Fonte Servire L’Italia

Sono diverse le ragioni per esprimere gratitudine sincera a S. Ecc. Mons. Mario Toso per il saggio Cattolici e Politica, ormai giunto alla terza edizione. Innanzitutto, per l’atto di coraggio dimostrato. Il Nostro non ha temuto di intervenire, in questo nostro tempo, su un tema, scottante quanto pochi, quale è quello della presenza e dell’impegno dei cattolici italiani nella politica. In secondo luogo, per il taglio espositivo adottato: una prosa asciutta che nulla concede alla facile retorica e all’argomentazione pomposa. Ma non v’è dubbio che il pregio più rilevante di questo libro va rinvenuto nella tesi centrale che esso difende: esplicitare le cause profonde dell’irrilevanza dei cattolici nella politica italiana. È intorno a questa tesi che, in quel che segue, vado a sviluppare alcune considerazioni.

Una prima annotazione concerne la vexata quaestio della ratio dell’impegno politico dei Cattolici.

ovvio che in quanto cittadini, anche i cattolici, al pari di tutti gli altri, debbano partecipare alla cosa pubblica. Ma qui si vuole fare riferimento ad un coinvolgimento diretto e attivo alla vita democratica del paese. Ebbene, tre sono le opzioni che si danno alla considerazione e alla valutazione critica di chi intenda affrontare l’argomento.

La prima è quella che vede i cattolici dare vita ad un “partito di cattolici” – beninteso, non ad un partito cattolico. È stata questa la via battuta, nel recente passato, da Luigi Sturzo con il suo Partito Popolare e dopo la seconda guerra da Alcide De Gasperi e altri con la Democrazia Cristiana. Si tratta di un’opzione che ha avuto senso e che ha acquisito grandi meriti, ma che oggi, per una pluralità di ragioni, non è più proponibile, pur avendo costituito una necessità della storia. È dunque inutile parlarne. Meglio allora dirigere l’attenzione alle altre due opzioni. La seconda opzione sulla quale si sofferma Toso è bene resa dalla “teoria della diaspora”: i cattolici devono distribuirsi tra i vari schieramenti politici per contagiarli dall’interno. Ciò è quanto sancisce la metafora del lievito: al modo del lievito, i cattolici devono cercare di veicolare i valori e i principi di cui sono portatori nei programmi delle diverse piattaforme partitiche. Duplice la debolezza di una simile posizione. Per un verso, essa comporta che i cattolici si rassegnino ad essere minoranza ovunque essi si trovino inseriti e quindi accettino di scomparire politicamente, proprio come l’immagine del lievito lascia intendere. Col risultato che, poiché nei partiti democratici vige il principio di maggioranza, chi è minoranza mai potrà vedere accolte le proprie istanze, a meno di gesti compassionevoli o buonisti da parte della maggioranza. Bel paradosso, davvero! I cattolici entrano nei partiti per far avanzare un certo progetto politico che dice della loro identità, pur sapendo che mai riusciranno a far valere le loro ragioni.

Arrivo così alla terza opzione, quella che considero maggiormente funzionale rispetto alle pressanti esigenze del nostro paese nell’attuale momento storico. L’idea è quella dell’associazionismo politico: i cattolici italiani convergono su un ben definito progetto politico connotato da un insieme di punti qualificanti.

(1) Presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali

Ne cito alcuni: la vita della persona umana come bene intangibile; il superamento del modello binario Stato-Mercato a favore del modello ternario: Stato-Mercato-Società civile; l’affermazione della soggettività economica e sociale della famiglia fondata sul matrimonio; la tensione verso un’economia civile di mercato. Come noto, l’economia civile di mercato si differenzia sia dall’economia neoliberista di mercato, cara alle piattaforme di destra; sia dall’economia sociale di mercato, cara alle piattaforme di sinistra. L’economia civile di mercato è il nucleo duro della tradizione culturale cattolica in ambito socio-economico – come la recente Dottrina Sociale della Chiesa (=DSC) va riconoscendo – ma i cattolici italiani sono sempre andati a rimorchio o della tradizione liberale (cattolici-liberali) o della tradizione socialdemocratica (cattolici-democratici) . È così accaduto che per fare in modo che alcune loro richieste minimali venissero accolte, come la libertà di educazione, il principio di sussidiarietà circolare, il pluralismo delle forme di impresa, etc., i cattolici hanno dovuto accettare compromessi che hanno offuscato e annacquato la loro identità. Di qui la imperdonabile irrilevanza politica dei cattolici italiani nel corso dell’ultimo quarto di secolo. Ma è mai possibile – ci si deve chiedere – che il personalismo cristiano (di E. Mounier, J. Maritain e altri) non possa ambire ad essere riconosciuto nella sfera pubblica alla stessa stregua dell’individualismo e del comunitarismo? Quanto a dire, perché mai si continua a confondere laicità e laicismo?

