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Opportunità e minacce di un Congresso anticipato del Pd

Articolo pubblicato sulle pagine dell’huffingtonpost

Man mano che avanza la consapevolezza delle difficoltà legate all’esperienza di governo, cresce il dilemma in seno al Pd sulle scelte da compiere nell’interesse generale del Paese. Qualcuno, risolutamente, brandisce come una spada l’ipotesi di un congresso anticipato.

Sembra quasi una minaccia, non si capisce rivolta a chi. E tuttavia, dinanzi alla instabilità del quadro politico istituzionale, del congresso avrebbero bisogno tutti, anche quelli che non appartengono al Pd o non votano per esso. Il confronto interno deve infatti mirare a un profondo chiarimento sulla riorganizzazione della proposta politica.

La vera minaccia opera contro il Pd, ovvero contro la sua stessa natura e funzione di originale formazione politica. Infatti, l’idea di un congresso che regoli la partita nel senso del ritorno all’autonomia della sinistra, rompendo l’equilibrio tra riformismo laico socialista e riformismo cattolico democratico, sancirebbe di fatto la fine del Pd.

Mascherare con affabulazioni identitarie la riproposizione di una “gioiosa macchina da guerra”, darebbe il colpo di grazia all’esperimento che racchiudeva e ancora, a mio avviso, dovrebbe racchiudere l’integrazione di culture e sensibilità diverse nell’ambito del progressismo democratico e costituzionale.

L’accordo di governo è nato da un’esigenza destinata a durare per tutto il tempo della pericolosa fiammata del sovranismo a guida salviniana. Di certo le elezioni anticipate sarebbero la dimostrazione del fallimento non già di questa o quella forza politica, ma dell’opzione generale che ha portato alla collaborazione quadripartita (M5S, Pd, Italia Viva e LeU).

Molti elettori sono rimasti delusi dal modo con il quale abbiamo incarnato la scommessa del “nuovo riformismo” italiano. Allora il congresso avrebbe senso se fosse lo strumento per riaprire il dialogo con gli orfani – davvero tanti – di una speranza apparentemente tradita.

Dovrebbe pertanto annunciare il gesto di conversione alla umiltà di una politica di autentica convergenza democratica, senza la pretesa di una costrittiva uniformità burocratica. Forse dovremmo parafrasare il motto di De Gasperi per adattare a noi stessi quanto basta a convincerci che solo se saremo generosi potremo essere uniti, così da poter sperare, fondatamente, che proprio perché uniti saremo anche forti.

Certamente, in virtù di tale afflato di generosità reciproca, più forti di quanto oggi sia possibile registrare a seguito di scissioni e abbandoni, talvolta silenziosi e irreparabili. C’è un’Italia che mostra di credere alla positività di un messaggio di fiducia e speranza.

Le sardine, con il loro richiamo inaspettato a una politica di sereno confronto, non insegnano nulla?

PD senza rotta, verso il maggioritario

“La Stampa” ha scritto recentemente che “Zingaretti punta alla svolta maggioritaria”. Da tempo il segretario del PD sarebbe convinto che il sistema italiano deve evolversi verso un “nuovo bipolarismo”, con un centrodestra guidato dalla Lega e un nuovo centrosinistra da costruire attorno al Partito Democratico, che comprenda anche i Cinquestelle. Tuttavia per realizzare questa strategia sarebbe necessaria una legge elettorale maggioritaria, che consenta agli elettori di conoscere prima del voto con quali alleanze formare il governo. Si dovrebbe pertanto abbandonare l’idea di “tornare alla proporzionale in maniera dissennata” come ha sostenuto Geremicca, editorialista del quotidiano torinese. Anche Goffredo Bettini, consigliere di tutti i segretari PD che hano condiviso la “vocazione maggioritaria”, ha spinto Zingaretti a fare questa scelta, senza però chiedersi dove porterà…

Se ciò che induce Zingaretti alla svolta maggioritaria fosse l’obiettivo di dare vita a un governo in grado di contrastare l’onda sovranista, di portare a conclusione questa contorta legislatura, gli si potrebbe ricordare che la governabilità può essere garantita, forse meglio, da una legge proporzionale con premio di maggioranza, da assegnare al partito (o alla coalizione) che conquista la maggioranza relativa dei voti, con la clausola che impone nuove elezioni nel caso di una crisi di governo.

