Questioni serie, in politica, possono manifestarsi -n che sotto forma di protusioni del pensiero farneticante. Non vale la pena scomodare lo spirito del tempo. È la natura umana a regalarci, con bonomìa o protervia, l’elemento asintomatico della dabbenaggine.

Virginia Raggi proviene dallo studio Previti, ma si dichiara di sinistra. È diventata sindaco con il voto di un romano su tre, sebbene con questi numeri, drogati da una legge elettorale iper-maggioritaria, si conquisti agli occhi del pubblico un successo clamoroso. Un successo che comporta poteri regali o meglio podestarili: infatti il sindaco è diventato, in virtù del “rinnovamento” prodotto dalla seconda repubblica, il nuovo Podestà.

La Raggi ha fallito. I più benevoli plaudono alla sua buona volontà, non riuscendo tuttavia a compensare le numerose critiche. Cio nondimeno, forte del suo fallimento, si ricandida. Non si sa quanto ciò corrisponda a verità o a semplice manovra tattica. È improbabile che queste contorsioni possano accrescere un credito alla persona largamente inespresso, del resto, in questi quattro anni di amministrazione.

A riprova dell’intimo motivo di arroganza che accompagna e condiziona l’istituto neo-podestarile, sta una sgradevole dichiarazione, resa proprio ieri, della Raggi. Non rinnega – ha detto – il suo stile di governo, specialmente per quel che riguarda la nomina e la revoca degli assessori. Come finora visto, è pronta anche in futuro a cambiare cento volte i membri della sua giunta (ridotti evidentemente a burattini). Non le sfiora il dubbio che tanta mutevolezza di gusti e preferenze corrisponda a una radicale incapacità di guida, con grave danno per la città.

Ora, dinanzi a tali disconnesse esuberanze, il confronto politico dovrebbe esercitarsi attorno alla necessità di una riforma che ridefinisca il perimetro dei “diritti” conferiti alla figura del primo cittadino. Prima della elezione diretta del sindaco, con i poteri in suo possesso il Consiglio comunale avrebbe certamente provveduto a rimuovere la Raggi, individuando un più degno sostituto. Se ciò fosse stato possibile, Roma avrebbe tratto vantaggio da un eventuale (e non improbabile) ravvedimento del M5S: il gruppo consigliare, elevato dal sistema elettorale a maggioranza assoluta, avendo ottenuto quasi il raddoppio della sua reale consistenza rappresentativa (dal 32 al 60 per cento), si sarebbe potuto assumere la responsabilità di un mutamento assai opportuno al vertice del Campidoglio.

Sono stati persi, al contrario, anni preziosi per rispettare il tabù – tradotto nel presidenzialismo a scala locale – del mandato diretto e irrevocabile. Dunque, bisogna cambiare la Raggi, lo schieramento che la sostiene, l’ideologia plebea di cui si ammanta; e tuttavia non basta, perché infine, se non vogliamo proseguire in questa incommendevole semplificazione della democrazia locale, bisogna cambiare norme, regole e strumenti, per restituire alle assemblee elettive comunali la loro dignità e ai cittadini la speranza che un loro errore possa essere corretto, senza aspettare il redde rationem di fine mandato ogni cinque anni.

Le distorsioni degli ultimi trent’anni, con il loro carico di effetti negativi, non possono essere ignorate all’infinito.