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Turismo e Via Lattea: basta con il panico mediatico. Appello a Conte

“La delicata e complessa vicenda sanitaria che ci investe ormai da molti giorni non può più essere accompagnata da un persistente e invasivo panico mediatico. Nel pieno rispetto delle indicazioni e delle prescrizioni che provengono dalla comunità scientifica e dagli organi istituzionali, riteniamo che il nostro comprensorio territoriale – il complesso della Via Lattea, appunto – può ripartire e ridecollare solo se cessa un inspiegabile bombardamento mediatico a cui assistiamo ormai da tempo.

Nessuno, come ovvio, pensa di attenuare il ruolo dell’informazione. Anzi, l’informazione era e resta fondamentale per capire e approfondire meglio l’emergenza con cui stiamo convivendo. Ma siamo altrettanto consapevoli che se permane nel tempo questo clima mediatico di paura e di terrore, un comprensorio come il nostro rischia di precipitare in una crisi senza precedenti e che difficilmente riuscirà a rialzarsi se non a caro prezzo. Cioè con una chiusura di moltissimi esercizi e con il licenziamento di centinaia di persone. Per questi motivi facciamo anche un appello al Presidente del Consiglio Conte.

Se non si inverte rapidamente la rotta, non lamentiamoci se tra qualche mese faremo i conti con il baratro e la crisi irreversibile di intere zone territoriali. A cominciare dal comparto della Via Lattea, il più importante comprensorio nazionale degli sport invernali del nostro paese”. 

Unione Montana Via Lattea. 

Oggi a Roma si vota

Oggi 160mila romani potranno recarsi a votare per scegliere il nuovo deputato che andrà a sostituire il seggio lasciato vuoto da Paolo Gentiloni, ex parlamentare del Partito democratico oggi commissario europeo.

Le elezioni cosiddette “suppletive” riguarderanno quindi il collegio Lazio 1, che a livello territoriale copre il Centro storico di Roma con i rioni Monti, Trevi, Colonna, Campo Marzio, Ponte, Parione, Regola, Pigna, Sant’Eustachio
Campitelli, Sant’Angelo, Ripa. E ancora Borgo, Esquilino, Ludovisi, Sallustiano, Castro Pretorio, San Saba, Testaccio, Trastevere, Prati e i quartieri Trionfale e Della Vittoria.

Possono votare tutti i cittadini maggiorenni e residenti sul territorio, recandosi al seggio con apposito documento d’identità e la scheda elettorale. I seggi resteranno aperti dalle 7 alle 23.

A contendersi il posto che è stato di Gentiloni sono sette candidati, tra cui il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri per il centrosinistra, Maurizio Leo, già parlamentare An e assessore al bilancio nella giunta Alemanno, per il centrodestra, e Rossella Rendina per il M5s. Gli altri candidati sono Marco Rizzo per il Partito Comunista, Mario Adinolfi per il Popolo della Famiglia, Luca Maria Lo Muzio Lezza per Volt, Elisabetta Canitano per Potere al Popolo.

Nel “Memoriale Moro”, la storia del Paese

Larga partecipazione di pubblico ieri, 25 febbraio, alla presentazione del volume “Il memoriale Moro – edizione critica”, coordinata da Michele Di Sivo: la Sala Alessandrina dell’Archivio di Stato, che ospita tutta la documentazione, in particolare quella desecretata dal 2014, era piena, con molta gente in piedi, a dimostrazione dell’interesse che il “caso Moro” suscita ancora oggi alla vigilia del 42° anniversario del rapimento del presidente della Dc e della strage della sua scorta. Assenti perché impegnati nell’emergenza sanitaria del momento il ministro Franceschini e l’onorevole Fioroni, già presidente della Commissione d’inchiesta Moro. Un evento preceduto dall’esposizione di alcune pagine del memoriale e delle lettere dello statista e introdotto dalla lettura da parte dell’attore Fabrizio Gifuni, reduce dal successo della pièce “Con il vostro irridente silenzio” al Teatro Vascello, della lettera di Moro a Cossiga, la prima resa pubblica.

Un lavoro certosino, durato cinque anni, frutto della paziente ricostruzione di un team qualificato. Un lavoro, come ha ricordato Di Sivo, «di analisi, grafologia, esegesi». Un libro, ha affermato il direttore dell’Espresso Marco Damilano, «di grande rigore scientifico. Qualcosa che dovrebbe essere studiato nelle scuole. Oggi lettere e testi liberati dal quel doloroso episodio possono restituire Moro alla storia del Paese». Di Sivo ha sottolineato che l’edizione critica del memoriale (non delle lettere) ha significato non solo rimettere in ordine le 237 pagine ma un lavoro ben più approfondito. Si è ricostruito come le Br hanno messo in sequenza le pagine ritrovate nel covo di via Monte Nevoso in due momenti distinti «ma non bastava. Bisognava ricostruire il modo in cui Moro le aveva scritte, perché significava rimettere insieme i frammenti. Per me – ha spiegato Di Sivo – è stato sorprendente come siamo arrivati a questo ordine che diventa un flusso logico, razionale, di pensiero continuo e coerente». Questa ricostruzione «ha consentito di capire il modo di ragionare di Moro e cosa significava una frase criptica: nella lettera a Cossiga dice di essere sottoposto a un processo popolare che può essere opportunamente graduato. Ci ho messo cinque anni per capirla. In quelle condizioni solo l’inquisitore può graduare. E dunque processo graduato da chi? Si capisce che Moro gradua le sue risposte fino all’esplosione finale. Moro sta dicendo “sono sotto un dominio pieno e incontrollato ma posso graduare questo processo. Lo posso fare io. Attenti”». Una «sequenza drammatica» considerando che Moro continua a scrivere dopo la condanna, decisa il 15 aprile, fino al 2 maggio.