Nessuna forza politica può imporsi a lungo se non è guidata da un pensiero pensante. Il solo pensiero calcolante non basta. Ricordiamo sempre il monito di J.M. Keynes: nel bene o nel male, sono le idee e non gli interessi a tracciare il corso della storia. In certe fasi storiche e per brevi periodi, la mancanza di pensiero pensante può essere surrogata dalla presenza di un leader carismatico che provvede alla bisogna. Ma a lungo andare, la leadership personale, per quanto autorevole, mai potrà sostituire la funzione svolta da una visione politica aperta al futuro. Mancando di quest’ultimo ed avendo abbandonato il pensiero forte del socialismo (nella versione sia libertaria sia marxista), la sinistra si trova oggi culturalmente acefala, priva di quelle strutture e categorie di pensiero che sole possono dare il senso dell’incedere, cioè la direzione di marcia. Si può infatti pensare di raccogliere le sfide poste dal dilagante fenomeno del riscaldamento planetario, dalle nuove migrazioni, dalla sicurezza cibernetica, dall’ampliamento delle disuguaglianze, dalla crisi della democrazia rappresentativa, dalla sempre più evidente deriva oligarchica dei mercato senza un coerente sistema di valori organizzati?

La conseguenza di tale mancanza è sotto gli occhi di tutti. Abbandonata la sponda del sociale, della solidarietà intergenerazionale, la sinistra è passata ad abbracciare le ragioni dell’individualismo assiologico, per timore di essere tacciata di rigurgiti collettivistici. La difesa dei diritti individuali – civili e politici – è così diventata la nuova frontiera della politica, ignorando però – e questo è stato un grave errore teorico – che è il personalismo e non già l’individualismo ad assicurare la “migliore” e più efficace difesa dei diritti individuali. Se ne sono visti i risultati (e la gente l’ha ormai capito): non si riesce a difendere i diritti a partire da posizioni deboliste che negano l’irriducibile relazionalità della persona. E ciò per l’ovvia ragione che il primo dei diritti è quello alla socialità e al riconoscimento reciproco (nel senso di Honneth). Togliere a coloro che desiderano impegnarsi in politica, e soprattutto ai giovani, la possibilità o quanto meno la prospettiva di battersi per realizzare un disegno istituzionale mirato alla felicità pubblica è stato il grave limite della sinistra, oltre che della destra.

accaduto così che, nel corso dell’ultimo quarto di secolo, si è andato affermando, nella prassi politica, il seguente dualismo: si applica il codice simbolico del bene totale quando ci si occupa di bioetica o di diritti individuali; si invoca invece il codice del bene comune quando si devono affrontare questioni come quella del lavoro o del nuovo welfare. Ma come si è potuto non capire che non si può essere seguaci di due logiche così diverse come sono quelle del bene totale (che è figlio dell’etica utilitarista) e del bene comune (che invece è figlio dell’etica delle virtù)? Non si può porre sullo stesso piano la ricerca dell’efficienza – che è certamente un valore – e la ricerca della giustizia e della libertà che sono valori di ordine superiore. Una efficienza non finalizzata alla giustizia e alla libertà diviene efficientismo e, alla lunga, degrada. Ecco perché, anche nel linguaggio corrente, si parla sempre di diritti civili e quasi mai di diritti sociali ed economici. I primi sono diritti negativi, che possono essere soddisfatti con la non interferenza; i secondi sono diritti positivi, che sempre implicano una qualche redistribuzione di risorse. Ci si può allora meravigliare se nel corso dell’ultimo trentennio la disuguaglianza di reddito e di ricchezza sono andate aumentando nel nostro paese?