Ma forse il dubbio che agita il PD, in questa burrascosa stagione della politica, dipende dal fatto che si sono iscritti alla futura competizione elettorale due nuovi partiti, guidati da Renzi e da Calenda; e questa novità ha a che fare con la storia del centrosinistra, mentre sta organizzandosi un movimento di ispirazione cristiano-popolare, che potrebbe dare vita a una nuova esperienza, e che comunque potrebbe orientare il voto di molti elettori.

Il Partito Democratico potrebbe interpretare la forte domanda di cambiamento che sta scuotendo l’opinione pubblica; ma questa scelta lo costringerebbe ad abbandonare l’idea di un più stretto rapporto con i Cinquestelle… E allora potrebbe prevalere nel PD l’idea di scoraggiare questi nuovi competitori, con una legge maggioritaria che ne ostacoli la discesa in campo. Ma sarebbe un salto nel vuoto anche per il PD.

Quando si apre una riflessione sui sistemi elettorali, bisogna ricordare che “non c’è buon vento per chi non sa quale rotta seguire”. Il PD sa dove vuole andare?

Leggo sull’Espresso che nel partito sarebbe in corso una sfida “tra due anime del partito”: neoliberisti e solidali, entrambe dai profili indefiniti, anche dopo la Conferenza di Bologna. E anche il M5S sembra diviso tra una destra, che è tentata dal sovranismo, e una sinistra che vorrebbe consolidare l’intesa con i democratici. La destra grillina sovranista è pronta a uno scontro bipolare, la parte sinistra resta incerta, anche sulla propria identità, mentre il governo “giallorosso” zoppica in maniera sempre più evidente.

In questa situazione, l’imprevista mobilitazione delle Sardine, che hanno riempito Piazza Maggiore a Bologna per contestare Salvini, e poi hanno ripetuto questa impresa in molte altre piazze al Nord e al Sud, fa pensare che il vento possa cambiare direzione. Tuttavia questo avvenimento sta rendendo più impegnativa anche la discussione sul futuro dei Democratici, poiché – come ha scritto Ilvo Diamanti – si tratta di un movimento “alla ricerca di una identità”. Se poi ci riferiamo a quanti cercano di dare una risposta al disagio del mondo cattolico, alla maggioranza che da tempo non vota, al centro che guardava a sinistra, ci incontriamo nuovamente con l’attesa di una radicale novità. Anche guardando a questa realtà Padre Bianchi si è augurato che la generazione che sembra uscire dall’indifferenza, sappia proporsi un nuovo orizzonte sociale e sappia approdare alla politica. Dicendo no a Salvini, questi movimenti si sono slegati dal sovranismo e appaiono chiaramente alternativi all’antipolitica, alla democrazia illiberale. Ma dovranno confrontarsi con la realtà…

Per le Sardine non si tratta di un movimento “collaterale” alla sinistra; si tratta di una sfida, di una contestazione che riguarda anche i partiti che non hanno saputo ascoltare e parlare al popolo. Si tratta di una nuova ondata “di protesta” destinata ad esaurirsi?

In realtà questi giovani non sono prigionieri del giacobinismo di Rousseau, non affidano il cambiamento alla rottamazione, alla ghigliottina: dicono no all’odio e alla violenza, vogliono un Paese migliore… In queste piazze non c’è traccia di populismo giustizialista; quando cantano Bella Ciao fanno riferimento agli ideali della Costituzione repubblicana e sembrano consapevoli delle difficoltà che incontra la democrazia nel tempo della globalizzazione e dell’economia digitale.

A questo punto, i dibattiti sul sistema elettorale e quello sul progetto politico si intrecciano.

Sinora è mancata una seria riflessione sulle ragioni della parabola che ha portato i partiti dalla Prima Repubblica alla dissoluzione della Seconda Repubblica, dal tramonto dell’unità politica dei cattolici alla crisi del progetto dell’Ulivo e poi al declino della stessa idea di sinistra.

È mancato un Congresso del PD, più volte evocato, e alla recente Conferenza di Bologna gli interventi più ascoltati sono stati quelli di Fabrizio Barca e di padre Francesco Occhetta, cioè di chi ha affrontato temi cari anche ai Popolari, di chi ha messo in evidenza i limiti della strategia del partito.

Sto leggendo un bel libro sulla storia dei cristiano sociali, dal 1995 al 2017, Da cristiani nella sinistra. È anche la storia della parabola del centrosinistra: dalla formazione dell’Ulivo alle elezioni europee del 2006, che ha portato la democrazia italiana sull’orlo di un precipizio. E ho dovuto riflettere sulla contraddizione che c’è per i cristiani impegnati in politica, in particolare per i cristiano-sociali, tra il credere nel pluralismo come valore, nel pluralismo delle opzioni politiche dei cattolici (e quindi nel dialogo, nel confronto tra forze politiche diverse), e l’avere affidato l’unità della sinistra, l’unità di tutti i riformisti, al maggioritario, al sistema bipolare. Cioè a un sistema che comporta la radicalizzazione delle posizioni, lo scontro politico. E che esaspera anche la divisione dei cattolici tra popolari e conservatori.