Una pagina di storia sulla quale, secondo Miguel Gotor, che ha collaborato alla stesura del libro, bisogna «evitare due rimozioni in cui rischiamo di cadere. La prima è che Moro non è stato ucciso da Benigno Zaccagnini. Mi rendo conto che dal punto di vista emotivo, studiando questo testo, si possa essere indotti a pensarlo, guidati dalla potenza retorica del prigioniero. Ma Moro è stato sequestrato e ucciso dalle Br. Non facciamo evaporare dal punto di vista civile questa consapevolezza perché sarebbe un tradimento. La seconda cosa da evitare – ha proseguito – è che non dobbiamo perdere di vista che questo testo è viscido, ambiguo, esce da un linguaggio che è anche un linguaggio delle catene e delle pistole, della violenza e della costrizione, non è solo libertà autoriale di un grande uomo politico e umanista. Il tema della libertà e dell’autonomia resta un problema aperto sul piano storico su cui bisogna continuare a ragionare con l’obiettivo di non tradire la tragicità dell’esperienza di Moro». Per questo, sostiene Gotor, «serve una lettura tra le righe: il testo è uno straordinario esercizio di dissimulazione».

Un esempio per tutti: «Moro sapeva le ragioni che avevano spinto Taviani a lasciare il governo nel 1975. Da ministro dell’Interno aveva destituito D’Amato, capo dell’Ufficio affari riservati del ministero, pochi giorni dopo la strage di piazza della Loggia e il sequestro del magistrato Sossi a Genova. Moro nella sua lettera, di cui sono stati distribuiti solo 8 fogli manoscritti, peraltro scomparsi, attacca Taviani e quando la lettera arriva all’opinione pubblica tutti si chiedono perché lo abbia fatto. Lo sappiamo dal 1990: sulla scorta dei diari postumi si è scoperto che Taviani è stato di fatto l’amministratore di Gladio in Italia. Nel 1978 lo sapevano in pochissimi». E quei pochissimi ne sono destabilizzati. Gotor ha sottolineato pure come del memoriale «mancano gli originali» – ci sono solo fotocopie – «ed è certamente mutilato: mancano le parti relative alla fuga di Kappler, al golpe Borghese e alle tensioni tra arabi e israeliani in Italia negli anni ’70. Argomenti che riguardano o delicate questioni internazionali e le relazioni con Stati amici come Germania e Israele oppure su cui nel 1978 c’erano processi e indagini».

Gli aspetti legati alla situazione internazionale dell’epoca sono stati al centro dell’intervento dello storico Umberto Gentiloni: con la «crisi degli anni Settanta finiscono una serie di certezze e consuetudini del vecchio mondo costituente, il centrosinistra sta tramontando, quel mondo sta finendo. Alcuni si accorgono che qualcosa può nascere. Che cosa? Il 1978 per l’Italia è il funerale della Repubblica?». Ma Gentiloni non crede «né alle ricostruzioni di decisioni prese in qualche stanza segreta magari a Washington né di una classe dirigente completamente autonoma. La situazione era complessa» e la questione di fondo è legata alla «storia del Paese che in quegli anni rompe il rapporto di sinergia tra quadro interno e contesto internazionale». Dunque i piani di lettura possibili del memoriale «sono quelli di questa struttura logica del rapporto tra il prigioniero e il suo processo ma anche quelli di un rapporto tra il memoriale e la storia del Paese. Per questo diventa un patrimonio perché si toglie dal ricatto di quei 55 giorni e diventa un modo di ragionare della storia d’Italia nel suo complesso. Forse per questo – ha concluso – ci interessa tanto di capire».

Trieste: La grande mostra dedicata al geniale artista olandese

Nella mostra triestina sono presentate per la prima volta accanto alle opere più conosciute dell’artista, la serie I giorni della Creazione, sei xilografie che raccontano la Creazione del Mondo.

Il genio di Escher, artista scomparso nel 1972, uno dei ‘grandi artisti’ celebrati a livello mondiale  ha determinato un linguaggio unico fatto di mondi immaginari, essenzialmente mondi impossibili, in cui confluiscono arte, matematica, filosofia, ed altro ancora, oggetto di culto degli anni ‘70. Ma è solo negli anni ‘90 che Escher inizia ad avere grande successo intercettando una fascia di pubblico sempre più ampia.