Il messaggio forte che traluce dalla pagine del libro di Toso è che è giunto il tempo di piangere meno sui guasti di cui siamo quotidianamente testimoni e di pensare di più sui modi di ridisegnare quell’insieme di istituzioni economiche e finanziarie che sono le vere generatrici delle ingiustizie e delle tante forme di riduzione degli spazi di libertà della persona. Si pensi solo – non ho spazio per altri esempi importanti – al modo di funzionamento dell’apparato bancario-finanziario attuale: si finanziano i progetti di alcuni con i risparmi dei tanti, pur sapendo che non è moralmente accettabile che si trasferisca il rischio finanziario associato ai progetti dei pochi sulle spalle di quei soggetti che avevano affidato le loro risorse alle banche, con la convinzione che tale rischio fosse scongiurato. È perfettamente inutile che si argomenti che la creazione di istituti come le cartolarizzazioni – per finanziare progetti a lungo termine con risorse a breve termine – o che i vari tentativi, in gran parte riusciti, di trasformare gli stessi depositanti in investitori-speculatori, sulla base delle “garanzie” offerte dal mainstream economico, sono serviti ad accrescere l’efficienza generale del sistema. È inutile, perché il punto sollevato non è di natura tecnica – anche se parecchi sono stati gli errori tecnici commessi – ma di natura etica. Non tutto ciò che è tecnicamente possibile è eticamente lecito, a meno di accogliere la tesi nietzschiana del nihilismo morale. Ma allora bisogna avere il coraggio di dichiararlo nella sfera pubblica, il che non è mai accaduto.

Ho attribuito il nihilismo morale a Nietzsche, ma in verità esso va fatto risalire a Giuda. Gli evangelisti Marco, Matteo, Giovanni fanno derivare l’inizio del tradimento giudaico all’episodio dell’unzione di Gesù da parte di Maria nella casa di Lazzaro. Il preziosissimo olio profumato viene sparso sul corpo di Gesù, con il suo tacito consenso. I discepoli presenti sono così testimoni del fatto che Gesù è stato proclamato Messia di fronte a loro da una donna! (Messiah significa infatti unto). Tutti restano in qualche modo scandalizzati, ma solo Giuda ha il coraggio di prendere la parola. «Perché questo olio profumato non si è venduto per trecento denari per poi darli ai poveri»? (Gv 12,5). Ecco dove sta il vero pericolo della finanziarizzazione. Sollevando il «velo del denaro» di fronte ai discepoli, Giuda ottiene che questi «non vedano» più Gesù – che è la ricchezza reale – ma solo i trecento denari. E al pari di ogni intelligente speculatore finanziario – di ieri come di oggi – Giuda dichiara che il fine che lo muove è quello di aiutare i poveri. I quali – oltre che sfruttati – vengono anche strumentalizzati per coprire la perversità dei disegni dell’apostolo infedele.

L’avidità, la passione dell’avere ha questa capacità mimetica: spostare l’attenzione dalla vera ricchezza – la presenza di Gesù – alla illusoria prospettiva costituita dalle «altre alternative». È questo il nucleo duro del neo-machiavellismo, oggi.

I capitoli di questo breve, ma denso, saggio di Toso trattano da prospettive diverse, ma convergenti, quelle che sono le sfide che la DSC deve oggi saper raccogliere nei riguardi di quel nuovo modello di ordine sociale che è il capitalismo globale. Si tratta di contrastare l’avanzata della nuova legge di Gresham: l’etica cattiva scaccia dalle nostre società di mercato l’etica buona, perché i “cattivi”, pur non riuscendo a vincere sul lungo periodo, prosperano invece nel breve termine. Bisogna, allora, agire affinché durante la traversata dal breve al lungo periodo non accada che troppo alti siano i costi sociali che si vengono a determinare. Come? Intervenendo sul disegno delle istituzioni economiche e soprattutto finanziarie. Non basta affatto insistere – come taluno continua a credere, anche in ambito cattolico – sul comportamento virtuoso delle persone singole; oggi sappiamo, che occorre combattere contro le strutture di peccato, come le ha chiamate Giovanni Paolo II nella Sollicitudo Rei Socialis (1987). Si tratta, dunque, di operare perché questo avvenga, e in fretta. L’appello accorato che viene da queste pagine di Toso è come quella «voce» che costringe a sciogliere le cime e avventurarsi in mare aperto: solo così si può vincere la violenza conservatrice dell’esistente.

