto a sabotare gli Accordi e soprattutto il loro temuto sviluppo, confidando nella reazione furiosa di Gerusalemme guidata da una maggioranza governativa nella quale prevalgono estremisti che vedono solo nella forza militare la risoluzione di ogni loro problema.

Il martirio di Gaza ha come previsto infiammato le piazze arabe, ponendo in difficoltà i regnanti che riconoscono Israele e rendendo impossibile un passo in quella medesima direzione da parte dei sauditi. Un successo, dunque, per Teheran (anche perché nessuno può provare che la carneficina compiuta da Hamas nel sud di Israele sia stata concordata o addirittura preparata con gli iraniani). Ma la decisione israeliana di attaccare una loro sede consolare ha costretto la teocrazia ad una reazione diretta che però avrebbe dovuto essere tanto eclatante quanto innocua. E così è stato.

Da un lato si è accontentata la folla e dall’altro, a conferma che una guerra ora non è nelle aspirazioni di Teheran, non si è andati oltre lo stretto necessario, affrettandosi anzi a dichiarare conclusa la reazione e lanciando la palla nello schieramento avversario. Che ora dibatte, fra l’ansia distruttiva degli oltranzisti ebrei e la ragionevolezza degli alleati occidentali di Israele. E qualcuno sostiene che il compromesso potrebbe consistere nella non-reazione verso Teheran e per converso nell’attaccare Rafah. Sulla pelle dei palestinesi. Come sempre.

Il delisting del centro dal mercato elettorale di giugno

Le ormai prossime elezioni europee dovevano essere caratterizzate da una rinnovata e qualificata presenza del centro. Un centro che è stato più volte sbandierato e richiamato – e giustamente – in questi ultimi tempi perchè, come dicono praticamente tutti i sondaggisti, cresce una domanda nella vasta e composita pubblica opinione italiana che però non trova ancora una adeguata e compiuta risposta politica. Certo, le ragioni di questa mancata e credibile offerta politica sono molteplici e non è il caso di affrontarle una ad una anche perchè sono sufficientemente note ed oggettive.

Ma è indubbio che questo spazio politico, che non può essere un punto di partenza ma, semmai, un punto di arrivo nella vita pubblica italiana, va riorganizzato e presidiato come si suol dire. E questo perché nel nostro paese si governa “dal centro” e “al centro”. Al di là dei proclami e delle promesse delle campagne elettorali, della radicalizzazione della lotta politica e dello stesso bipolarismo muscolare che da anni, purtroppo, caratterizza la concreta dialettica politica italiana.

Ora, è appena sufficiente osservare lo scenario politico che si presenta nel nostro paese in vista delle prossime elezioni europee per rendersi conto che un partito di centro, o una formazione di centro o una politica di centro continuano a scarseggiare.

Se il progetto della Bonino attraverso gli “Stati d’Uniti d’Europa” ripropone una bella suggestione politica ma con una forte caratterizzazione radicale e laicista, la formazione di Calenda – in solitaria – è finalizzata a ritagliarsi uno spazio vitale in vista del post voto europeo; e ciò con l’obiettivo di dar vita, almeno così dice, ad un progetto politico di un nuovo partito che dovrebbe essere in grado di ricomprendere le tradizionali culture centriste e riformiste del nostro paese. Vedremo…

Infine Forza Italia che, almeno stando alle ultime dichiarazioni del suo segretario nazionale Antonio Tajani, intende rimarcare con forza e determinazione le ragioni di un centro politico e di governo nel nostro paese, seppur in stretta alleanza con la destra di governo.

Insomma, abbiamo tre proposte politiche vagamente centriste in conflitto l’una con l’altra ma che, almeno sino ad oggi, non evidenziano ancora una vera e propria formazione di centro che sia in grado di ricomporre un’area ancora troppo frammentata per poter giocare un ruolo politico decisivo e qualificante per gli stessi equilibri politici.

E se c’è un compito a cui non si può rinunciare, e che può e deve già partire da questa campagna elettorale, è proprio quello di lavorare per ricomporre l’area centrista nel nostro paese. Che non può che essere culturalmente plurale senza egemonie di sorta. Di chicchessia. Né solo quella radical/laicista; né esclusivamente quella tecnocratica/repubblicana/liberale e neanche quella cattolico/popolare e sociale. Solo un impasto di tutte le varie e articolate sensibilità culturali centriste, democratiche e riformiste, può dar vita ad un progetto politico realmente di centro che sia in grado di stringere alleanze da un lato ma senza rinunciare a giocare il proprio ruolo dall’altro.

Per questi semplici ma essenziali motivi le elezioni europee rappresentano un passaggio importante ma non definitivo ai fini della costruzione di un progetto – ovvero il centro e una “politica di centro” – che può e deve rappresentare uno snodo fondamentale per il futuro della politica italiana. E anche europea.