Escher nasce nel 1898 in Olanda e vi muore nel 1972. Nel 1922 visita per la prima volta l’Italia, dove poi visse per molti anni, visitandola da nord a sud e rappresentandola in molte sue opere. Inquieto, riservato e indubbiamente geniale, Escher nelle sue celebri incisioni e litografie crea un mondo unico, immaginifico, impossibile, dove confluiscono arte, matematica, scienza, fisica, design. Scoperto dal grande pubblico negli ultimi anni, è diventato uno degli artisti più amati in tutto il mondo, tanto che le mostre a lui dedicate hanno battuto ogni record di visitatori.

Carcinoma del colon-retto

Il carcinoma del colon-retto  è il tumore maligno più frequente originato nel colon, nel retto e nell’appendice. Con 610.000 morti all’anno nel mondo, è la terza forma più comune di cancro.

È causato dall’abnorme crescita di cellule con la capacità di invadere i tessuti e di diffondersi in altre parti del corpo. I segni e i sintomi possono comprendere: sangue occulto nelle feci, cambiamento dei movimenti intestinali, perdita di peso e sensazione di stanchezza. La maggior parte dei tumori colorettali sono dovuti allo stile di vita e all’età avanzata e solo pochi casi sono riconducibili a malattie genetiche ereditarie. I fattori di rischio includono: la dieta, l’obesità, il fumo, l’alcool e una scarsa attività fisica. Un altro fattore di rischio è rappresentato dalle malattie infiammatorie croniche intestinali che comprendono la malattia di Crohn e la colite ulcerosa.

Alcune delle condizioni ereditarie che possono causare un tumore del colon-retto includono la poliposi adenomatosa familiare e il cancro colorettale ereditario non poliposico; tuttavia, queste condizioni rappresentano meno del 5% dei casi. Il tumore al colon-retto può essere diagnosticato tramite biopsia ottenuta durante una sigmoidoscopia o una colonscopia. Ciò è poi solitamente seguito da esami di diagnostica per immagini per determinare se la malattia si è diffusa. Lo screening è efficace nel diminuire la probabilità di morte per questo tumore ed è consigliabile tra i 50 e i 75 anni.

Intelligenza artificiale: Sassoli, servono “trasparenza” e “regole precise” per proteggere i cittadini.

Buongiorno a tutti, 

desidero rivolgere innanzi tutto un cordiale saluto e un ringraziamento a sua Eminenza, card. Vincenzo Paglia per il cortese invito, salutare i membri dell’Accademia Pontificia per la Vita, gli illustri relatori e tutti voi che avete promosso ed animato questo importante appuntamento. 

Viviamo un tempo di forti cambiamenti e di grandi sfide. L’avvento dei nuovi mezzi di comunicazione, della rivoluzione digitale e, in generale, di quella che viene definita intelligenza artificiale, ci sta offrendo straordinarie opportunità ma, al tempo stesso, sta modificando radicalmente anche il nostro modo di agire e di essere. 

Fino ad oggi la ricerca e l’innovazione sono stati strumenti che hanno consentito alle nostre società di progredire e di raggiungere grandi traguardi accrescendo il benessere dei cittadini. Negli ultimi anni si è verificata un’accelerazione dello sviluppo tecnologico, una vera e propria rivoluzione che ha avuto e sta avendo tutt’oggi un fortissimo impatto sia sul piano economico e sociale. 

La robotica e l’intelligenza artificiale sono una nuova possibilità per affrontare le sfide della nostra società dei prossimi decenni: reti energetiche ottimizzate, produzione sostenibile, agricoltura di precisione, capacità di governo dell’economia e della finanza, uso misurato delle risorse. 

Benefici e manipolazioni, però, possono correre di pari passo e non avere confini.  

Utilizziamo l’intelligenza artificiale nei trasporti dove, attraverso una semplice applicazione sui nostri smartphone, si possono prevedere le condizioni del traffico in strada o addirittura guidare veicoli autonomi; la utilizziamo per tracciare il nostro consumo di acqua e di energia oppure, in ambito sanitario, per elaborare enormi quantità di dati che ci aiutano a curare alcune patologie e individuare le migliori prassi per prevenirle. 

Come tutti capiscono l’intelligenza artificiale può consentire anche la concentrazione di enorme potere a scapito dei più vulnerabili.  E gli algoritmi considerare gli essere umani semplici strumenti dei processi di razionalizzazione, efficientamento e redditività. 

Lo sviluppo della robotica e dell’intelligenza artificiale, insieme ad una comunicazione digitale globalizzata e alle potenzialità delle reti, ci pongono interrogativi di straordinaria ampiezza che richiedono una riflessione approfondita e soprattutto una capacità di leggere i cambiamenti con lungimiranza e grande senso di responsabilità. 

Signore e Signori, 

quella che può essere definita come una “quarta rivoluzione industriale” – dopo quella del vapore, dell’elettricità e dell’automazione – implica che, sulla base di dati e degli algoritmi che ne derivano, sia la tecnologia stessa ad avere capacità predittive sulle attività umane. È una rivoluzione che ha stravolto i nostri modelli di sviluppo e che deve essere accompagnata ed orientata ad accrescere – e non a diminuire – i nostri diritti di cittadinanza sociale, politica, economica e tecnologica. 