Ma per contribuire alla significatività e all’incidenza della presenza dei cattolici in politica bisogna prendere di petto due questioni: l’urgenza di elaborare una nuova cultura politica e una nuova progettualità.

Da qualche anno a questa parte il Magistero invita i cattolici a riprendere il cammino dell’impegno non solo nell’area del sociale, ma anche in quella della politica. Voglio portare alla vostra attenzione il discorso di papa Francesco sull’Osservatore Romano del 5 marzo 2019: «È necessaria una nuova presenza dei cattolici in politica». Il Papa, parlando ai giovani leader dell’America Latina, scrive «Essere cattolico nella politica non significa essere una recluta di qualche gruppo, organizzazione o partito». È una chiara presa di posizione contro la cosiddetta tesi della diaspora. È noto quello che è successo nel nostro paese con l’uscita di scena della DC. Fino a che c’era il partito dei cattolici si faceva cultura politica a livello sia centrale che locale. Da quell’estremo – partito unico dei cattolici

– si è passati all’estremo opposto, la diaspora: il suggerimento era che i cattolici dovessero inserirsi in più formazioni partitiche per vivificarle dall’interno. L’immagine – come già ricordato – fu quella del lievito che va a fermentare la massa di pasta. Oggi sappiamo che fu un errore oggettivo anche se soggettivamente venne fatto in piena buona fede. È evidente infatti che i cattolici possano anche dividersi in più formazioni politiche a patto che sia rispettata la condizione della massa critica, altrimenti è ovvio che saranno sempre ininfluenti. Il che è conseguenza del principio democratico di maggioranza.

E da quando è iniziata la diaspora, i cattolici hanno smesso di pensare, di generare cultura politica. Oggi ci troviamo con un vuoto di cultura politica preoccupante, mentre i vari partiti elaborano al loro interno le loro strategie, funzionali ai loro disegni di potere. Questo ci aiuta a capire l’insistenza da qualche anno a questa parte a riprendere un cammino.

Chiarisco. Parlo di cultura politica in senso proprio, non tanto di formazione politica (la formazione riguarda l’insegnamento o lo studio di quanto già esiste).

Cultura vuole dire produzione di pensiero. Se non siamo in grado di produrre un pensiero che, in linea con i principi fondativi della DSC, traduca in proposte concrete quello che quei principi dicono, la irrilevanza sarà garantita con le frustrazioni che interverranno e con le conseguenze pratiche di cui è dato conoscere. Mi piace ricordare una frase del domenicano Dominique Chenu (uno dei grandi padri conciliari): «Se il Vangelo non si fa politica, cessa di essere Vangelo». La religione cristiana è una religione incarnata nella storia. E la politica si occupa di ciò che accade nella storia.

Quando qualcuno fa discorsi del tipo «i cattolici devono stare fuori dalla politica» dimostra di non capire molto della specificità del Cristianesimo. Non si può dare forza all’errore, anche se l’errore è commesso in totale buona fede. L’ignoranza va combattuta. Dire che i cattolici non devono occuparsi di politica è un nonsenso, oltre che un errore. C’è un’altra frase molto importante del Card. John Henri Newman che mi piace citare. In un suo saggio di oltre un secolo fa scrive: «È venuto il tempo in cui i cattolici che vivono di fede, per essere tali, devono difendere la ragione. E proprio la ragione ci dice che è venuto il tempo in cui i cattolici, che vogliono vivere di più società, devono difendere la politica, però non la politica qualunque, ma quella della nostra convivenza civile».

Come darsi conto della irrilevanza dei cattolici in Italia sul fronte proprio della dimensione politica? Perché da un quarto di secolo a questa parte non si produce più una progettualità politica? Quale può essere un test? Basta andare in una biblioteca e confrontare la saggistica: quella fino alla metà degli anni 90 e quella posteriore, ed emergerà subito la sproporzione. I credenti cattolici oggi non si sentono più impegnati a produrre pensiero e ad avanzare progetti sul fronte politico. Certo abbiamo mantenuto le posizioni, anzi le abbiamo accresciute sul fronte del sociale, dalle Caritas alle Cooperative sociali, dal volontariato all’associazionismo di promozione sociale e dobbiamo continuare, però il sociale ha un senso soltanto se il contesto della politica è orientato in una certa direzione. Un esempio concreto? Per avere trascurato il livello della politica, cosa sta succedendo per quanto concerne l’attuazione della legge di riforma del Terzo Settore? L’attuale governo sta boicottando di fatto il Terzo Settore, minacciando un giorno dopo l’altro di ritirare questo o quel provvedimento e nel suo insieme il mondo cattolico è rimasto silente. Solo Avvenire, negli ultimi due mesi, ha aperto un efficace dibattito per denunciare il fatto.

