A nemmeno sei mesi dall’inizio del mandato presidenziale Joe Biden viene in Europa per dedicarvi non poche giornate il cui obiettivo è chiaro: il rilancio dell’alleanza fra le democrazie occidentali all’insegna dei comuni valori liberali. Un approccio multilaterale e collaborativo a giudizio della Casa Bianca indispensabile per affrontare col realismo necessario il Dragone cinese, ritenuto un problema crescente, se non addirittura IL problema di questo secolo.

La differenza con Trump, che pure aveva individuato nella Cina l’avversario principale dal quale guardarsi, è proprio nella ricerca di una comune intesa fra gli europei e, in Oriente, India, Giappone, Australia, membri dell’alleanza QUAD, oltre ad altri storici amici degli USA a cominciare dalla Corea del Sud, in luogo del precedente atteggiamento muscolare unilaterale.

Ma la sostanza, in questo campo, è la medesima: Pechino è un insidioso avversario portatore di una concezione totalitaria del potere, e pertanto da non sottovalutare affatto. Anzi, da contenere. Con un po’ di ritardo, ma forse la UE ha compreso la portata del messaggio proveniente da Washington e questa visita si incaricherà di confermarlo. Certo è che la “sospensione” da parte europea degli “sforzi per ratificare l’intesa sugli investimenti” sottoscritta con i cinesi lo scorso dicembre non è stata casuale, anche nella sua motivazione: un clima reciproco “non favorevole”.

Del resto che l’approccio meramente commerciale adottato dagli occidentali negli anni della globalizzazione seguiti al massacro di piazza Tienanmen del 1989 non sia stato un successo lo testimoniano numerose asimmetrie registratesi nel tempo fra gli impegni assunti dalla Cina e la loro concreta realizzazione, dalla partecipazione al WTO agli accordi disattesi su Hong Kong (la cui sovranità, ormai violata, avrebbe dovuto essere assicurata almeno sino al 2047).

Le ambizioni non negate che stanno dietro alla Belt & Road Initiative e quelle, pure esse alquanto trasparenti in controluce, che Pechino riversa ormai su Taiwan hanno aperto gli occhi pure a quanti li avevano volutamente chiusi nella finta illusione che le riforme politiche avrebbero senza dubbio fatto seguito allo sviluppo economico raggiunto anche grazie ai fitti rapporti commerciali instaurati con l’Occidente.

Al contrario, gli anni di Xi Jinping (ovvero dal 2013 ad oggi) hanno visto la decisa involuzione di ogni timida apertura verso un minimo di democrazia: il segretario-presidente ha abolito il limite dei suoi mandati, ha inserito in Costituzione il proprio pensiero (onore sino a prima toccato solo a Mao Zedong, padre della Patria), ha eliminato i suoi avversari interni e, come detto, ha imposto di fatto il comando cinese su Hong Kong.

Ma forse è una vicenda che sino a qualche tempo fa era poco o nulla conosciuta in occidente a rivelare il vero volto del regime: la sistematica campagna di annichilimento della minoranza musulmana uigura, nel nordovest dell’immenso Paese, lo Xinjiang, condotta attraverso l’impiego di “campi di rieducazione” nei quali viene praticato il lavaggio del cervello a persone allontanate dalle loro famiglie, deprivate della propria volontà, separate dai propri bambini, forzatamente – nel caso delle donne – sterilizzate. Come oramai puntualmente denunciato da numerose istituzioni internazionali. 

Ora, avere relazioni d’affari con una potenza mondiale come la Cina è senz’altro necessario. Persino inevitabile. Ma non al costo del silenzio, della passività, dell’obnubilamento della politica. Il rispetto dei diritti umani è un valore che l’Occidente non può svendere per un qualsiasi vantaggio commerciale. Questo è quanto Biden dirà, fra l’altro, agli europei.