Buon compleanno, Internet

Il 30 aprile 1986 l’Italia si connette per la prima volta a Internet

Articolo già apparso sulla rivista Il Mulino a firma di Laura Sartori

Il 30 aprile 1986 l’Italia si connette per la prima volta a Internet, evento che oggi definiamo epocale, ma che allora fu festeggiato da un ristretto gruppo di scienziati. Sì, perché è tra le mura del Centro nazionale del calcolo elettronico (Cnuce) di Pisa – oggi diventato il Cnr – che parte il primo segnale Internet dall’Italia diretto in Pennsylvania, dove c’era la sede della rete Arpanet. Tecnicamente, il segnale partì da Pisa via cavo, grazie al progetto Italcable, fino alla piana del Fucino in Abruzzo, dove con la struttura satellitare del progetto Telespazio e il primo grande router (Butterfly Gateway) finanziato dal governo americano, arrivò infine negli Usa.

In quegli anni, Arpanet rappresentava la rete di università collegate nel mondo, nata nel 1958 quando il generale Eisenhower fondò Arpa (Advanced research projects agency), convinto che la conquista dello spazio fosse un progetto di ampio respiro e a lungo termine. Questa si integrò con l’idea dello psicologo Robert Licklider di un “Intergalactic Computer Network” creando il progetto Arpanet di Larry Roberts nel 1967. Ma è solo nel 1973 che la situazione matura e si comincia a parlare effettivamente di una rete Internet. Fu allora che Vinton Cerf e Bob Kahn definiscono lo standard di comunicazione con cui ancora oggi si articolano e distribuiscono le informazioni tramite la Rete, ovvero il protocollo Tcp/Ip, che si impose anche perché permetteva il dialogo tra tutte le reti che si stavano sviluppando in quegli anni: non solo Arpanet, ma anche Alohanet, Comsat e Stetnet.
Nasceva così Internet. Oggi, questo termine indica una infrastruttura tecnologica (una rete di reti) su cui corrono diversi protocolli, tra cui il cosiddetto World Wide Web, “immaginato” nel 1989 da Tim Berners Lee, al Cern di Ginevra, come un sistema ipertestuale che apre all’uso grafico e multimediale della Rete. Giunti a quel punto, mancava un ultimo passo per avvicinare Internet e il Web ai comuni cittadini. Ecco allora l’invenzione del browser, un software per la navigazione online. Il primo fu Mosaic nel 1993, seguito da Netscape nel 1994, Explorer nel 1997 e Firefox nel 2002. Nel 2004 si apre l’era dei social network con il lancio di Facebook (ben raccontato dal film “The Social Network” del 2010), Twitter nel 2006 e Instagram nel 2010. WhatsApp fa il suo debutto nel 2009 e Facebook reagisce, trasformando la sua chat, presente dal 2008, in una piattaforma di messaggistica nel 2010 (Messanger).

Questo breve excursus ci permette di capire come quello che comunemente chiamiamo “Internet” sia una realtà multiforme in continua evoluzione, fatta di reti e di app, di cavi e codici. Che pure ha cambiato la nostra quotidianità: per molti sarebbe oggi impensabile cercare lavoro, un hotel, una pizzeria (o perfino un partner) senza fare riferimento al Web. Certo è che Internet è profondamente intrecciato alle strutture sociali, politiche ed economiche del mondo, e questo porta con sé sfide e opportunità cruciali. In un quadro in cui sono profondamente cambiate le regole del gioco che riguardano i rapporti tra cittadini, imprese e governi.

Dalla ricerca di informazioni alla gestione della privacy, dalla consapevolezza nell’uso dei social alla capacità di cercare lavoro o informazioni politiche, l’alfabetizzazione e la competenza digitale sono oggi importanti quanto sapere leggere e scrivere nelle epoche passate. Da questo punto di vista, da noi si registrano ancora alcune lentezze rispetto ad altri Paesi europei. Ancora nel 2018 in Italia il 25% delle famiglie non aveva accesso a Internet da casa (perché non sa usare il Web: il 58%; o perché non lo considera uno strumento rilevante: il 21%). Dieci anni fa queste percentuali erano, rispettivamente, del 41 e 25%, quasi a suggerire come le competenze aumentino a una velocità che non regge rispetto a quella a cui crescono la centralità e la complessità del Web.