Si pensi al tentativo di raddoppiare l’IRES, per fortuna rientrato. È rientrato perché con coraggio si sono messe in moto alcune persone. È mancata la protesta civile. La legge di riforma del Terzo settore è stata approvata il 2 agosto 2017. Sono passati quasi due anni e ancora non può dispiegare appieno i propri effetti perché una legge ha sempre bisogno dei decreti attuativi e l’attuale governo ne ritarda l’emanazione pur essendo già pronti e già scritti.

Come il pendolo di Foucault ci ha insegnato, sappiamo dalla storia che si tende a passare da un estremo all’altro. Tra il dire «tutti i cattolici nello stesso partito» e dire «i cattolici vadano dove vogliono», c’è una via intermedia. Perché non la si vuole perseguire? Nelle condizioni storiche attuali

inutile pensare di ritornare al partito unico dei cattolici, però da qui a dire che non ci può essere convergenza a livello di cultura e prassi politica tra le varie espressioni e anime del mondo cattolico italiano, ce ne corre.

Ebbene l’iniziativa di riprendere il cammino, tornare ad elaborare un pensiero pensante in ambito politico, trae ispirazione da questo fatto: creare una convergenza tra le diverse espressioni del mondo cattolico su un progetto politico trasformazionale. Quando si vivono tempi normali la strategia che si raccomanda è quella delle riforme; quando si vivono epoche straordinarie come quella attuale, le riforme servono molto a poco, perché quel che occorre fare è cambiare interi pezzi della macchina, e non già aggiustarla qua e là per tamponarne le falle.

Si tratta di cambiare quei blocchi che all’interno della società impediscono una evoluzione verso quella prospettiva che la DSC chiama del bene comune ovvero della prosperità inclusiva. Noi siamo sicuramente per la prosperità, ma per una prosperità che includa tutti e non solo alcuni come attualmente sta avvenendo.

Perché viviamo in una fase straordinaria? L’attuale fase richiama alla mente quella che si realizzò al tempo del passaggio dal feudalesimo all’umanesimo. Il XV secolo è quello che vede nascere la società moderna. Dovremmo andare a rileggere alcune pagine importanti di quel periodo. I cattolici di allora presero il coraggio a due mani e si misero a produrre cultura politica (e quale cultura politica!) con una profondità che è rimasta celebre. Si pensi al contributo del pensiero francescano e della prima e seconda Scolastica. Gli umanisti civili dell’epoca, di fronte alla trasformazione straordinaria (stava per nascere l’economia di mercato), mentre continuavano ad occuparsi del sociale, ad interessarsi degli ultimi (ospedali, scuole ecc.), capirono che era necessario trovare una strategia che indirizzasse la gente verso una prospettiva di sviluppo umano integrale.

Oggi dobbiamo fare un’operazione analoga, ovviamente in un contesto completamente diverso, quello del passaggio dalla modernità alla postmodernità, caratterizzata da fenomeni di portata epocale come la globalizzazione, la finanziarizzazione dell’economia e soprattutto la quarta rivoluzione industriale iniziata nel 2001 con il progetto delle tecnologie convergenti, (quelle che risultano dalla combinazione sinergica delle nanotecnologie, biotecnologie, dell’intelligenza artificiale e delle neuro scienze, in acronimo NBIC). La globalizzazione di per sé è un fatto positivo. Perché allora ha creato problemi? Perché si è lasciato che la globalizzazione diventasse globalismo, cioè una ideologia e le ideologie in economia sono spesso più pericolose che in politica. Se non fosse intervenuto papa Francesco con documenti magisteriali come l’Esortazione apostolica Evangelii Gaudium, l’Enciclica Laudato sì’, e altri ancora che hanno scandagliato le cause profonde del malessere da tutti avvertito, saremmo ancora a descrivere e a lamentarci degli effetti provocati da quelle cause. Mi piace ricordare che la proposta della strategia trasformazionale è stata lanciata proprio da papa Francesco fin all’inizio del suo pontificato.

