Così radicale Così necessaria , Quarant’anni fa moriva Doroty Day- L’Osservatore Romano

Ironica, colta, esigente con se stessa e con gli altri, grande ascoltatrice ma anche, a tratti, autoritaria e irascibile

Articolo pubblicato sulle pagine dell’Osservatore Romano a firma di Giulia Galeotti

In un abito a quadretti bianchi e blu e una semplicissima bara di pino non verniciata, adorna solo di una croce ricavata da due pezzi di legno trasportati dalla corrente (come quelli che ella stessa raccoglieva sulla spiaggia di Staten Island). È a lei che una lunghissima fila di donne e uomini di ogni razza, età, credo, reddito, stato sociale e mentale va a dare l’ultimo omaggio appena saputa la notizia della sua morte, avvenuta a New York il 29 novembre 1980.

Opere di misericordia, preghiera e vangelo imbracciato costantemente: è questo ad aver guidato ogni passo di Dorothy Day, fondatrice coraggiosa di un movimento — The Catholic Worker — e dell’omonima testata, figura celebre per le sue campagne, le sue denunce e per come ha cercato di tradurre concretamente giorno dopo giorno il discorso della montagna. Non a caso Papa Francesco l’ha ricordata nel settembre 2015 durante il viaggio apostolico negli Stati Uniti. Nel discorso tenuto davanti al Congresso — il primo pronunciato da un Pontefice — Bergoglio ha infatti ricordato quattro «grandi» americani. Se tutti conoscevano Abraham Lincoln e Martin Luther King, se molti sapevano chi fosse Thomas Merton, meno nota era senz’altro Dorothy Day: per la prima volta un Pontefice ha presentato una donna laica come figura fondamentale nello sviluppo dei valori di un Paese, rendendo così omaggio a un simbolo veramente universale.

Nata a Brooklyn l’8 novembre 1897, dopo una vita turbolenta (lei stessa ha raccontato con grande dolore di aver abortito da giovane) e lontana dalla religione, nel 1927 si converte al cattolicesimo: da allora, la fede si unisce alla sua esperienza militante e sociale. Insieme a Peter Maurin, nel 1933 Dorothy Day fonda The Catholic Worker, il movimento basato sulle tre C di cultculture e cultivation. L’intento dei due (diversissimi in tutto: di vent’anni più vecchio, Maurin è francese, contadino tanto lei è cittadina, completamente privo di capacità organizzative) è di realizzare una pacifica rivoluzione personalista, comunitaria e verde che si articoli in diversi punti.

Innanzitutto nella pubblicazione di un giornale per fare arrivare il messaggio all’uomo della strada («Per tutti quelli che sono ammonticchiati in qualche riparo tentando di fuggire alla pioggia, per tutti quelli che vanno in giro per le strade cercando inutilmente un lavoro, per tutti quelli che pensano che non ci sia speranza per il futuro e che nessuno si accorga della loro triste condizione»: è a loro — spiega l’editoriale del primo numero — che il nuovo giornale è dedicato) e di tavole rotonde di discussione e confronto («Quando domandavano a Tamar [la figlia di Dorothy] se le piaceva The Catholic Worker — racconterà Dorothy — arricciava il naso e diceva che le piaceva l’idea di una comune agricola, ma che per il resto facevamo un mucchio di chiacchiere»). Quindi l’apertura di case dell’ospitalità per i bisognosi di cibo e di rifugio, una sorta di centri in cui praticare le opere di misericordia («Quanto li tenete gli ultimi che ospitate?», le chiedono un giorno; «Per sempre — risponde lei — Vivono con noi, muoiono con noi, facciamo loro un funerale cristiano. E preghiamo per loro dopo che sono morti»). E infine le comunità agricole, o fattorie comunitarie o università agronomiche (che dir si voglia) in modo che tutti — dagli intellettuali agli operai — potessero tornare alla terra. Secondo Maurin e Day, insomma, non basta ospitare, nutrire e aiutare chi è nel bisogno: serve un riordino completo della società. Ancor oggi il giornale viene pubblicato ed esistono più di cento comunità sparse, oltre che negli Stati Uniti, in Germania, Paesi Bassi, Irlanda, Svezia, Messico, Australia e Nuova Zelanda.

Tutto è così diverso ma al contempo così armonico nella lunga, lunghissima vita di Dorothy Day, che a 7 anni si trasferisce con la famiglia in California. I Day vivono a Oakland quando nel 1906 irrompe il terremoto di San Francisco, tragedia che la segna per la vita suscitandole domande profonde: perché la comunità non può sempre prendersi cura dei suoi membri più bisognosi, come ha mostrato di poter e voler generosamente fare durante quell’emergenza? Perché questa eccezionale presa in carico collettiva e individuale non può essere la regola?

