Articolo pubblicato sull’edizione odierna dell’Osservatore Romano a firma di Giulio Albanese

La storia di Alphonse è emblematica rispetto a un fenomeno oggi molto diffuso in Africa, quello delle Chiese indipendenti. Chi scrive, ebbe modo di conoscerlo negli anni Novanta, incontrandolo, tutte le domeniche, impegnato nel dirigere un coro all’aperto nella valle di Mattare, una delle zone più malavitose della città di Nairobi, in Kenya. Un tempo faceva il makausi (il ladro), fumando da mattina a sera il bangi (la marijuana locale) accompagnato dal pombe (un super alcolico distillato con mezzi rudimentali). Diceva sorridendo di aver cambiato vita, aiutando i poveri e cantando lodi a Dio, da quando i suoi genitori decisero di affidarlo alla Legio Mariae, conosciuta anche come Maria Legio Church, una delle innumerevoli Chiese indipendenti presenti nel suo Paese. Fondata da Gaudencia Aoko, meglio conosciuta come Mama Mtakatifu (Mamma Santa), la Legio Mariae, sviluppatasi fortemente negli anni Settanta, nacque in seguito a uno scisma dall’omonimo movimento cattolico introdotto negli anni Trenta dai missionari nella provincia keniana di Nyanza. Secondo i dati forniti dal database dell’African Independent Churches and Leaders, nel 2006 risultavano esserci circa 10 mila Chiese indipendenti presenti nel continente africano (altre fonti, oggi parlano addirittura di oltre 25 mila unità), sebbene risulti assai arduo monitorare questi movimenti religiosi. Sorte in gran parte dalla seconda metà xix secolo, le Chiese indipendenti hanno espresso, almeno originariamente, la necessità degli aderenti di rispondere a istanze di autonomia culturale e spirituale rispetto alle Chiese europee, se non addirittura di liberazione rispetto alla dominazione coloniale. La costituzione di queste comunità è, in ogni caso, un fenomeno in continua evoluzione nelle società autoctone. Una manifestazione tipica dello status religioso esercitato all’interno di queste Chiese indipendenti la si osserva nell’ambito delle guarigioni, non solo con la funzione di colmare il vuoto di assistenza sanitaria, ma anche in riferimento alla mancata integrazione della predicazione missionaria nelle culture africane. Se da una parte si evidenzia un mix di superstizione e sincretismo, dall’altra emerge, in molti casi, l’istanza di una inculturazione del Vangelo.