C’è una seconda ragione strutturale che vale a farci comprendere le difficoltà dell’attuale momento storico nel mondo cattolico. Nel corso dell’ultimo Cinquantennio è iniziata la seconda secolarizzazione. La prima secolarizzazione fu quella che si impose dopo la rivoluzione francese. Max Weber, grande sociologo tedesco, ha scritto pagine indimenticabili sulla prima secolarizzazione, connotata dall’aforisma che dice: Etsi Deus non daretur. Il principio di laicità, formulato per primo da Gesù di Nazaret, venne stravolto nel principio di laicismo dalla rivoluzione francese: nella sfera pubblica bisogna comportarsi come se Dio non esistesse. Lo slogan della seconda secolarizzazione invece è: Etsi communitas non daretur (comportarsi come se la comunità non esistesse).

Questo ci aiuta a capire le difficoltà odierne. Comunità è sempre stata una delle parole più usate nel lessico del mondo cattolico ma oggi raramente si sente parlare di comunità. La seconda secolarizzazione ha spostato il fuoco dell’attenzione dall’individuo alla persona. Lo slogan odierno è voglio dunque sono. Volo, ergo sum. Cioè io sono ciò che voglio. In un contesto culturale di questo tipo andare a parlare di una prospettiva comunitaria (si pensi a E. Mounier e alla sua “Rivoluzione personalista e comunitaria”) è andare contro vento. Tutto questo è accaduto senza che il mondo cattolico abbia preso una qualche posizione di contrasto nei confronti dell’individualismo libertario che nasce in America negli anni 60. L’individualismo libertario è una filosofia di vita. Se non trova sul suo cammino una controproposta altrettanto forte è chiaro che dilaghi. Si badi, però, a non confondere il principio comunitario con il comunitarismo. Dobbiamo tornare a riconcettualizzare la nozione di comunità senza scadere nell’opposto estremismo che è quello del comunitarismo. Abbiamo alle spalle il ’68, una soluzione forse peggiore del male che quel movimento voleva estirpare, perché si muoveva nella direzione del comunitarismo. La comunità in senso proprio esiste se riesce a conciliare la libertà del singolo con il suo bisogno irrefrenabile di relazionarsi con gli altri. È su questo che il mondo cattolico in Italia è deficitario perché non parla quasi mai di queste cose.

La caduta di rilevanza dei corpi intermedi è la precisa conseguenza dell’individualismo libertario. Quando questo avviene la democrazia non è più tale. La democrazia non può fare a meno dei corpi intermedi, ma questi stanno assieme soltanto se c’è un cemento, soltanto se riconosco che tu sei essenziale per il mio io. Ecco perché emerge il populismo che è la posizione filosofico-politica che afferma che la verità è depositata dentro il popolo. Per il populismo il popolo non è una categoria sociologica o politologica, è una categoria morale. E se la verità è dentro il popolo chi la fa partorire
il leader, cioè il capo-popolo. Perché il populismo è pericoloso? Non ci sarebbe nulla di male nel dire «noi ascoltiamo il popolo», ma non è questa l’essenza del populismo, che invece afferma che il principio di verità risiede nel popolo, cosa non vera. Nel momento in cui io ragiono in questi termini preparo la via a forme di totalitarismo più o meno velate in cui è il leader che sa «estrarre» dal popolo la verità, e quindi è il leader cui bisogna dare tutti i poteri.

Sono dell’idea che, se vogliamo ottenere il consenso anche da parte di chi non è credente, dobbiamo avanzare un progetto di trasformazione della realtà esistente. Questo vuole dire accogliere la prospettiva del medio e lungo termine.

Quali potrebbero essere i pilastri di un possibile progetto di trasformazione come sopra suggerito? Ne indico alcuni, quelli che a me paiono i più urgenti e più qualificanti.

a) Bisogna essere chiari sul principio che la nostra concezione della politica è non demofobica, come invece accade di constatare nella politica corrente, che tende a sbarazzarsi dei corpi intermedi della società. Sia che si parli di democrazia diretta o di deregolamentazione dei corpi intermedi o di disintermediazione nei confronti del sindacato, alla base c’è soprattutto un elemento comune: la politica non ha bisogno dei corpi intermedi. Su questo dobbiamo avanzare una controproposta e mostrare che una politica demofobica è contraria al principio democratico autentico, come già Aristotele insegnava. Concretamente, ciò implica prendere posizione a favore del modello tripolare di ordine sociale basato su Stato, Mercato e Comunità. Il modello bipolare Stato-Mercato è ormai definitivamente obsoleto e non più all’altezza delle sfide in atto. Solo così si potranno dare ali robuste al principio di sussidiarietà.