La politica, quando è orientata da un sistema elettorale che divide il Paese, che radicalizza la lotta per la conquista del potere, nella storia nazionale e anche nella storia del cattolicesimo politico, è sempre stata una politica che guarda a destra, che apre le porte all’autoritarismo. Anche oggi una legge elettorale che riduce lo spazio per il dialogo, non può che favorire il qualunquismo, la demagogia, la tentazione plebiscitaria, un rigurgito conservatore, la chiusura verso gli altri, una politica che si nutre di paura….

Sembra che Salvini e i sovranisti abbiano capito ciò che non hanno ancora capito alcuni esponenti della sinistra, fermi a una vocazione maggioritaria che ricorda la “gioiosa macchina da guerra”, la democrazia dell’alternanza come garanzia della stabilità del governo. Di quale governo? Non a caso Salvini, come tutti i sovranisti, pensa alla concentrazione del potere, oscilla tra Putin e Trump, chiede i pieni poteri, guarda alla democrazia illiberale.

Un amico che condivide la proposta di “proporzionale corretta”, mi ha chiesto: cosa ne pensi del sistema francese? Questo sistema, immaginato dal generale De Gaulle per rendere marginali, con il secondo turno le posizioni estreme, prevede il ballottaggio tra più candidati: con il ballottaggio se il terzo candidato vota per il secondo, chi era arrivato primo (nel primo turno) perde le elezioni. Con questa regola la Le Pen è stata sconfitta da Macron; e suo padre era stato sconfitto da Chirac, che ha avuto i voti dei socialisti. Senza il secondo turno, il partito di Le Pen, primo al primo turno, avrebbe conquistato l’Eliseo, tutto il potere, con meno del 30% dei voti…

Cosa potrebbe accadere in Italia? Salvini, leader dei sovranisti, ha detto “no al doppio turno, poiché tutti sarebbero contro di me”. In realtà, nell’ultima tornata di elezioni comunali, al ballottaggio per l’elezione dei sindaci Lega e M5S hanno votato insieme contro il PD, e il PD ha perso la guida di molti comuni… E non si può escludere che dopodomani, in occasione di elezioni politiche, i Democratici possano nuovamente essere sconfitti dalla convergenza di “tutti contro il PD”. Siamo alla “roulette russa”?

Nessuna legge elettorale è perfetta. Tutto dipende dagli elettori, dal loro voto.

P. S. Il maggioritario, a un turno o con il doppio turno, non ha evitato la frammentazione e ha favorito il trasformismo; ha favorito anche la personalizzazione della politica e infine la formazione di un Parlamento di “nominati”, e la tentazione di fare deragliare la politica verso la privatizzazione.

La “proporzionale corretta” garantisce la governabilità, la centralità del Parlamento e il rispetto delle minoranze. Infine, il sistema proporzionale può essere eventualmente coniugato con candidature uninominali; lo abbiamo sperimentato per il Senato, e anche per l’elezione dei Consigli provinciali.

Ma non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire.

(Fonte “Rinascita Popolare” dell’Associazione dei Popolari del Piemonte)

Il “Ritorno” della Balena Bianca, Cesa e Gargani lanciano la federazione popolare.

(Fonte Adnkronos)

A volte ritornano. Si richiamano alla Balena Bianca, ma non vogliono fare una riedizione. L’obiettivo è creare un nuovo contenitore politico al centro, per dare maggiore spazio e voce ai moderati, alternativo alla destra sovranista della coppia Salvini-Meloni e al Pd. E coinvolgere tutti quei moderati delusi, a cominciare da quelli dentro Forza Italia.

Nasce la ‘Federazione popolare dei democratici cristiani’: a celebrare il battesimo ufficiale, questa mattina [ieri per chi legge, ndr], nell’auditorium Aldo Moro di via Campo Marzio, a pochi metri da Montecitorio, esponenti storici dell’ex Dc come Lorenzo Cesa, attuale leader dell’Udc, l’ex ministro Giuseppe Gargani, Mario Tassone, segretario nazionale del nuovo Cdu e Renato Grassi, segretario della Dc storica, che per anni si è battuto contro lo scioglimento della Balena bianca, decretato da Mino Martinazzoli.