Un nuovo mondo impone nuovi ritmi. 

E la nuova epoca nasce da progressi tecnici realmente unificanti da rendere la scienza capace di toccare nel profondo valori che pensavamo consolidati e diffusi. 

 

La digitalizzazione e l’automazione stanno cambiando profondamente il nostro modo di vivere e il modo in cui ci rapportiamo con la società. Le domande si susseguono e  le risposte impongono grande responsabilità.  

Come evitare che la rivoluzione digitale sia foriera di maggiori disuguaglianze in termini di diritti?  

Come consentire al mondo dell’istruzione di essere all’altezza di queste sfide? Come possiamo garantire ai giovani un equo accesso ai processi produttivi? 

Come riusciremo a bilanciare la perdita dei posti di lavoro, determinata dall’avvento delle nuove tecnologie, con le nuove opportunità lavorative? 

Alcuni anni fa lo scrittore Isaac Asimov affermò che un “robot non può recare danno all’umanità, né permettere che, a causa del suo mancato intervento, l’umanità subisca danni”. 

Oggi più che mai, abbiamo bisogno di elaborare politiche che consentano di cogliere i frutti del progresso tecnologico e garantire, al tempo stesso, il rispetto di quegli standards sociali che rappresentano per tutti noi conquiste irrinunciabili. 

Nella nostra società contemporanea, l’intelligenza artificiale, che nasce dalla composizione e scomposizione di un insieme di algoritmi, è ormai parte integrante della nostra vita quotidiana, ma è bene ricordare che l’intelligenza non può essere disgiunta dal pensiero umano e dalla coscienza delle persone, nonostante il concetto di relatività sia insito nell’esperienza scientifica. 

Cercare di capire gli effetti delle grandi trasformazioni può consentire di non venire travolti da un individualismo sfrenato,  incline a provocare grande solitudine e anche nuove emarginazioni.   

Di fronte alle incognite che ci pone questa stagione di grandi trasformazioni occorre grande trasparenza. Per farlo serve  coinvolgere attivamente le opinioni pubbliche, i parlamenti nazionali, le nostre università, il mondo del lavoro e dell’impresa in  sviluppare un’attenta riflessione sulla regolamentazione pubblica. Per l’Unione europea è una sfida decisiva per Eleonora re e adottare requisiti comuni sui nuovi confini tecnologici e misurare l’impatto sul rispetto dei diritti fondamentali.

 L’opera di regolamentazione europea  – dai dati alla privacy – produce in questo momento storico una positiva reazione nei processi di globalizzazione, che è bene sostenere. Quello che accade da noi, d’altronde, ha una immediata reazione fuori dallo spazio europeo.   

Se l’Unione europea sostiene da sempre politiche a favore della ricerca e dell’innovazione, tuttavia il Parlamento europeo ha il dovere di proteggere ancora di più i cittadini per  l’impatto che possono determinare le nuove tecnologie. 

Durante la scorsa legislatura il Parlamento ha chiesto alla Commissione europea di aggiornare e integrare il quadro giuridico dell’Unione con chiari principi etici che tengano in considerazione e non sottovalutino il fattore umano, poiché i nostri cittadini devono avere la possibilità di controllare i propri dati, di proteggere la propria privacy e di saper discernere le informazioni che ricevono. 

La Commissione europea ha raccolto questa richiesta e ha presentato di recente un Libro Bianco sull’Intelligenza artificiale – incluse le sue implicazioni sociali – che darà il via ad un dibattito su scala europea. Insieme al Libro Bianco, la Commissione ha presentato, inoltre, una strategia per promuovere l’accesso ai dati non personalizzati per le grandi, piccole e medie imprese, nella garanzia del rispetto della sfera  privata. 

Toccherà ora al Parlamento europeo esaminare questi testi con grande attenzione nei prossimi mesi. Daremo il nostro contributo alla riflessione aperta su come l’Europa possa diventare allo stesso tempo leader mondiale di questa trasformazione e rimanere un modello globale nella tutela dei diritti e della dignità delle persone. 

La rivoluzione digitale sta cambiando in profondità i nostri stili di vita, il nostro modo di produrre e di consumare. Abbiamo bisogno di regole che sappiano coniugare progresso tecnologico, sviluppo delle imprese e tutela dei lavoratori e delle persone, democrazia. In uno scenario nel quale l’incertezza sembra ancora prevalere è necessario sostenere politiche di riorientamento al lavoro investendo molto di più nella formazione permanente. 

In questo senso, l’Europa può essere veramente utile ad un mondo che non ha regole, ma deve trovare regole nuove.

La nostra sfida è questa: in che misura consentiamo a queste tecnologie di svilupparsi e condizionare la nostra vita. 

Senza regolamentazione l’intelligenza artificiale  può essere un rischio che può compromettere non solo la protezione dei dati personali, ma anche accrescere il divario digitale in termini di accesso e conoscenza. 

