Povera Costituzione Italiana!
Fino a qualche anno fa si aveva almeno il coraggioso pudore di modificarla con progetti di riforma dotati (al di là della condivisione o meno nel merito) di un capo e di una coda.
Oggi la si considera alla stregua di un Regolamento di condominio e la si modifica “à la carte”.
Un partito ha bisogno di rifarsi il look? Ecco che cerca di intercettare l’umore anti parlamentare e ottiene di ridurre di un terzo deputati e senatori. Così, punto e basta. Il Governo non riesce a far rigare dritto alcune Regioni nella gestione di una pandemia? Ecco la soluzione: mettere in Costituzione una “clausula di supremazia dello Stato “.

Il primo esempio citato, ormai, è purtroppo acqua passata e non resta che attenderne le conseguenze negative sul funzionamento delle Istituzioni parlamentari.
Il secondo, invece, è oggetto di discussione in questi giorni e merita di essere approfondito. Magari con un minimo di memoria storica.

Succede che nel 2001 il Parlamento vara una Riforma del Titolo V della Costituzione, nella quale si ridisegna il rapporto tra Stato e Autonomie Territoriali.
Una Riforma significativa e organica (salvo la colpevole mancata previsione del Senato delle Regioni).
Da un lato, lo Stato è chiamato a trasformarsi e a ripensare le sue funzioni in una chiave non più centralista: cioè a fare ancora meglio e con rinnovata autorevolezza ciò che gli compete (soprattutto nel contesto dell’Unione Europea ed in un mondo sempre più globalizzato), in maniera che il sistema delle Autonomie possa crescere dentro un quadro nazionale credibile e robusto.
Dall’altro, le Regioni sono chiamate a prepararsi per gestire il loro ruolo nuovo nel governo dei rispettivi territori.

La regola generale è quella della responsabilità e della leale collaborazione tra diversi livelli istituzionali (Stato, Regioni, Comuni).
Insomma, una vera scommessa, per tutti, sulla modernizzazione delle Istituzioni. Non la si è voluta o saputa giocare. Certo, si dirà, le Regioni non sono state all’altezza del loro nuovo ruolo. Vero, anche se questo giudizio non può essere ingenerosamente rivolto a tutte. Sopratutto al Nord. Tuttavia, che dire di come lo Stato ha esercitato le sue responsabilità?

Lo Stato ha continuato nella vecchia logica (e nella vecchia pratica) centralista, continuando a legiferare su tutto e tutti.
Non ha riorganizzato i propri apparati alla luce del nuovo assetto. Non ha ammodernato i suoi meccanismi di governance (più autonomia significa più capacità di sistema) e non si è dotato di strumenti di monitoraggio adeguati, preferendo ignorare i problemi gestionali in molti ambiti regionali ordinari o procedere con commissariamenti di facciata.
Non ha costruito assetti finanziari capaci di responsabilizzare le Regioni sul fronte delle entrate, preferendo di fatto continuare a gestire centralmente la gran parte dei rapporti con i contribuenti.
Non ha concentrato le sue azioni sulle cose veramente essenziali per un sistema Paese: le grandi infrastrutture della conoscenza; le politiche strutturali di sviluppo; la modernizzazione tecnologica (anche della rete Inter-istituzionale); il buon funzionamento della giustizia e della sicurezza, tanto per citarne alcune.

Ora, la Pandemia Covid disvela queste oggettive difficoltà.
E lo Stato – che non aveva nessun piano per una emergenza sanitaria di livello globale, così come non ce l’ha per tutti gli altri ambiti di Protezione Civile – vorrebbe scaricare le proprie responsabilità sulle Regioni.
Le quali non ovunque, appunto, sono state all’altezza.
Mi viene alla memoria l’immagine di un padre di famiglia, che – siccome non è riuscito ad essere autorevole nella costruzione di regole e pratiche condivise ed ha la coda di paglia per quanto riguarda le sue responsabilità – si appella al “comando di autorità” e sfodera il randello. Ma di quale “supremazia dello Stato” stiamo parlando, in un mondo che vede proprio nella figura degli Stati Nazionali l’anello più debole del sistema?

Mi auguro che questo insano proposito, che pare vedere concorde la maggioranza di Governo nazionale, venga messo da parte. E che, piuttosto, si riprenda – anche con le precisazioni dovute, ivi compresa quella del Senato delle Regioni – il coraggioso progetto del 2001. Le difficoltà vanno risolte guardando avanti, non indietro.
In questo contesto di improvvisazione costituzionale e di cedimento alle istanze di semplificazione populista della vita istituzionale, cerchiamo almeno di difendere un piccolo fuoco che evochi l’idea di una “Repubblica delle Autonomie”.
Le ricette che sembrano prevalere (supremazia dello Stato; svuotamento delle Regioni; accorpamento forzoso dei piccoli e medi Comuni, dopo l’abolizione delle Province) appartiengono al ciclo culturale ormai passato; sono parte e non soluzione dei problemi che la crisi evidenzia.
Non c’è nulla in queste ricette che faccia pensare ad una capacità di “resilienza”.

Nulla sul piano della “cifra comunitaria” che le istituzioni devono recuperare, per controbattere la deriva delle solitudini delle persone e dei territori. Nulla neppure su quello dell’efficenza: in una società sempre più complessa, non si ha efficenza se non attraverso la cultura diffusa della responsabilità e non dell’asservimento verso l’alto. E non illudiamoci. Se nuova supremazia dello Stato sarà, non si tratterà solo di gestione di emergenze pandemiche (per le quali peraltro già oggi lo Stato ha tutti i poteri, se li vuole esercitare).
Sarà un ritorno al passato, mentre il mondo va avanti.

Chi ha l’ardire di richiamarsi a Sturzo – ma anche chi cerca di essere consapevole dei meccanismi di governance delle società complesse – non si può rassegnare a questa deriva neo statalista. Il rischio è quello di comunità territoriali desertificate nei propri presìdi democratici; sempre più prive di “personalità istituzionale”; ridotte a puro ambito di manovra dei mercati e di poteri pubblici sempre più disintermediati; suddite di uno Stato che, per parte sua, si illude di colmare un deficit di ruolo e di autorevolezza con l’icona consumata di un “comando” simile a quella degli imperi in decadenza. Uno Stato che rifiuta di “trasformarsi” e perciò perderà ancora di più il proprio carisma.
Scriveva Italo Calvino nelle “Città invisibili” che Marco Polo – di fronte a Kublai Kan e al suo impero divenuto “uno sfacelo senza fine né forma” – evocava “attraverso le muraglie e le torri destinate a crollare, la filigrana di un disegno così sottile da sfuggire al morso delle termiti”. Ci servirebbero tanti Marco Polo, oggi. Capaci non di vagheggiare la sovranità improbabile di rinnovati imperi, ma di valorizzare, in una logica solidale, collaborativa e costruttiva, la nuova filigrana sociale, comunitaria, istituzionale che pure esiste.

Una nuova idea di “Stato”, che deve essere però sostenuta, indirizzata, alimentata anche da una nuova idea di “politica”, meno giocata nelle stanze romane e più temprata nel confronto diretto e quotidiano con la realtà delle comunità che compongono questo nostro straordinario e plurale Paese.