L’atto costitutivo è stato firmato davanti al notaio una settimana fa, manca il simbolo. Nessun amarcord, ma una rivendicazione senza nostalgie dell’orgoglio identitario della Dc che fu. ”Se oggi usciamo dalle catacombe per organizzarci al centro e rivendicare la nostra identità, è un fatto importante, direi che è una notizia”, esordisce Gargani, che spiega le ragioni dell’iniziativa: ”Non vogliamo il risveglio della Dc come tale, ma oggi c’è ancor di più l’esigenza del centro, la necessità di aggregarci, che coinvolga tutti i moderati, alternativa alla destra eversiva e alla sinistra, a questo Pd, parte della maggioranza a sostegno del governo Conte”.

Dello stesso avviso Cesa: ”Mettere insieme come facciamo oggi 46 sigle è un fatto straordinario, continuiamo l’avventura, quel percorso politico iniziato tempo fa” dall’Udc, che vuol portare alla creazione di un ”soggetto politico di centro, distinto e distante dai populisti di destra e dalla sinistra”.

Gargani rivolge un appello a Gianfranco Rotondi, assente in sala: ”Gianfranco ha messo in piedi una Fondazione della Dc, spero possa essere il presupposto culturale della nostra azione politica”. Anche Cesa ‘chiama’ Rotondi: ”Mi dispiace che oggi Gianfranco non c’è. La sua Fondazione può diventare il nostro strumento culturale”. Il leader dell’Udc non ha dubbi: ”C’è bisogno di quel buon senso che non c’è più: basta con la politica urlata, sempre contro qualcuno o qualcosa. Noi siamo qui: l’Udc può essere lo strumento per riorganizzarci in un partito di centro. di ispirazione cristiana, che rimetta al centro della politica soprattutto la persona. Non è facile. Noi abbiamo una rete già in essere, soprattutto al Sud: va riordinata”. Cesa si rivolge agli ”amici di Forza Italia”, per convincerli a federarsi nel nome del centro, appunto: “Nelle prossime ore avrò un incontro con gli amici di Forza Italia: dobbiamo metterci tutti insieme, ci sono tanti di Forza Italia che la pensano come noi…”.

Un nuovo Welfare per il Quinto Stato

Articolo pubblicato dalla rivista il Mulino a firma di Marco Trentini

I precari possono essere considerati un gruppo sociale o la precarietà è una condizione individuale? Quali politiche si possono mettere in atto? Maurizio Ferrera risponde a questi interrogativi ne La società del Quinto Stato (Laterza, 2019) un libro agile per numero di pagine e stile di scrittura, in cui non si limita a descrivere le trasformazioni in atto nel lavoro, ma presenta anche una proposta di riforma del Welfare.
Più volte Ferrera fa riferimento a La grande trasformazione di Karl Polanyi (trad. it. Einaudi 1974), un volume del 1944 in cui colui che è considerato uno dei padri della sociologia economica si occupa di quella che può essere definita la crisi della società liberale, avvenuta all’inizio del secolo scorso, in particolare a partire dagli anni Trenta. Egli non si limita a sostenere che anche in questi anni stiamo attraversando una fase di profondi mutamenti economici e sociali (per dire questo non sarebbe stato necessario citare lo studioso di origini ungheresi), ma richiama lo schema di analisi utilizzato da Polanyi che aveva ipotizzato l’esistenza di un doppio movimento: il primo, ispirato dal liberismo economico, è caratterizzato dall’espansione del mercato e il secondo (definito anche contro movimento) dalla resistenza, grazie alla domanda di protezione sociale avanzata soprattutto dalla classe lavoratrice.

Tre capitoli del libro sono dedicati ad analizzare i tratti del primo movimento (la fase di espansione del mercato) di quella che viene chiamata la Grande trasformazione 2.0, che è tuttora in corso e le cui caratteristiche sono il passaggio a un’economia post-industriale, la globalizzazione e l’economia digitale. L’attenzione è posta, come si può intuire dal titolo del libro, su un gruppo sociale generato da questi mutamenti e che viene definito “Quinto Stato” in cui rientrano i lavoratori precari. La precarietà riguarda soprattutto i giovani ed è una condizione sociale caratterizzata dall’instabilità lavorativa, dalle scarse protezioni sociali e dalla vulnerabilità economica provocata dalle basse retribuzioni. Ma parlare di Quinto Stato presuppone che la precarietà non sia una situazione transitoria e abbia invece una certa continuità nel tempo.