Un sistema di intelligenza artificiale affidabile non deve pregiudicare i diritti fondamentali e per questo è necessario creare valutazioni di impatto preventive, promuovendo un approccio incentrato sull’uomo, l’unico che può governare consapevolmente le azioni e le decisioni prese da un sistema artificiale.

Abbiamo bisogno di più scienziati dei dati (data scientists), più ingegneri e più filosofi per comprendere effetti a lungo termine. È necessario lavorare per coniugare la ricerca e l’innovazione con la tradizione umanistica su cui si fondano i diritti fondamentali fissati nella Carta Europea dei Diritti Fondamentali.  

È nostro dovere garantire, inoltre,  che la tecnologia sviluppata sia sicura, che le responsabilità siano chiare, che l’uomo possa comunque controllare le decisioni. 

Come ha detto il prof. Benanti “se vogliamo che la macchina sia di supporto all’uomo e al bene comune, senza mai sostituirsi all’essere umano, allora gli algoritmi devono includere valori etici e non solo numerici.” 

Per queste ragioni abbiamo bisogno di fare sistema, di creare alleanze e di sviluppare nuove metodologie. Dobbiamo lavorare per sfruttare al meglio le opportunità che offre la Quarta rivoluzione industriale, sapendo che se non la governeremo saranno gli algoritmi a governare noi.

Per fare questo serve lavorare affinché l’Intelligenza artificiale si sviluppi in un quadro giuridico adeguato che sia in grado – come ha affermato mons. Vincenzo Paglia – di accompagnare tutto il ciclo della elaborazione delle tecnologie: dalla scelta delle linee di ricerca fino alla progettazione, la produzione, la distribuzione e l’utente finale”. 

Le opportunità della scienza possono condurre ad un processo di unificazione della vita cui fa riscontro l’unificazione del sapere. Sui dati scientifici gli uomini tendono a incontrarsi. Lo sosteneva anche Leonardo Da Vinci quando sosteneva che l’esperienza scientifica ha la capacità di far cessare ‘il letigio’ degli uomini… Noi vogliamo che il litigio cessi anche in una condivisa difesa dei valori fondamentali della persona e della sua libertà. 

In questo lavoro c’è bisogno del contributo di tutti, e  certamente il personalismo cristiano può ancora dare un sostegno decisivo.  

Grazie. 

La Cina è vicina

Sono passati più di 50 anni dal film di Marco Bellocchio del 1967 – “ La Cina è vicina”: erano i tempi di Mao, del libretto rosso e della contestazione, di acqua ne è passata sotto i ponti ma quel modo di dire ha conservato nel tempo il significato di un incombente mistero. La Cina ha mantenuto le sembianze di un mondo ancora inesplorato e per certi aspetti inaccessibile e lontano, direi da Marco Polo in qua.

Differenze di tradizioni e culture che un volo aereo o la connessione via internet possono malcelare ma non annullare: la storia e la natura sono più forti dell’uomo e dettano sincronie e dissonanze imprevedibili e imperscrutabili  come in una nebulosa inaccessibile ai più. In epoca di crescenti opinioni e di decrescenti certezze antropologiche ed esistenziali il relativismo di un presentismo autoreferenziale (“tutto e subito”), il dilagare delle solitudini e l’assenza di visioni strategiche rassicuranti ci fanno vivere in una sorta di limbo dell’indeterminato e dell’effimero. Aggrappati ad un filo di speranza, giorno per giorno.

A giugno 2019 i rappresentanti di 130 Paesi aderenti all’Ipbe (la piattaforma intergovernativa  scientifico-politica sulla biodiversità e gli ecosistemi) si sono riuniti presso la sede UNESCO di Parigi per esaminare un Rapporto dell’ONU stilato in 3 anni di intenso lavoro da parte di oltre 150 esperti provenienti da 50 nazioni, volto allo studio e all’approfondimento dei rischi di estinzione di numerose specie viventi del pianeta. La ricerca – analitica e corposa, articolata su 1800 pagine di dati, indagini e monitoraggi – è stata riassunta dai 130 convegnisti in 40 pagine di evidenze scientifiche, priorità e raccomandazioni ai governi affinchè si facciano carico di questo incombente “tsunami” globale che potrà portare in tempi definiti “relativamente brevi” all’estinzione di una serie di specie viventi che popolano i mari e la Terra, fino ad 1/8 di quelle attualmente censite pari ad una cifra mostruosa di circa un milione di specie animali e vegetali.

Mentre secondo il Rapporto  il mondo si avvicina alla soglia della sesta estinzione di massa della sua storia, la prima attribuita ai comportamenti umani.

Ora che siamo alle prese con il “coronavirus” comprendiamo come in fondo questa virosi che sta a cavallo tra l’epidemia e la pandemia è figlia della globalizzazione: dopo l’attacco alle Twìn Towers del 2001e la crisi finanziaria dei mutui subprime e dei derivati del 2008, questo è il terzo macrofenomeno  globale del terzo millennio.