Alla sfida delle disuguaglianze digitali, si aggiunge quella rappresentata da come si articoleranno i fenomeni di hate speech che hanno trovato nel Web un terreno particolarmente fertile soffiando sul fuoco di misoginia, odio politico e risentimento. Una migliore conoscenza del Web offrirebbe ai cittadini un’arma in più per continuare a navigare, imparare a riconoscere le fake news e a destreggiarsi con il fact-checking. L’alfabetizzazione digitale e l’elaborazione di un pensiero critico, fondamentali per la società e la democrazia, vedono in campo sempre di più programmi e politiche specifiche: dal pioniere “Pane e Internet” della regione Emilia-Romagna del 2009 al recente progetto congiunto tra Apple e l’italiana Opge (Osservatorio permanente giovani editori).

Infine, una terza e cruciale sfida per i prossimi anni riguarda la gestione della privacy. Se è chiaro cosa sappiamo fare quando siamo online, meno chiaro è cosa facciamo sapere quando siamo in Rete. Quanto siamo consapevoli del fatto che le nostre pratiche sociali online si trasformano per le grandi aziende come Google, Amazon, Facebook e Apple (Gafa) in dati, nuovo petrolio da cui estrarre valore? Da una semplice ricerca di un ristorante o di un biglietto aereo all’uso dei social, le aziende sfruttano le informazioni su di noi che più o meno consapevolmente concediamo. Molti si ricorderanno la #challenge2019, dove Facebook invitava i propri utenti a postare e comparare due foto a 10 anni di distanza. È stato sollevato il dubbio che non si trattasse di un semplice gioco, ma di un escamotage per accumulare dati su cui allenare l’intelligenza artificiale del software di riconoscimento facciale. Quanti di coloro che hanno partecipato al gioco ne erano consapevoli?

D’altra parte, il mercato dei beni e servizi offerti per Internet e il Web ha visto emergere posizioni di monopolio di grandi aziende – come Amazon, Facebook e Google (la cosiddetta “Trinità”): non solo ci sono implicazioni negative per il principio di concorrenza, ma anche per i consumatori finali. Si pensi che, a scapito della promessa di uno scambio più efficiente e autonomo, oggi il 70% di tutto il traffico Internet avviene sulle piattaforme di Facebook e Google, o da loro controllate, mentre Amazon controlla il 50% dell’e-commerce. Ma le posizioni di monopolio non hanno quasi mai implicazioni positive per l’economia, la società e la politica. Sia dal lato dei lavoratori (le condizioni di lavoro di questi colossi sembrano riportarci alla fase del primo capitalismo liberale, come il recente sciopero dei lavoratori Amazon di Piacenza ha portato all’attenzione pubblica nel novembre del 2018), sia da quello dei consumatori (si pensi all’uso dei termini e delle condizioni di Facebook giudicato da molti spregiudicato oppure allo scandalo Cambridge Analytica).

Per tanti di questi motivi, in diversi Paesi sono allo studio misure di bilanciamento (come la Web tax, l’imposta sui servizi digitali offerti dai colossi di Internet, più volte avanzata anche in Italia) o di smembramento di tali posizioni dominanti con misure antitrust (come le recenti proposte della senatrice democratica americana Elizabeth Warren).

Per continuare ad avere una rete Internet aperta, globale, sicura e affidabile la regolazione pubblica occupa un ruolo decisivo. Innanzitutto, servono strumenti e norme adeguati a inquadrare e tutelare le nuove forme del lavoro (si pensi ai riders delle principali piattaforme di consegna del cibo a domicilio) o di economia (la sharing economy e in particolare il caso di Airbnb offrono molti elementi sul tema della tassazione, della sostenibilità economica o dell’integrazione sociale a livello urbano).

Poi, ci sono temi che sembrano lontani dagli usi quotidiani che facciamo di Internet, ma che sono invece centrali per continuare a fare quello che consideriamo ormai normale. È il caso della guerra in corso negli Usa e in Europa per conservare la “neutralità della Rete” rispetto alle spinte corporative provenienti dalle grandi società. Più in generale, sono necessari investimenti in conoscenza scientifica tanto nelle rinomate scienze dure quanto nelle scienze sociali e umanistiche.

Internet, dunque, non è solo cavi e codici. Il suo futuro dipende da come si intrecciano e bilanciano le forze che regolano la società, il mercato e lo Stato, e cioè dagli equilibri che cittadini, imprese e governi sapranno trovare per orientare in senso positivo, con lo stesso spirito collettivo e libertario che ne ha caratterizzato la nascita e la cultura per l’innovazione che favorirono la partecipazione italiana alla sua sperimentazione in quel lontano 1986.