Definendo i lavoratori precari come Quinto Stato Ferrera si discosta dalla definizione di Guy Standing che in Precari. La nuova classe esplosiva li considera una classe sociale, facendo riferimento alla posizione dei lavoratori precari nel processo produttivo. Quello che secondo Standing li caratterizzerebbe è l’insicurezza del lavoro nelle sua varie dimensioni (ad esempio, dell’occupazione, del posto di lavoro, del ruolo professionale, del reddito ecc.). Per Ferrera, invece, sono un ceto: un gruppo sociale accomunato dalla condizione sociale e più precisamente dalla vulnerabilità e dall’insicurezza. Inoltre è improprio parlare di classe sociale visto che si tratta di un gruppo sociale fluido, piuttosto eterogeneo al suo interno e con un basso grado di politicizzazione. Un’affermazione, quest’ultima, che non appare del tutto convincente. In fondo, lo stesso Standing scrive che il precariato non ha già una consapevolezza di classe, ma è una classe in divenire.

Indipendentemente dal fatto che i precari siano uno stato/ceto o una classe, un punto su cui c’è convergenza è che la precarietà provoca un forte ridimensionamento delle tutele e dei diritti conquistati dai lavoratori nel corso del Novecento grazie anche all’azione collettiva del movimento operaio. Molti rischi sociali che erano coperti dal Welfare vengono ora trasferiti sull’individuo. Si può parlare di una sorta di lato oscuro della flessibilità, pensando a tutta la letteratura che ne enfatizza solo gli aspetti positivi per le organizzazioni e per il lavoro.

La stessa economia digitale, oltre a opportunità in termini di organizzazione del lavoro, genera dei rischi sociali. Non solo quelli legati alla sostituzione del lavoro con le macchine, come ipotizzato da alcuni studiosi (scenario che andrà verificato, ma che si può immaginare potrà divenire più articolato di come viene spesso presentato), ma quelli di un’economia in cui si diffondono i “lavoretti” (gig economy) e in cui nell’intermediazione del lavoro centrale è il ruolo svolto dalle piattaforme online e delle app, come nel caso dei fattorini di consegne a domicilio e di Uber.

Alle insicurezze generate dai mutamenti economici si aggiunge che la mobilità sociale che, insieme alle politiche di Welfare, ha contribuito a ridurre le diseguaglianze sociali, si sta contraendo. La paralisi della mobilità, secondo Ferrera, fa sì che i solchi fra uno strato sociale e l’altro siano più profondi.

Dopo aver delineato i tratti del primo movimento, il libro si sposta su quello che si può considerare il secondo o il contro movimento. Gli ultimi due capitoli sono infatti dedicati a delineare una possibile strategia di risposta alle nuove sfide. Quanto mai necessaria visto che l’intreccio fra insicurezza economica, impoverimento e risentimento politico, fortemente accentuatosi soprattutto dopo la crisi del 2008, rischia di destabilizzare le democrazie anche più consolidate. Anche se va notato che il risentimento politico che alimenta il populismo sovranista sembra riconducibile a quella che sinteticamente può essere definita la radicalizzazione politica del ceto o della classe media, che vede peggiorare o sente minacciata la propria posizione sociale, e non dei precari.

Qui l’articolo completo 

Riflessioni sui Diritti umani: universalità e attualità

La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 ha richiesto una collaborazione tra esperti di tutto il mondo. Incarnando diverse prospettive culturali, il processo di elaborazione è stato guidato dalla convinzione condivisa dell’importanza di trovare principi comuni essenziali per la sopravvivenza della stessa civiltà.

Sebbene fosse un processo arduo ed esteso, il risultato fu uno sforzo collettivo, prezioso per i decenni a venire, al quale il filosofo francese Jacques Maritain apportò un contributo determinante dapprima con l’Introduzione da lui scritta nel volume Human Rights: Comments and Interpretations, e successivamente, in particolare, con il discorso inaugurale da lui pronunciato a Città del Messico in occasione della II Conferenza Generale dell’Unesco (novembre 1947), le cui tesi sui “principi pratici” da adottare per raggiungere un accordo altrimenti impossibile tra le culture furono universalmente accolte- Motivato dal settantesimo anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 e arricchito dai saggi di eminenti studiosi, il volume (“Metaphysics of Human Rights 1948-2018. On the occasion of the 70th anniversary of UDHR” a cura di Luca Di Donato ed Elisa Grimi, Vernon Press 2019) vuole essere un contributo di riflessione sui diritti umani e sulla loro universalità.

