Il progetto, come evidenziato in un nostro precedente articolo (https://ildomaniditalia.eu/roma-capitale-la-riforma-e-un-mostriciattolo/), non rappresenta una risposta concreta alle esigenze della capitale, bensì un esercizio di ingegneria istituzionale destinato a produrre confusione.

Finalmente s’è rotto il silenzio su Roma Capitale. È stato il prof. Sabino Cassese, ieri, con un editoriale ad ampio raggio sul Corriere della Sera (“La Camera e il Senato possono fare molto di più”) a suonare la squilla, individuando il risvolto negativo di questa specifica proposta di riforma. Ora, all’approccio superficiale di chi plaude solitamente a una novità purchessia, quale ne sia cioè il valore effettivo e l’impatto reale, si contrappone il commento del giurista abituato “a stare sul pezzo” dell’azione legislativa. Se non è una stroncatura, poco ci manca: le buone intenzioni, a una verifica oggettiva, spesso non trovano riscontro nei risultati.

Il progetto, in sostanza, non rappresenta una risposta concreta alle esigenze della capitale, bensì un esercizio di ingegneria istituzionale destinato a produrre confusione. La modifica dell’articolo 114 della Costituzione, secondo l’articolato che la commissione affari costituzionali della Camera dei deputati ha varato recentemente, suscita molte perplessità. Il testo, attualmente all’esame dell’Aula, attribuisce al Comune di Roma potestà legislativa (nell’ambito della cosiddetta legislazione concorrente, con esclusione della sanità), trasformandolo in una regione di rango inferiore. In pratica si tenta la strada dell’accomodamento – il classico compromesso abborracciato – rispetto alla tesi radicale della elevazione del Campidoglio al rango di regione tour court sul modello della città-stato presente nell’ordinamento tedesco (quindi…Roma come Berlino). 

In realtà, come insegna l’esperienza, ogni tentativo di trasposizione di un determinato modello istituzionale da un contesto a un altro porta in sé numerose possibili controindicazioni, non solo di carattere giuridico-formale. Incidono i fattori più disparati, dalla storia alle tradizioni locali ai retaggi politico-culturali, sicché diventa difficile se non impossibile conformarsi ad un’asciutta formula di trascrizione di sistemi e criteri normativi che pure, in ambienti istituzionali diversi, risultano validi e convincenti.     

Qual è, nel dettaglio, la critica di Cassese? “Nel corso del dibattito parlamentare – scrive – non si è valutato che Roma non soffre di un deficit di potestà normativa, ma di un deficit di capacità amministrativa; che le leggi non eviteranno ai romani di trovarsi i cinghiali sotto casa; che creare una mini regione romana ridurrà la regione Lazio a una ciambella o a un guscio vuoto, innescando una tensione permanente tra Città e regione; che l’aumento dei legislatori in Italia accresce lo sbriciolamento normativo di cui già soffriamo; che i problemi  di Roma derivano dall’essere la capitale, e che quindi vanno affrontati rafforzando i raccordi con lo Stato centrale”. E di seguito conclude, lapidariamente: “Insomma, a Roma non serve di poter dettare leggi, ma di connettersi meglio con le esigenze della capitale, cioè con la nazione, e di essere amministrata, non abbandonata a sé stessa, com’è oggi”.

C’à da augurarsi, a questo punto, che il Parlamento freni l’ansia pre-elettorale di fare comunque qualcosa, non importa se improduttiva o persino dannosa. Anche da ciò si vede la crisi dei partiti, dato che proprio i partiti dovrebbero assolvere alla funzione di controllo e valutazione delle scelte che vanno ad impattare sull’ordinamento dei pubblici poteri. Un certo “riformismo romantico”, incapace di selezionare ciò che serve veramente, rappresenta un motivo generale di indebolimento della proposta e dell’iniziativa delle forze che più si richiamano ai valori della politica democratica e riformatrice, dando di esse un’immagine deformata.