b) Il secondo punto riguarda il cosiddetto modello di welfare. Bisogna prendere posizione al riguardo. Il welfare state è stato una grande conquista di civiltà. È nato in Inghilterra con il contributo di Keynes durante il tempo di guerra, e approvato a Londra nel 1942. Bisogna, però, fare attenzione a non confondere il welfare state come modello di ordine sociale, alternativo al welfare capitalism nato negli USA nel 1919, con singoli provvedimenti di welfare che già erano stati introdotti nell’800 in Germania e altrove. Occorre capire che oggi, a seguito di quel passaggio epocale di cui abbiamo parlato, il modello di welfare state non è in grado di conseguire gli scopi per cui è nato. Il mondo cattolico non ha niente da dire su questo, vedendo le aporie che genera? Come possiamo accontentarci di “mettere le pezze” su un welfare paternalistico-risarcitorio? Si può andare avanti così ad offendere la dignità delle persone elargendo loro elemosine variamente denominate? C’è una famosa frase dei francescani che circolava già nel 1300: «L’elemosina aiuta a sopravvivere ma non a vivere. Perché vivere è produrre e l’elemosina non aiuta a produrre». Ecco perché i francescani creano le prime banche (i Monti di Pietà), i Monti del Matrimonio, la contabilità d’azienda e così via. È chiaro che le emergenze vadano gestite ma non può essere questa la risposta. Noi dobbiamo proporre un modello di welfare universalistico di comunità, che risponda alle inadeguatezze e alle insufficienze del tradizionale modello di welfare state. Welfare state vuole dire che è lo stato che deve prendersi cura dei suoi cittadini dalla culla alla bara. Nel momento in cui si dice che è lo stato che si deve prendere cura dei cittadini, cosa resta da fare alla comunità? In positivo dobbiamo offrire un altro modello. Oggi il termine che viene usato è welfare di comunità, ossia un welfare generativo.

c) Il terzo punto riguarda la questione propriamente economica. Qual è il modello di economia di mercato che vogliamo proporre agli altri e su cui chiedere il consenso a tutti? Possiamo andare avanti con un modello di economia in cui tutto si riduce a scambio e non anche a reciprocità? Il principio di reciprocità è tipico del cristianesimo. Nessun’altra religione ha questo principio perché tra l’umano e il divino c’è un rapporto di reciprocità. Gesù ha fatto il dono di se stesso, non il regalo. La salvezza ci è offerta come dono, ma sta a noi accettarla o no. Cosa vuole dire accettare il dono? Che dobbiamo fare qualcosa, mentre il regalo ricevuto non mi chiede di fare nulla. E questo vale anche per l’economia.

Per troppo tempo i cattolici sono stati al carro degli statalisti. Un errore tragico fatto in buona fede. Dobbiamo trasformare il sistema fiscale perché esso colpisce soprattutto il lavoro, il salario e il profitto, mentre non colpisce adeguatamente la rendita. Invece un vero sistema fiscale deve colpire la rendita parassitaria, a cominciare da quella finanziaria. Del pari deve entrare nel sistema fiscale il quoziente familiare. L’errore fatto dalla DC è che non è stata capace in tanti anni di governo di introdurre nel sistema fiscale il quoziente familiare. La Francia laica lo ha introdotto nel 1945 e da allora non l’ha mai cambiato: oggi in Francia il tasso di natalità è 2.4, mentre noi abbiamo il tasso a 1.3. Bisogna avere il coraggio di ammettere che abbiamo sbagliato.