La domanda di fondo è se, dopo settanta anni, questa Carta possa essere ancora considerata universale, o meglio ancora, come definire il concetto di “universalità”. Viviamo in un’epoca in cui questa nozione sembra essere guidata non tanto dai valori che il soggetto percepisce intrinsecamente come buoni, ma piuttosto dalle esigenze del singolo. L’universalità non è quindi più dedotta da qualcosa che è dato oggettivamente all’interno della prassi condivisa. Viceversa, ciò che sembra essere universale è ciò che riteniamo essere valido per tutti. Il volume potrà interessare coloro che sono attualmente impegnati nella ricerca o nello studio in molteplici settori tra cui filosofia, politica e diritto. 

Commissione Nazionale Italiana per l’UNESCO Sala del Primaticcio – Piazza di Firenze, 27 Martedì 10 dicembre 2019 ore 16.00

Programma

Indirizzi di saluto

Prof. Gennaro Giuseppe CURCIO, Segretario Generale, Istituto Internazionale Jacques Maritain

Dott.ssa Maria Concetta CASSATA, Presidente, Comitato Unico di Garanzia,

Ministero per i Beni e le Attività Culturali e il Turismo

Introduzione

Prof. Francesco MIANO

Presidente Istituto Internazionale Jacques Maritain

Presiede

Dott. Giancarlo MARCOCCI, Centro Studi e Ricerche “Jacques e Raissa Maritain”

Trezzo sull’Adda (Milano)

Interventi

Prof.ssa Mariella ENOC, Presidente, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, Roma

Prof.ssa Livia POMODORO, Presidente, Accademia di Belle Arti di Brera, Milano

Saranno presenti i curatori Prof. Luca Di Donato e Prof.ssa Elisa Grimi

Il Paradiso della porta accanto

Chi studia la storia con metodologia e passione ha letto tanti esempi di imperi che sono caduti per mancanza di slancio. Quando una società smette di sperare nel domani, rimanendo nella propria zona di conforto, comincia il suo declino.

Dai Sumeri, prima dell’avvento di Sargon, fino ai casi a noi prossimi, lo storico assiste a società che faticano a sopravvivere perché indecise tra il riformismo e l’immobilismo. Il cambiamento è il segreto di Pulcinella della sopravvivenza, anzi, dell’evoluzione sana e vitale di un mondo che, altrimenti, invecchia e muore. E’ il caso di Pio IX, un Papa che volle lasciare troppo tardi il potere temporale; non fece in tempo: arrivarono i Garibaldini.

Lo Stato della Chiesa non cadde perché arrivarono loro, ma giunsero i garibaldini (o meglio, i Bersaglieri) perché ormai era finito. Finito il tempo in cui una Chiesa, consunta ormai dal clericalismo e dal conservatorismo, ambiva a scandire il ritmo del battipetto dei suoi sudditi, anziché traghettarli a un ritmo ben più elevato, quello celeste. Sempre rimanendo in tema, il cosiddetto “partito romano”, circolo di preti che, di generazione in generazione, si sentiva investito informalmente dell’incarico di proteggere il Vaticano dagli assalti del modernismo (arrivando persino a pensare di vincere con i trattati di Mussolini prima, e di Craxi poi), si è arreso di fronte alla semplicità dell’ultimo Papa, ingiustamente additato come “antipapa”, che non vuol cambiare la dottrina: piuttosto presentarla in modo più semplice.

Non una Chiesa di potere, ma una di programma. Non una figura, quella del Papa, assiso sulla sedia gestatoria, a cui le genti vanno incontro, ma una figura che si incammina verso le genti. Sia chiaro che i due sistemi vanno entrambi bene, seppure contestualizzati ognuno al proprio tempo.

In una società che cambia e si avvia verso il globalismo, non è solo sciocco desiderare, da nostalgici, ciò che non è più e che non può più essere. E’ anche stupido. Del resto, però, i Farisei erano presenti anche al tempo di Cristo.

Corum Populo: “Bocca di rosa e le altre”

Il prossimo 6 dicembre al Piccolo Teatro Unical andrà in scena “Bocca di rosa e le altre”, un viaggio tra le donne cantate da Fabrizio De André.

Iniziativa che sarà portata alla ribalta da Simona Micieli, amante fin da piccola della poesia di Faber, che ha scritto e che dirigerà l’intera serata con la sua splendida voce.

La musica sarà interpretata dai Coram Populo, di cui Simona è la voce, affiancati per l’occasione da due musicisti d’eccezione: Walter Giorno alla batteria e Giovanni Brunetti al pianoforte.