Se ne discute e se ne scrive mentre si vivono gli aspetti scientifici e quelli comportamentali che stanno aggredendo l’umanità e le rassicuranti e quotidiane certezze di cui desideriamo naturalmente circondarci: navigando tra panico e irrazionalità da un lato e inviti ad un più ragionevole approccio di controllo e monitoraggio di questo contagio planetario. Visioni confliggenti che generano ansie e paure: questo è forse il contagio più diffuso, il saccheggio dei supermercati, il barricarsi in casa, il timore di verità nascoste o celate, l’impossibilità di risalire (anche per occultamenti della verità) alle cause del male.

A cominciare dalla sua genesi, ancora avvolta nel mistero tra ricerche del paziente zero, il consumo di carni animali di specie non commestibili del mondo occidentale e la tesi complottista del virus creato in laboratorio come arma di distruzione e di aggressione in un mondo dove la geoeconomia si rivela più forte della gepolitica. Ricordiamo che solo tre mesi fa il nostro Ministero della Difesa si era sbarazzato in fretta e furia di un gigantesco stock di telefoni cellulari acquistati da un colosso cinese, poiché si era adombrato il sospetto e forse la certezza di un possibile spionaggio militare e industriale.

Molto più probabile che l’eziopatogenesi dell’epidemia globale origini da stili di vita ed alimentari capaci di generare virosi mutuate dagli animali e insufflate nel corpo umano.

Vivendo tra focolai di guerre e genocidi sarebbe molto più istintivo aspettarsi una guerra planetaria, coi missili puntati da un Paese all’altro: in fondo la scienza finora ci ha rassicurato e protetto. Il fatto nuovo consiste invece nello spostarsi del pericolo dall’esterno all’ìnterno. Il panico ha preso il sopravvento alimentato da un tambureggiante interesse dei mass media: molto si dice dei pericoli mentre poco si parta della dedizione che medici infermieri e ricercatori dispensano per arginare il contagio e attrezzarsi per la cura di casi, a conferma del fatto che disponiamo di un sistema sanitario che vanta qualità ed eccellenze.

Impropriamente si è paragonata l’incidenza delle morti per influenza, attestate sullo 0,1 % dei casi e lo 0,9/1% previsto per il coronavirus. Già questo dato ha fatto prevalere timore e pessimismo nei comportamenti individuali e sociali.

Ho letto una frase di grande buon senso pronunciata da Piero Angela: “fidiamoci della scienza e viviamo con serenità le nostre abitudini quotidiane”.

Il problema tuttavia non  va sottovalutato sotto almeno tre profili di considerazione: la facilità disarmante del contagio, il periodo asintomatico di latenza della virosi, l’assenza di una terapia specifica.

Il coronavirus esprime tutta la potenzialità negativa della democrazia del male: la sua diffusione esponenziale a macchia d’olio non risparmia target sociali, mentre pare più accentuata in età più avanzate.

Tuttavia – anche chi scrive queste righe deve confessare la propria ignoranza ed esprimere una banale opinione- la scienza, la ricerca clinica e la medicina hanno fornito sufficienti indicazioni ai decisori istituzionali e politici: isolamento, quarantena, lavarsi spesse volte le mani, evitare luoghi affollati, usare quelle cautele che il buon senso insegna ma che purtroppo vengono ignorante, navigando a vista tra la sicumera dei grandi numeri (“non toccherà mai a me) e lo scetticismo che rasenta l’incoscienza.

La politica si è mossa con le armi che la scienza le ha messo a disposizione anche se l’ha fatto tra ripensamenti, incertezze, timori di provvedimenti drastici, demagogia (malattia per la quale non esiste antidoto). Gli stessi immunologi hanno disquisito con sottigliezza tra diversi approcci interpretativi e operativi.

Personalmente sono rimasto favorevolmente colpito dal piglio decisionista e dal presenzialismo 24h/24 dei Governatori delle Regioni finora più esposte al rischio del contagio: certamente occorreva forse muoversi giovando d’anticipo , col coraggio di decisioni drastiche e impopolari.

Inutile chiudere i voli dalla Cina se vengono aggirati dagli scali a Dubai o Francoforte.

Assurdo e inspiegabile poi che l’Europa non abbia avuto e non si dia tuttora un protocollo operativo comune e condiviso: fa specie vedere gli italiani respinti alle frontiere , come in una sorta di nemesi dell’assurdo, dopo aver aperto i porti a tutti gli immigrati rispetto ai quali  gli altri Paesi del vecchio continente ci hanno sempre individuato come frontiera d’Europa.

Una lezione da tenere a mente: stiamo imparando come si comportano altrove gli Stati che predicano cosmopolitismo e accoglienza. Anche di fronte a protocolli clinici dettati dall’OMS (Organizzazione mondiale della sanità) ci sono tuttora situazioni di respingimento dei nostri connazionali, semplicemente perché nei Paesi di sbarco prevale una logica di isolamento anziché la ricerca di soluzioni di accoglienza e profilassi. Comprensibile: ma non si dica allora a noi “accogliete, accogliete”, ed essere poi trattati come gli appestati del XXI secolo.

Non girano ancora i monatti per le strade a raccogliere cadaveri , come nella peste descritta dal Manzoni: molto più frequenti gli sciacalli che speculano sulle paure della gente e le fake news dei social irresponsabili, come se si trattasse di una sorta di gioco dell’oca o di un talk show.

