Nel suo articolo di ieri su “Il Domani d’Italia” Bonanni enumera i tantissimi punti di eccellenza (mondiale) dell’offerta turistica dell’Italia. Comunque bisognerebbe armonizzare quella che alla fine viene sempre presentata come una pezza nobile, splendente e vantaggiosissima nel tessuto sfilacciato del Paese, con i possessori di questo patrimonio (si usa dire ‘giacimenti culturali’ ecc, ma al momento tralasciamo), ovvero le aree locali, le comunità locali. Ma Giovanni Teneggi (competenze indiscutibili) dice che nei territori le comunità non ci sono più, e quindi quando si dice ‘comunità locale’ si dice un auspicio oppure si parla di Sindaco e Giunta; ma non c’è tant’altro, al momento.
Eppure i beni culturali – la sostanza dell’offerta turistica – sono welfare, perché se il turismo non ritorna come ‘qualità della vita’ per gli abitanti di un territorio (e non vacanze di gitanti) non avremo la svolta che serve nel dopo-Covid.

Dato che stiamo curando con diversi stakeholders il Processo Appennino, ovvero come non lasciare i piccoli Comuni collinari e montani italiani nella marginalità (niente trasporti, niente infrastrutture, niente intraprendenza) per dieci mesi e invasi da turisti (turisti?) e villeggianti per due mesi, si vede in maniera lampante che l’offerta o proviene da nuove comunità che decidono di ri-abitare i luoghi con le nuove generazioni oppure sarà sempre roba ministeriale.

Va bene il “piano strategico nazionale capace di scavalcare in un sol salto il groviglio di lacci che immobilizza questo settore” di cui dice Bonanni, ma prima – e non dopo – bisogna mettere mano al processo riabitativo della provincia italiana, in cui il vero e primo fruitore del proprio patrimonio è la rinnovata comunità locale. Sembra più un precesso, insomma, alla Ventotene di Silvia Costa, dove ci si accolla la ristrutturazione dell’ex carcere di Santo Stefano per ri – disegnare tutto il territorio di domani.

Qui se ne è parlato il 12 Aprile; in Confartigianato ne stiamo parlando con Filippo Barbera, Teneggi ed altri, vediamo un po’. Non fosse altro che per evitare che gli stessi tipici manufatti locali siano espressione di nicchie imprenditoriali da dove i giovani del posto non vogliono più passare.

Ma su una cosa non c’è più dubbio: non basta che tornino a riempirsi le casse di alberghi, ristoranti e musei; va bene, ma adesso ci vuole altro, bisogna mettere al centro il welfare culturale locale, i ragazzi, le famiglie, le associazioni, i patrimoni storici e le competenze imprenditoriali, per i tanti genius loci locali, e dopo, forse, avremo anche l”un sol salto’ che il settore dovrebbe fare. Ma più che un salto quel che urge è un processo di ri-posizionamento (direbbe De Rita), non di ripresentazione delle solite cose.