Occorre prendere posizione sul modello di sviluppo economico che vogliamo favorire, evitando sia il neoliberismo sia il neostatalismo. Il mondo cattolico non può scivolare ora sull’una ora sull’altra sponda. Possibile che non possiamo proporre una nostra convincente ricetta basata sul paradigma dell’economia civile? L’economia civile nasce entro l’alveo culturale cattolico nel 1753, ma poi si è andati a rimorchio del pensiero protestante calvinista. Riappropriarsi di queste radici è molto importante.

d) Un altro punto riguarda la scelta tra neoumanesimo e transumanesimo. La quarta rivoluzione industriale sta cambiando il modello culturale di fondo. In California è nata l’Università della Singolarità, dove viene portato avanti il progetto transumanista. Dicono che la macchina (intelligenza artificiale) sostituirà completamente l’umano, andando oltre l’umano. Non solo, ma sostengono anche che ormai l’intelligenza artificiale è acquisita e che il prossimo stadio sarà quello della coscienza artificiale. Ciò che ancora separa l’umano dalla macchina è la coscienza, perché sul piano delle cose da fare i robot di terza generazione sono già più bravi di noi. E pensano di arrivare a creare una macchina dotata di coscienza artificiale entro il 2050. In ogni caso il danno lo stanno già facendo. Perché vi sono tanti filosofi che stanno andando dietro al progetto transumanista, ponendo in discussione il concetto di natura umana e così facendo minano gli stessi fondamenti della nostra fede. La posizione opposta al transumanesimo è il neoumanesimo. Noi da che parte vogliamo stare? «Dalla parte del neoumanesimo»? Ma bisogna che cominciamo ad attrezzarci per la bisogna. Su questo piano siamo terribilmente in ritardo. Pensiamo al lavoro che teologi, sociologi, economisti, filosofi, giuristi sono chiamati a fare. Le applicazioni sono in diversi ambiti. Una posizione bisogna che la prendiamo. Ad es., con l’ingresso delle nuove tecnologie, quale sarà l’impatto sul lavoro? Questo ingresso creerà nuove forme di disoccupazione. Bisogna che ci poniamo il problema di come, pur non contestando l’avanzamento tecnologico, ci prendiamo cura delle conseguenze indesiderate. Se non lo facciamo noi, chi lo fa?

e) L’ultimo punto è quello che riguarda la geopolitica: possiamo andare avanti a stare a rimorchio dei nazionalisti o dei sovranisti? Possiamo andare avanti a buttare all’aria il concetto di nazione? Non possiamo abbandonare ai sovranisti la nazionalità, la patria;

non possiamo liberarcene perché la nazionalità dice dell’identità di un popolo, ma l’identità degenera quando scade nel nazionalismo. Come si sa, due sono le nozioni di identità: c’è l’identità intesa come processo e l’identità come patrimonio acquisito dal passato. In questo secondo caso l’identità è mera conservazione di quanto la tradizione ha trasmesso, e questo è sempre pericoloso. L’identità vera invece è un processo dialogico con il quale io rapportandomi con altri, con altre culture, con altre religioni vado a riscoprire la mia radice e la metto a confronto con quella degli altri senza però identificarmi con quella dell’altro, né demonizzare l’identità dell’altro. Abbiamo bisogno di affermare questa nozione di identità, perché diversamente il rischio, come peraltro sta avvenendo, è che l’identità intesa nell’altro senso si trasformi in sovranismo, la cui radice profonda sta nel dire “noi siamo noi” perché abbiamo la nostra storia alle spalle e dobbiamo proteggerci dall’invasione di altre culture, di altre religioni e così via.

Su questo fronte dobbiamo ammettere che siamo terribilmente indietro. Da una parte abbiamo sviluppato una politica dell’accoglienza di tutto rispetto, veramente notevole, dall’altra però non abbiamo ancora una strategia dell’integrazione. La gente confonde l’accoglienza con l’integrazione. Il punto è che per proporre un modello di integrazione bisogna decidersi e farlo con attenzione, perché oggi ad esempio il modello di integrazione del multiculturalismo è ampiamente superato così come è superato il modello assimilazionista. Cosa proponiamo in alternativa? Occorre elaborare il modello del dialogo interculturale basato sulla distinzione tra ciò che non è accettabile, ciò che può essere tollerato, ciò che può essere rispettato, ciò che può essere condiviso.

Nei confronti di richieste che vengono da portatori di altre culture, io che voglio mantenere la mia identità cristiana, devo sapere ciò che posso tollerare e ciò che non posso tollerare, ciò che posso rispettare e ciò che posso condividere. Se non ci adoperiamo per questo lavoro, la nostra gente e soprattutto le nostre associazioni, che fanno un mondo di bene, rimangono disorientate, perché finita la fase emergenziale dell’accoglienza non sono poi in grado di avviare progetti e realizzazioni pratiche per attuare un’autentica integrazione.