I Coram Populo, di cui abbiamo già parlato su queste pagine, hanno il merito di non essere banali. E siamo sicuri che riusciranno a dar vita alle bellissime parole del maestro.

Il gruppo sarà chiamato in questa circostanza ad unire il mito, di Faber, alla esperienza dolorosa e d’amore che è presente nelle donne del poeta.

Quelle donne scolpite nella memoria di tutti noi, con l’uso di parole mai scelte a caso.

Tutto un campionario di ritratti ai quali Faber ha dato voce nel corso della sua produzione, in un quadro realistico dipinto con poche pennellate da maestro, che racchiudono uno spettacolare coraggio e la dignità di chi riesce ad amare.

Grazie a questi ritratti, le donne, escono fuori dal misticismo della canzone per diventare vere e per lasciarci il piacere e il bisogno di ascoltarle.

Un ascolto che siamo, già  certi, ci renderà più umani e ci lascerà, ancora una volta, pensare alla fatica di quel sorriso che cerca un ritaglio di Paradiso.

La nuova Direttiva Ue sul whistleblowing

Pubblicato nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea del 26 novembre 2019 la Direttiva (UE) 2019/1937 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 ottobre 2019, riguardante la protezione delle persone che segnalano violazioni (whistleblowing) del diritto dell’Unione.

Gli Stati membri dovranno porre in vigore le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie per conformarsi alla direttiva entro il 17 dicembre 2021. Per quanto riguarda i soggetti giuridici del settore privato con più di 50 e meno di 250 lavoratori, gli Stati dovranno conformarsi all’obbligo di stabilire un canale di segnalazione interno entro il 17 dicembre 2023.

Gli Stati dell’Unione dovranno recepire quanto stabilito dalla direttiva entro due anni dalla pubblicazione della Direttiva nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea (quindi entro il 26 novembre 2022) e adottare regole interne entro i suddetti termini al fine di garantire gli standard minimi della Direttiva, fermo restando che in virtù della clausola di non regressione, l’attuazione della Direttiva non potrà comportare in alcun caso una riduzione dell’attuale livello di protezione.

La direttiva amplia la platea dei “segnalatori” protetti. La nuova disciplina si applicherà, senza distinzione, alle persone segnalanti che lavorano nel settore privato o pubblico e che abbiano acquisito informazioni sulle violazioni in un contesto lavorativo.

Tra i soggetti tutelati rientrano dunque le persone aventi la qualità di lavoratore, anche autonomo (dunque i professionisti), nonché i dipendenti pubblici, gli azionisti e i membri dell’organo di amministrazione, direzione o vigilanza di un’impresa (compresi i membri senza incarichi esecutivi), i volontari e i tirocinanti retribuiti e non retribuiti e, infine, qualsiasi persona che lavora sotto la supervisione e la direzione di appaltatori, subappaltatori e fornitori.

La direttiva stabilisce norme minime comuni di protezione delle persone che segnalano le seguenti violazioni del diritto dell’Unione:

a) violazioni che rientrano nell’ambito di applicazione degli atti dell’Unione di cui all’allegato relativamente ai seguenti settori:
appalti pubblici;

servizi, prodotti e mercati finanziari e prevenzione del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo;

sicurezza e conformità dei prodotti;

sicurezza dei trasporti;

tutela dell’ambiente;

radioprotezione e sicurezza nucleare;

sicurezza degli alimenti e dei mangimi e salute e benessere degli animali;

salute pubblica;

protezione dei consumatori;

tutela della vita privata e protezione dei dati personali e sicurezza delle reti e dei sistemi informativi;

b) violazioni che ledono gli interessi finanziari dell’Unione di cui all’articolo 325 TFUE e ulteriormente specificate nelle pertinenti misure dell’Unione;

c) violazioni riguardanti il mercato interno, di cui all’articolo 26, paragrafo 2, TFUE, comprese violazioni delle norme dell’Unione in materia di concorrenza e di aiuti di Stato, nonché violazioni riguardanti il mercato interno connesse ad atti che violano le norme in materia di imposta sulle società o i meccanismi il cui fine è ottenere un vantaggio fiscale che vanifica l’oggetto o la finalità della normativa applicabile in materia di imposta sulle società.

