Articolo pubblicato dall’Osservatore Romano a firma di Marco Testi

Talvolta capita che il libro divenga debitore dello schermo: è accaduto per Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, balzato all’attenzione del lettore comune per la sontuosità del film di Visconti nel 1963, o a un romanzo iniziatico e misterioso, che diventò, nonostante l’accanita ma vana opposizione dell’autrice, Pamela Lyndon Travers (pseudonimo di Helen Lyndon Goff) il celeberrimo Mary Poppins, targato Disney. È capitato anche al Padre Brown di Gilbert Keith Chesterton, trasformato in Italia in una vera e propria icona televisiva nel corso delle sei puntate che la Rai — a quel tempo ancora generalista — mandò in onda tra il 1970 e il 1971, complice l’accattivante interpretazione di Renato Rascel. L’altro Chesterton, abissalmente attratto dai grandi enigmi della storia dell’uomo, rimase in ombra. Ingiustamente, perché un suo romanzo, più volte tradotto da noi, L’uomo che fu giovedì («The man who was Thursday — a nightmare»), pubblicato nel 1908, prima quindi della serie di Padre Brown, è di una straordinaria importanza per capire il dibattito culturale in quegli anni: il positivismo sembrava aver esalato l’ultimo respiro lasciando la scena all’irrazionalismo e all’estetismo, che si apprestavano — anch’essi limitatamente alle intenzioni, prima di scomparire a loro volta — a scavare la fossa alla religione come dogma e come sentimento popolare, propugnando una raffinata, dotta, estenuata spiritualità, contro la supposta grettezza degli altri, e questi altri erano anche e soprattutto il prete, il credente, il “borghese”.

L’uomo che fu giovedì è la storia della resistenza contro il materialismo e la disperazione; lo scrittore londinese aveva capito a cosa potevano portare lo scientismo radicale, lo scetticismo a tutti i costi, quello sì davvero borghese, l’ironia divoratrice su ogni cosa: «Una nube pesava sulla mente degli uomini, e gemendo passava il vento: sì, una nube malaticcia sull’anima, quando eravamo giovani tutti e due».
Il pensiero moderno rischiava di portare all’ubbidienza mediatica, come genialmente Chesterton aveva profetizzato nel suo primo romanzo, Il Napoleone di Nothing Hill («The Napoleon of Nothing Hill», 1904): «I saccenti scrivevano libri su come i treni sarebbero diventati più rapidi e tutto il mondo sarebbe diventato un unico impero… è molto più probabile che andremo di nuovo alle crociate o adoreremo gli dei della città».
Il protagonista di L’uomo che fu giovedì è Syme, un giovane poliziotto che per combattere l’anarchia, si infiltra in un cenacolo di terroristi che si identificano con i nomi dei giorni della settimana. Il capo dell’organizzazione è lo spaventevole, innominabile, — a detta dei suoi stessi seguaci — Domenica.

Piano piano, dalla solitudine più tetra, allegoria chestertoniana di quella del cristiano nel nuovo secolo, e, risalendo alle origini, di Gesù nella passione, Syme passa al conforto di sapere che quasi tutti gli altri si sono infiltrati nel gruppo per combattere la battaglia contro la morte spirituale e il disordine.
Alla fine Domenica sembra essere in difficoltà, ma riesce a sfuggire alla caccia dei finti anarchici, anzi, fa in modo di farsi inseguire fin dentro un giardino, dove essi vengono paradossalmente accolti, rifocillati, lavati e preparati per un banchetto, imbandito da colui che sembrava il male personificato.

Egli ha fatto sì che essi potessero finalmente rispondere all’unico vero anarchico della compagnia, il giovane Gregory, ribattendo l’accusa che il “borghese” (sui limiti prospettici di questa definizione abbiamo avvertito il lettore) non soffre e non conosce la disperazione degli ultimi: «Io non vi maledico perché siete crudeli: io vi maledico perché siete sicuri!». I difensori della cittadella cristiana assediata gli rispondono che egli mente: hanno sofferto, arrivando anzi a bere il calice del Cristo che nel Getsemani sente di essere solo e abbandonato: «Nessuna sofferenza può essere troppo grande, per comprarci il diritto di dire a costui che ci accusa: “Abbiamo sofferto anche noi”».
L’uomo che fu giovedì è un libro per certi versi anti-moderno, nel senso di un coraggioso opporsi ai tempi in cui la morte e l’oscurità vengono proclamati nuovi (e disperati) dèi, poiché pochi sembrano avere il coraggio di riscoprire, anche nella polvere delle sacrestie, la pace di Dio.

Chesterton in realtà amava andare controcorrente, e ogni tanto si divertiva a lanciare frecciate contro i nuovi miti, soprattutto quelli languidamente estetizzanti, quelli superomistici o dediti al pessimismo: «Ibsen parlando di una nuova generazione che bussa alla porta, certamente non pensava che si trattasse della porta di chiesa» scrisse sarcasticamente una volta. Soprattutto in Uomovivo (Manalive, 1912) egli si prende gioco del conformismo intellettual-progressista narrando una sorta di processo a un uomo che è considerato dai veri perbenisti (quelli passivamente adeguati ai tempi) un criminale ed è invece l’unico che ha riscoperto la bellezza del matrimonio. Smith (si noti la non casualità del cognome usuale, comune, “borghese”) torna a casa sua dopo lunghe assenze passando per il camino e corteggia, dopo anni di matrimonio, la propria moglie perché vuole riscoprire la felicità di una casa e di un amore, tentando la resistenza contro la, questa sì, borghese tentazione della noia e dell’insoddisfazione: «Io sono uno che ha abbandonato casa sua perché non poteva più sopportare di starvi lontano».

I tic di una borghesia assoggettata ai pensieri dominanti senza averne davvero coscienza sono narrati anche in un altro romanzo da noi pressoché sconosciuto: L’osteria volante («The flyng inn», 1914), dove il relativismo, il materialismo, la ricerca di nuove dimensioni — in realtà emozioni — religiose, dimenticando praticamente di averle dentro casa, portano ad altre servitù religiose e politiche, benvenute in quanto esotiche. Come si vede, lo sguardo di Chesterton investe tutta la dimensione umana, anche quella dell’amore: anzi, qui riesce a dare con tratti semplici e commossi il senso della vera bellezza nascosta nella pacificazione con il tutto attraverso l’immagine femminile, con un tocco figurativo che richiama l’incanto della grazia preraffaellita, immersa nel giardino ritrovato. Il suo eroe, il proletario, umile e sensibile Syme «vide la sorella di Gregory, la ragazza dalle chiome d’oro rosso, che recideva lillà prima di colazione, con la sua inconsapevole gravità di fanciulla».