La scissione di Renzi è ormai entrata nel circuito delle “aspettative di mercato”, come avviene per un titolo quotato in borsa. Alla stessa stregua, accade che le anticipazioni influiscano sulle preferenze del pubblico e stabilizzino, prima degli eventi, una misura di valore. Oggi, vero o non vero, nel Pd si ragione e si lavora nella convinzione che l’ex Segretario possa infine rompere e fondare un nuovo partito. Eppure non è così scontato, né così semplice.

Renzi dovrebbe lasciare il Pd, a freddo, garantendo in ogni caso il sostegno al governo. Si tratterebbe di un’operazione per palati fini, più che altro avvezzi a proposte fin troppo elaborate. È prevedibile invece che nonostante le rassicurazioni distribuite a piene mani, con la rottura ci sarebbero ripercussioni inevitabili sulla navigazione del governo, anche se la rotta non dovesse mutare. Di certo il Pd ne avrebbe solo danni, e non di piccola entità. Musil ricorreva all’ironia quando spiegava che l’Austria, dopo la caduta dell’Impero, era in fondo l’Austria-Ungheria senza più l’Ungheria. In realtà non era più l’Austria, non lo era almeno per come la storia dal ‘500 in poi ne aveva foggiato il ruolo e l’immagine. Senza Renzi, piaccia o non piaccia, non c’è più il Pd.

Il problema è che, qualsiasi sviluppo da oggi in avanti possa avere l’esperienza di governo tra M5S e Pd, il riequilibrio al centro del sistema appare un’esistenza ineludibile, specie nell’orizzonte di una maggioranza nata un po’per caso, e dunque a rischio di avvitamento nella confusione. Se fosse ancora in piedi il PPI – comunque l’Assemblea dei 58, organo eletto nel congresso del 2002 con poteri di ordinaria e straordinaria amministrazione, ha respinto a luglio l’ipotesi di scioglimento – avrebbe una funzione necessaria e insopprimibile, pur ammettendo la ridotta incidenza sull’elettorato. D’altronde, una certa nostalgia del cuore spinge anche a interrogarsi sul perché, in tutti questi anni, un partito di nobili tradizioni non avrebbe dovuto prima o poi riconquistare consensi, visto che la Lega ha dimostrato che si può, passando in effetti dal 4% a quasi il 35% dei voti. In questa fase di transizione, anche per saggiare il terreno e verificare la consistenza delle forze, il partito dovrebbe tornare – laddove opportuno – a presentarsi nelle elezioni amministrative.

La strada maestra, dunque, porta a intravedere l’obiettivo di un popolarismo, oltrepassante la figura storica del partito d’ispirazione cristiana, che si fa cerniera nell’opera di ricucitura tra elite e popolo. Bisogna rimettere con i piedi per terra il dibattito che serpeggia tra le fila dei cattolici. Un’astratta sollecitazione all’impegno pubblico, valida più come istanza etica che come formula politica, non permette di “riagganciare” la lezione (tra i tanti) di Sturzo, De Gasperi e Moro. All’atto pratico il Card. Ruini, sotto il pontificato di Giovanni Paolo II, ha surrogato con ecclesiastica disinvoltura la questione della coerenza, innanzi tutto culturale,relativamente alla tradizione del cattolicesimo democratico e popolare. Nel solco di questo distacco, alquanto refrattario a riconoscere l’autonomia dei laici nella sfera della profanità, l’evocazione della “identità cristiana” scivola ai giorni nostri sullo scalino dell’integralismo. Si pensa e si parla stando chiusi nella camera iperbarica dell’identitarismo. Una condizione, questa, che potrebbe degenerare per mancanza d’iniziativa di un “partito-movimento”, come il PPI avrebbe modo di configurarsi con il suo reingresso attento e misurato sulla scena politica.

In definitiva, poiché si tratta di organizzare una piattaforma anti-sovranista, l’alleanza delle diverse componenti democratiche richiederà, anzi già da ora richiede con solerzia, l’allestimento di nuove forme di presenza e organizzazione. In un primo tempo dovrà senz’altro prevalere l’unità, ad ampio raggio, solo dopo la competizione per l’alternativa. Per questo, dovendo immaginare una vasta convergenza di forze su basi di vicendevole rispetto, verrebbe naturale confermare il popolarismo nella condizione più idonea a garantire il suo essere orientato a sinistra, così come De Gasperi, parlando della Dc, ne ravvisava chiaramente la natura di “partito di centro che muove verso sinistra”. Se si perde l’asse di un ragionamento, pur con tutta la sua complessità, ogni ipotesi di ripresa dell’impegno politico dei cattolici scade fatalmente nella vuota discettazione attorno a sterili prospettive di mobilitazione unitaria.