Queste realtà “limite” disvelano comportamenti umani che vanno dall’eroismo, all’abnegazione totale, alla solidarietà, all’incoscienza ed evidenziano la fragilità della condizione umana.

Il fatto che il coronavirus nasca in Cina e si propaghi nel mondo non è casuale: questo dimostra che l’integrazione tra culture, usanze, tradizioni, stili di vita e alimentari è solo un auspicio se non una irragionevole chimera, alla prova dei fatti.

La globalizzazione ha finora prodotto più danni che benefici e mi viene in mente che cosa potremo aspettarci dall’applicazione del punto 27 del Memorandum sottoscritto nel marzo 2019 tra Italia e Cina (con il grande disappunto degli altri Paesi dell’UE) sui traffici commerciali e sull’individuazione dei bacini portuali di Genova e Trieste come terminali della via della seta. Le merci e i prodotti non viaggiano da soli: viene da chiedersi che cosa sarebbe successo se questo accordo fosse già stato operativo, in questa situazione di espansione del contagio.

Un’ultima osservazione, da profano, la riservo al numero dei contagiati in Italia più alto rispetto agli altri Paesi dell’Europa, terzi al mondo dopo Cina e Corea per numero di contagi.

Per ora sembra un dato negativo ma riflettendo sul monitoraggio di casi, le azioni di isolamento dei focolai e l’altissimo numero dei controlli coi tamponi oro-faringei questo può con buona probabilità voler dire che in Italia il virus non è stato sottovalutato o occultato, per evitare di  diffondere dati statistici allarmanti, come altrove è avvenuto.

In una società globalizzata e interconnessa nessuno può sentirsi al sicuro.

L’importante, sembra utile ricordarlo, è non dar adito alla caccia alle streghe e non rivivere i tempi delle pestilenze dei secoli bui ma affidarci alla scienza e ai suoi operatori.

Significativo infatti che solo pochi giorni dopo la diffusione del contagio al di fuori dei confini della Cina l’equipe dei virologi e degli immunologi dello Spallanzani di Roma abbia isolato per la prima volta in Europa il virus.  Ora che conosciamo il nemico possiamo studiarlo e sconfiggerlo: sperando che il tempo ci sia propizio.

Il Covid-19 visto dalla Cina

Articolo pubblicato sulle pagine della rivista il Mulino a firma di Hongbo Zhang

Il 2020 è l’anno lunare cinese del Topo, il 50° anniversario dell’istituzione delle relazioni diplomatiche tra Cina e Italia e l’anno del turismo e della cultura in entrambi i Paesi. Sono tornato in Cina dall’Italia prima di Natale per incontrare a Pechino e a Shenzhen alcuni miei clienti, e certo non potevo sospettare che un’epidemia mandasse in fumo tutti i miei piani.

Ogni giorno si segnalano nuovi pazienti e nuovi decessi dovuti al Coronavirus, o Covid-19. Nel mio Paese quasi un miliardo e mezzo di persone sono costrette in casa. Ansia, rabbia, tristezza e panico sono inevitabili e i cinesi si sono trovati loro malgrado a trascorrere le vacanze più lunghe di sempre. Molti stanno cercando di sopravvivere continuando a fare il loro lavoro anche in un periodo di stagnazione economica. Gli studenti devono ricorrere alle lezioni online e le famiglie devono trovare la maniera per far fronte ai bisogni primari.

Da circa un mese mi ritrovo bloccato nel mio appartamento a Lanzhou, nel Nord della Cina. Subito dopo avere appreso dell’epidemia, ho ridotto al minimo le mie uscite, limitandole agli acquisti di prima necessità, ma le scorte nei supermercati iniziano ormai a scarseggiare. Ingresso e uscita dei residenti vengono monitorati da vicino, controllando i movimenti delle persone e la loro temperatura corporea, e la polizia utilizza quotidianamente droni e Gps per individuare quanti non portano le mascherine e per spingerli a indossarle. I ristoranti sono chiusi, i rivenditori forniscono verdure e carne attraverso i social media e le app. In alcune zone rurali, le piattaforme di shopping online usano droni per offrire servizi di consegna a domicilio, riducendo costi e contatti diretti con le persone. Le comunità iniziano gradualmente a organizzarsi per acquisti di gruppo per spendere meno.

Dicerie e false informazioni diffuse su Internet sono state rigorosamente controllate dalla polizia. Cancellazioni di messaggi, blocchi di account e uso di parole in codice sono molto comuni tra i netizen. Ciò che si pubblica e si legge online è spesso in violazione delle regole. Vorrei leggere materiale in inglese o fare domanda per poter partecipare ad alcuni eventi internazionali, ma a volte da qui non riesco a farlo. Tuttavia, l’isolamento in casa mi ha concesso di trascorrere più tempo con i miei genitori, e alla fine questo potrebbe diventare il periodo più lungo passato insieme a loro dal 2006. Inoltre, ho approfittato di tutto questo tempo libero forzato per acquistare una tastiera ed esercitarmi al pianoforte.