Oggi molte delle Chiese indipendenti vengono ascoltate e studiate nell’ambito ecumenico. Il loro modo originale di vivere la fede cristiana ha fatto sì che fossero denominate in tempi recenti come African Instituted Churches (Chiese istituite africane), a significare il fatto che la loro esistenza è legata all’iniziativa di fondatori o fondatrici africani. A questo riguardo non pochi teologi, come il tanzaniano Laurenti Magesa (autore tra l’altro di African Religion. The Moral Traditions of Abundant Life, che presenta e approfondisce la spiritualità africana), hanno stigmatizzato che gli stessi missionari, i quali per lungo tempo non hanno approvato la religiosità degli africani, sono stati costretti ad ammettere che è solo a partire da questa base che possono promuovere l’incarnazione del messaggio evangelico. Si tratta in sostanza di un patrimonio religioso di tutto rispetto che, all’interno e per mezzo della comunità autoctona, concorre alla promozione dell’individuo e all’armonia dell’universo. D’altronde, come rileva lo stesso Magesa, se si osservano attentamente le Chiese indipendenti, si può notare che per esse proprio la Rivelazione è un evento continuo e ricorrente, che si manifesta, oltre che attraverso le Scritture, tramite il sogno, l’estasi, la trance o specifici eventi quali, ad esempio, le calamità. Un’analisi comunque più approfondita obbliga a riconoscere che questi elementi sono solo la veste esteriore di una fede che rimane essenzialmente cristiana nei contenuti. Secondo la stragrande maggioranza degli studiosi di fenomenologia religiosa, infatti, è decisamente fuori luogo pensare che si tratti di una sorta di paganesimo mascherato. Non a caso il Consiglio mondiale delle Chiese ha auspicato un dialogo sereno con le Chiese indipendenti africane nella consapevolezza che il loro vero interesse è di rimuovere dal cristianesimo africano il marchio d’importazione rendendolo più incarnato nel contesto culturale locale. Va comunque rilevato che le Chiese indipendenti africane sorte in seguito al distacco dalla Chiesa cattolica sono una piccola percentuale rispetto alla maggioranza che proviene da esperienze di rottura con le altre confessioni cristiane di matrice occidentale. Occorre però anche precisare che non sempre le Chiese indipendenti possono essere considerate come il risultato finale di processi scismatici dalle grandi tradizioni cristiane come l’anglicanesimo o il protestantesimo più in generale. La Nigeria, ad esempio, che già nel 1970 contava oltre 700 Chiese indipendenti, ha dato vita tra gli altri a un gruppo di Chiese denominate Aladura (Degli oranti). Si tratta di comunità sorte spontaneamente, sotto la guida di leader locali, e non in seguito a veri e propri scismi dalle Chiese madri occidentali. Questo movimento religioso trae origine dal clima che venne a determinarsi nel Paese africano in seguito a una tremenda epidemia che devastò l’Africa occidentale nel 1818. Ritenendo le Chiese europee incapaci di far fronte all’emergenza sanitaria, molti cristiani appartenenti all’etnia yoruba incominciarono a formare gruppi spontanei di preghiera per imporre le mani sui malati. Da questo trend religioso scaturirono, ad esempio, la Chiesa dei cherubini e dei serafini (presente attualmente anche in Italia con una comunità di immigrati nigeriani nelle Marche), la Chiesa del Signore e la Chiesa apostolica di Cristo. Sebbene in epoca coloniale gli adepti delle Chiese di Aladura provenissero dai ceti meno abbienti (diseredati, malati e comunque gente senza istruzione), successivamente si verificò una graduale inversione di tendenza. Infatti, dagli anni Sessanta in poi, furono numerosi i membri delle élite politico-economiche che aderirono a queste nuove comunità autoctone.

Non v’è dubbio pertanto che la sporulazione di Chiese indipendenti in Africa, rappresenti da una parte un problema, trattandosi di una galassia fatta di innumerevoli realtà a sé stanti, ma anche una sfida per il cattolicesimo. Da rilevare che in questi ultimi anni, in molti Paesi del continente africano si sono diffuse anche altre comunità fautrici del pentecostalismo, provenienti da alcuni Paesi occidentali. Con il risultato che non poche Chiese indipendenti africane hanno ricevuto da queste entità religiose straniere cospicui finanziamenti, manifestando in alcuni casi atteggiamenti molto radicali, all’insegna del fondamentalismo religioso, con devianze, in alcuni casi, inquietanti. Visitando il Malawi, lo stesso san Giovanni Paolo II ebbe modo di dire: «Io vi lancio una sfida oggi, una sfida che consiste nel rigettare un modo di vivere che non corrisponde al meglio delle vostre tradizioni locali e della fede cristiana. (…) Guardate alle ricchezze delle vostre tradizioni, guardate alla fede che abbiamo celebrato in questa assemblea. Là voi troverete la vera libertà, là troverete il Cristo che vi condurrà alla verità». Un concetto, peraltro ribadito da Papa Francesco nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium laddove scrive che «È imperioso il bisogno di evangelizzare le culture per inculturare il Vangelo». Dunque, soprattutto in chiave ecumenica, la catechesi e più in generale la formazione delle comunità cristiane esige un rinnovato impegno nella conoscenza delle culture locali, troppo spesso, purtroppo, sottovalutate o addirittura ignorate. Ecco perché sarebbe un grave errore considerare le Chiese indipendenti africane quasi fossero la manifestazione di una spiritualità che sopravvive stancamente nel tempo. La fede di questi afro-cristiani è infatti segnata molto spesso da testimonianze di servizio ai poveri e agli ammalati che, se accolte nello Spirito, potrebbero edificare le nostre stesse comunità. La conversione di Alphonse, il ragazzo della Legio nella valle di Mattare la dice lunga.