Chi sono i padroni della finanza mondiale

Il sociologo Pino Arlacchi presenta il suo nuovo libro lanciando un appello: "L'Europa torni alle proprie radici"

Articolo già apparso sulle pagine della rivista Interris a firma di Federico Cenci

o stato di sfiducia del cittadino medio europeo nei confronti della finanza sta toccando in questa fase storica vette mai raggiunte prima. Diversi sono i segnali che lo dimostrano, a cominciare dalla formidabile crescita di consenso, che si registra qua e là in tutti i Paesi dell’Unione europea, dei movimenti cosiddetti populisti ed euroscettici. Ma la finanza costituisce davvero una sorta di feroce Cerbero che minaccia i popoli o si tratta di una percezione alterata della realtà? Una risposta la offre il libro “I padroni della finanza mondiale – Lo strapotere che ci minaccia e i contromovimenti che lo combattono” (ed. Chiarelettere – 2018), scritto dal sociologo e già eurodeputato, nonché esperto di organizzazioni criminali Pino Arlacchi. Calabrese di Gioia Tauro, sottosegretario generale all’Onu dal ’97 al 2002, egli ritiene che “l’attuale sistema finanziario ultraglobalizzato” è “la minaccia più grave che incombe sul pianeta” e punta il dito nei confronti delle agenzie di rating americane, “le quali – afferma – perseguono interessi di privati”. Da parlamentare europeo fu tra i firmatari di una proposta per chiedere la riforma di queste agenzie rendendole pubbliche ed europee. In Terris lo ha intervistato a margine di una presentazione del volume avvenuta a Roma.

Dott. Arlacchi, chi sono i padroni della finanza mondiale?
“Si tratta di un concerto di poteri che ha il suo centro a Wall Street con delle depandance in Europa, nella Commissione europea, nelle principali banche d’investimento e nella city di Londra”.

Quando è nato questo dominio della finanza?
“È un processo graduale, iniziato negli anni ’70, quando la finanza ha smesso di servire l’industria, ed è proseguito espandendosi negli anni ’80 e ’90 con una serie di misure di deregolazione, liberalizzazioni, privatizzazioni, che hanno dato un grande spazio alla finanza privata che prima non c’era. È così che la finanza, anziché servire lo sviluppo economico di un Paese, è diventata la padrona dello sviluppo e questo fatto ha finito per uccidere lo sviluppo stesso”.

Quali sono state le cause di questa espansione liberista?
“Ci sono due cause. Ce n’è una immediata: la controrivoluzione liberista lanciata da Reagan negli Usa e dalla Thatcher in Gran Bretagna, come risposta alla crisi degli anni ’70. E ce n’è una nel lungo periodo: lo sviluppo naturale di questo ciclo del capitalismo, che vede il declino della potenza egemone statunitense e la nascita di nuove potenze”.

Prima ha parlato della Commissione europea come “depandance” del centro di potere finanziario che si trova negli Stati Uniti…
“È così. Sono stato eurodeputato per cinque anni e ho visto il diverso trattamento che hanno i temi economici e finanziari rispetto agli altri temi dell’agenda del Parlamento europeo, della Commissione e del Consiglio. E soprattutto ho visto che tipo di trattamento. Un esempio? Con l’estensione oltre i confini americani delle sanzioni a Teheran, è stato impedito alle imprese europee di intervenire nel mercato iraniano: siccome l’Iran non è integrato nel sistema finanziario degli Usa, l’apertura di un immenso campo d’investimenti all’industria europea avrebbe danneggiato la potenza egemone. Una prova più concreto dello strapotere finanziario non riesco a trovarla”.

Come valuta le dichiarazioni di Juncker di ieri sulla crisi greca e sulle misure d’austerità: un “mea culpa”?
“Ogni volta che si ottiene il proprio risultato, si fa questa professione di rammarico, che però non serve a nulla. Indietro non si torna, il risultato è stato ottenuto a costo di una vera e propria ‘tragedia greca’ che viene indicata come modello per gli altri Paesi dell’Unione”.

Nel suo libro indica come paradigma da seguire l’economia cinese…
“Non solo la Cina, ma anche altri Paesi dell’Asia come il Giappone e l’India, hanno dimostrato che si può crescere a tassi altissimi, ridurre la povertà, creare occupazione reale attraverso una economia sociale di mercato”.

Esistono però diverse contraddizioni in Cina, a cominciare dai diritti dei lavoratori…
“In Cina vado ogni anno da quasi vent’anni: conosco molto bene la traiettoria di sviluppo della Cina moderna e posso affermare che si tratta di un falso mito. I salari medi di un lavoratore cinese sono oggi più o meno uguali a quelli di un lavoratore portoghese, con un sistema di prezzi più basso e con un sistema di tutele maggiore. Chi fa queste affermazioni non conosce la Cina attuale, dove si è registrato un aumento del ceto medio e, nel giro di 25 anni, un aumento del reddito pro capite di 40 volte. Risultati ottenuti perché c’è stata una gestione efficace dell’economia, che consiste nello Stato che dirige il mercato e non viceversa; nell’industria che gestisce la finanza e non viceversa. Questo accadeva anche in Italia prima dell’ondata neoliberista degli anni ’70, quando infatti c’è stato il miracolo economico del dopoguerra: a quei tempi era il Governo che creava le infrastrutture giuste, necessarie per lo sviluppo economico. Dall’attuale stagnazione economica non potremo uscire finché non guarderemo al passato o finché non prenderemo esempio dall’Asia”.

Così può rinascere l’Europa?
“Esatto. Ma per farlo deve prima di tutto abbandonare l’idea – che tanto ha affascinato nel corso degli anni – degli Stati Uniti d’Europa, ovvero che, sull’esempio degli Usa, bisogna mettere insieme una serie di servizi e istituzioni con un grande centro federale a Bruxelles. Piuttosto, ritengo che la crisi dovrebbe suggerirci un modello diverso, di un’Europa più flessibile, che tenga conto delle diversità economiche dei vari Stati europei, che rispecchia anche il mosaico europeo composto da tante culture. Gli Stati Uniti sono nati distruggendo le culture che c’erano prima, l’Europa invece è nata sulla base di duemila anni di sviluppo locale, e tutto ciò non si può abolire per inseguire un modello non nostro”.

Una riappropriazione delle identità che è spesso il cavallo di battaglia dei movimenti cosiddetti populisti che stanno prendendo piede in Europa…
“Alcune istanze di certi movimenti rappresentano degli spunti di riflessione di cui tener conto, però non possiamo distruggere il sistema europeo, la moneta unica, sulla base di una visione nazionalistica: ciò sarebbe deleterio. Questo sistema va rifondato, tornando alle radici, con una Banca centrale che contribuisce allo sviluppo economico e non si occupa solo della stabilità dei prezzi; tornando al Trattato di Roma che a differenza di quello di Maastricht non parla solo di mercato e di finanza. Bisogna guardare ai padri fondatori, i quali ritenevano l’Europa non solo un’entità geografica, ma uno spirito”.