La situazione a Wuhan è di gran lunga peggiore rispetto ad altre province. Negli ultimi due anni vi ho abitato per alcuni mesi e mi sono fatto molti amici lì. I parenti di uno di loro si sono ritrovati contagiati dal virus. All’inizio non potevano essere ricoverati, poiché i pazienti gravi giacevano nel corridoio dell’ospedale. Forte era la paura di infezioni incrociate nelle corsie durante il giorno, pertanto potevano solo fare la fila per ricevere iniezioni di notte. Pochi giorni dopo, quando l’ospedale è riuscito a ricoverare uno dei membri della famiglia, ho ricevuto questo messaggio sul mio telefono: «Ci sono troppe famiglie così. All’inizio, molte persone non riuscivano a vedere i medici e sono morte. Alcune si sono buttate nel fiume Yangtze. Altre si sono impiccate in casa. Ora i nuovi ospedali improvvisati hanno migliorato un po’ la situazione. Nel mio quartiere ci sono già diversi casi di infezione. Alcuni sono ricoverati in ospedale e altri sono morti. Nel raggio di cento metri intorno a me, più di una dozzina di persone è infetta. È molto pericoloso, dovrei stare attento anche quando apro la porta per prendere il cibo».

A causa dell’epidemia, alcuni pazienti con malattie croniche non sono in grado di rifornirsi di medicine e temono che il trattamento possa essere interrotto. Altri con malattie gravi non possono andare in ospedale per ricevere le cure necessarie e per alcuni di loro la vita è diventata drammaticamente difficile, anche solo per condurre le attività più normali. Attraverso i social media, in molti chiedono soluzioni per garantire i diritti fondamentali anche ai gruppi sociali più vulnerabili.

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Sanders e il fantasma di George McGovern

Articolo pubblicato dalla rivista Treccani a firma di Arnaldo Testi

Un fantasma si aggira nelle stanze del Partito democratico e nei salotti dei commentatori delle primarie presidenziali, ed è il fantasma di George McGovern e delle elezioni del 1972 – quelle, come ognun sa, perdute contro un trionfante Richard Nixon (trionfante ancora per poco, ma allora chi poteva saperlo). Il fantasma è ovviamente evocato dai successi di Bernie Sanders di queste settimane. Ed è giusto che sia così, perché McGovern e la campagna di cui fu protagonista furono un grande esperimento politico e ideale che coinvolse la sinistra del partito; furono anche una sconfitta storica dei democratici e una svolta periodizzante nella storia del Paese.

E dunque. George McGovern (scomparso novantenne nel 2012) era un senatore progressista midwestern, un democratico del North Dakota, attento ai nuovi fermenti sociali, oppositore della guerra in Vietnam, un outsider non notissimo della politica d’apparato ma suo buon conoscitore. Mezzo secolo fa, sull’onda della sconfitta democratica e della prima elezione di Nixon nel 1968, si mise a capo di una missione audace: fondere sotto l’ampia tenda del suo partito la tradizione progressista dei diritti sociali, liberal e sindacale, erede del New Deal, che ne era stata fino ad allora il cuore, con la nuova sinistra figlia del radicalismo e dei diritti civili e culturali degli anni Sessanta. La missione si dimostrò audace e difficile.

E alla fine, almeno nell’immediato, impossibile.

I nuovi movimenti giovanili (nel 1971 un emendamento costituzionale estese il diritto di voto ai diciottenni), studenteschi, antiguerra, afroamericani, e i nascenti movimenti ambientalisti, femministi e LGBT, costituivano interessanti serbatoi elettorali e progettuali, ma erano guardati con sospetto od ostilità dagli ossificati apparati del partito, soprattutto locali. Per scavalcarne la resistenza alcuni gruppi della leadership nazionale democratica promossero una importante autoriforma, di cui ancora oggi vediamo i risultati. Moltiplicarono infatti a livello presidenziale le elezioni primarie dirette, con un sistema di quote che garantiva la rappresentanza nella Convention nazionale di donne e uomini, bianchi e neri, altre minoranze. Ciò avrebbe favorito, si pensava, l’emergere di candidati non di apparato.

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Emmanuel Macron prepara i cittadini all’arrivo di un’epidemia di coronavirus

Emmanuel Macron prepara i cittadini all’arrivo di un’epidemia di coronavirus. Il ministro della Salute, Olivier Veran, ha annunciato che il numero di persone contagiate e decedute.

Tra i morti si conta un turista cinese che ha perso la vita il 14 febbraio scorso e un insegnante di 60 anni che si è spento nella notte tra il 25 e il 26 febbraio. Per il momento la zona dell’Oise, a nord di Parigi sembra essere la più contaggiata.

Il capo del governo ha fatto appello alla “calma” promettendo ai cittadini una “trasparenza totale”. Il presidente, invece, ha effettuato, nei giorni scorsi, una visita all’ospedale della Pitié Salpetrière, dove è morto il paziente 60enne contagiato dal virus.

Il capo reparto degli infettivi dell’ospedale parigino, Éric Caumes è stato chiaro: “La Francia si avvia ad una situazione simile a quella italiana”.