Reti e percorsi di cure palliative

Nel corso dei 10 anni dalla promulgazione della legge 15 marzo 2010, n. 38, si è registrata un’importante crescita dei servizi nel campo delle cure palliative. Il Ministero della Salute e il Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca hanno svolto un ruolo fondamentale, creando un quadro normativo organico di riferimento, promuovendo la crescita di un sistema professionale specificamente formato, capace di affrontare con competenza e responsabilità i bisogni del malato e della sua famiglia. La distribuzione della rete delle cure palliative rimane tuttavia fortemente disomogenea nelle diverse regioni.

Il Workshop è l’occasione per un confronto in merito alle principali leve di cambiamento nella gestione dei percorsi di cura dei malati in condizioni di cronicità complesse e avanzate: innovazione organizzativa, ricerca, formazione e informazione.

Obiettivi del Workshop:

  1. presentare e discutere le principali evidenze sviluppate dallo Studio Demetra I, patrocinato dal Ministero della Salute e promosso dalle Fondazioni  Berlucchi e Floriani con il supporto del centro collaborativo WHO di Barcellona e di altri enti ed esperti nazionali ed internazionali, in merito al funzionamento delle Reti Locali di Cure Palliative e ai percorsi di cura rivolti alle persone in condizioni di cronicità complesse e avanzate. Lanciare la nuova progettualità integrata Demetra II.
  2. fornire elementi per una programmazione aziendale efficace e sostenibile, capace di favorire l’implementazione di modelli organizzativi centrati sul governo clinico di percorsi di cura appropriati ai bisogni dei malati, coerenti con le evidenze e le migliori pratiche gestionali;
  3. presentare attraverso un confronto di esperienze internazionali i risultati del lavoro interministeriale sulla formazione accademica in cure palliative e affrontare il tema della formazione medica specialistica.

L’evento nasce dalla collaborazione scientifica e organizzativa con la Fondazione Floriani e la Fondazione Guido Berlucchi.

Leggi il Programma

Rimettiamo i nostri debiti

Basta leggere il documento di programmazione economico-finanziaria per il prossimo anno, per rendersi conto della assenza gli investimenti per infrastrutture materiali ed immateriali, per la ‘’education’, per altri settori vitali per il Paese, come accadrebbe in qualsiasi paese abbia i conti a posto. Ma noi che abbiamo un debito che in rapporto al pil è per negatività il secondo del mondo siamo al palo da molto tempo. Insomma  il debito pubblico è un convitato di pietra che pregiudica ogni programmazione di nuovi investimenti per le necessità italiche. 

Un debito, bisogna ricordarlo, procurato da sperperi elettoralistici da parte dei governi, anziché  procedere ad assottigliarlo per abbassare almeno il conto degli interessi. Un cane che si morde la coda, meccanismo che se non dovesse interrompersi, porterà la Nazione nello sfacelo completo. Dunque, gli interessi che paghiamo finanziano lautamente banche e agenzie di finanza internazionale che come sanguisughe sono attaccate alla condizione che, per nostra sciatteria o malgoverno, noi stessi provochiamo. Ora vediamo come stanno le cose per il primo paese che ha il debito doppio rispetto a noi: il Giappone. 

Nella terra del sol levante praticamente il debito è quasi tutto finanziato dai risparmiatori Giapponesi; esattamente come facevamo noi fino al periodo della cosiddetta Prima repubblica: i risparmiatori compravano Bot ben remunerati, cosicché erano le famiglie a guadagnarci accrescendo il loro potere di acquisto con ricadute benefiche anche sul Pil. Un circuito virtuoso che non solo alimentava una dinamica benefica, ma ci risparmiava anche declassamenti delle agenzie specializzate che spingono verso una spirale sempre più in basso, ed in aggiunta le rampogne con relative penalizzazioni europee. 

Se le cose stanno in questo modo, tutti coloro che hanno governato fino ai nostri giorni, perché non  hanno preso in considerazione queste verità ? Eppure il risparmio degli italiani, nonostante in questi anni si è in parte dilapidato, è ancora il più alto del mondo, e raggiunge un monte che è il doppio del nostro debito pubblico. In simili circostanze chiunque abbia del buon senso, abbia amore per la patria, abbia senso di responsabilità, abbia a cuore gli interessi popolari, cambierebbe rotta. Ma finora la rotta è sempre la stessa; ci sarà qualcuno che si porrà l’obiettivo di farlo? Finirà la situazione incresciosa che in politica si litiga continuamente su cose di poca importanza, e sulle cose vitali non si fiata nemmeno? Secondo me il cambiamento in Italia ci sarà quando si lavorerà per togliere i pesi economici che incombono sulle famiglie, e non al contrario concorrendo ad appesantirli. 

Si una rivoluzione da fare da parte di chi ha le mani libere.