Intanto, nell’immediato, i Day sono costretti a traslocare di nuovo (il padre, giornalista sportivo, ha perso il lavoro) e arrivano a Chicago, dove la famiglia conosce per la prima volta sulla propria pelle la parola “povertà”. Povertà che rimarrà sempre per Dorothy Day — anche nei decenni precedenti la conversione — la prima, grande emergenza. La incontrerà da adolescente nei bassifondi di Chicago, ne sarà circondata nei decenni successivi a New York in cui tornerà definitivamente dopo aver abbandonato l’università. Sarà dunque per lei una priorità già prima della Grande Depressione, e a maggior ragione poi, lungo un sentiero che segnerà radicalmente il suo impegno e la sua vita. Alla povertà, si affiancheranno le lotte alla segregazione razziale e alla guerra in ogni forma e misura; il vangelo non permette la violenza e l’omicidio, anche se dall’altra parte c’è, sostiene Dorothy Day, Adolf Hitler, posizione che provocherà una frattura profonda all’interno del movimento.

Giornalista, madre single, nonna, Day è stata povera tra i poveri («Andare sul posto a vedere cosa succede non è abbastanza. Non è neppure sufficiente aiutare gli organizzatori, dare ciò che hai per l’assistenza, e nemmeno vivere la tua vita in povertà volontaria per uniformarti a loro. Uno deve vivere con loro e condividere le loro sofferenze»); donna di pace in un mondo in guerra; baluardo per lavoratori, lavoratrici e il loro benessere materiale e spirituale; donna di picchetti e di manifestazioni, e per questo incarcerata più volte; laica in una Chiesa di consacrati; donna di mente, di preghiera ma anche di azione («Credo di aver speso la mia vita tentando di fare funzionare meglio le cose, di cambiarle almeno un poco»). In tutto questo, Day è stata davvero una donna del nostro tempo, da lei vissuto con grande inquietudine, anticipando molti dei temi poi esplosi nelle pubbliche agende, Chiesa inclusa.

Inevitabilmente turbolenti furono i rapporti di Dorothy Day con i politici e i potenti (finita nelle grinfie di J. Edgar Hoover capo dell’Fbi — molto preoccupato per la radicalità della cattolica Day, ma anche del suo curriculum fatto di ex anarchismo, ex socialismo e addirittura ex comunismo —, mesi e mesi di indagini si risolsero però in un nulla di fatto). E con la gerarchia ecclesiastica, anche se — malgrado i litigi con molti sacerdoti e prelati — verso la Chiesa Dorothy Day fu sempre di una lealtà assoluta. Se sono celebri i suoi scontri con il cardinale Francis Spellman, meno noto è il suo impegno per i sacerdoti con problemi di alcolismo.

Ironica, colta, esigente con se stessa e con gli altri, grande ascoltatrice ma anche, a tratti, autoritaria e irascibile, Day è stata una combattente armata del Vangelo. Combattente nella tenacia e nella radicalità con cui ha difeso e condotto il suo progetto a favore degli ultimi in opposizione alla società statunitense, alla Chiesa cattolica e agli egoismi umani. Compresi i propri.

I suoi gesti e le parole profetiche per le quali ha sofferto; la moltiplicazione dei pani e dei pesci che le case del Catholic Worker sparse per il mondo continuano a realizzare; la sua continua testimonianza in favore della giustizia e del creato, oggi ispirano tante persone: «Dorothy — ha scritto Patrick Jordan, ex redattore del giornale, vicino a Day nella parte finale della sua vita — è stata una persona complessa, trascinante, a volte contraddittoria e per molti aspetti disarmante».

Con il suo impegno concreto (il Catholic Worker, con il disagio estremo che accoglieva, non era affatto un posto facile in cui vivere) Dorothy Day è stata in grado di chiamare a rendere conto delle proprie scelte non solo i singoli, ma la società nel suo complesso. Del resto, come ha scritto il teologo Luke Timothy Johnson, «essere profeti non è solo questione delle cose che si dicono, ma del modo in cui si sta al mondo».

Alcuni — annota Dorothy nei suoi diari (magistralmente introdotti e curati da Robert Ellsberg) — «pensano che la cosa più importante per il Catholic Worker sia la pace. Altri vanno più in profondità, e dicono la povertà. Altri ancora la provvidenza. Ma in realtà, alla base di ogni cosa c’è l’amore. Ama i tuoi nemici è il fondamento di tutto». Questo dunque il fondamento per una vita e un’opera così complesse, articolate, accidentate, sofferte e fertili; così ricche di spunti, suggerimenti, inviti e dolore. Così evangeliche e così necessarie per questo nostro mondo dilaniato da violenze, ingiustizie e disparità. Per questo nostro mondo sempre in cammino.

Una lunga solitudine

Articoli, libri, autobiografie, diari, lettere e saggi: Dorothy Day — la cui richiesta di canonizzazione è stata avanzata nel 1983, mentre nel 2000 Giovanni Paolo II  l’ha riconosciuta serva di Dio — ha scritto moltissimo. Di sé, dell’impegno nel mondo e per il mondo, dell’umanità e di Dio. Jaca Book — l’editore che l’ha introdotta al pubblico italiano — nell’imminenza dell’anniversario dalla sua scomparsa, ripropone la più celebre tra le autobiografie di Dorothy Day, Una lunga solitudine  (Milano, 2020, pagine 256, euro 20, traduzione di Marilina Degli Alberti), pubblicata per la prima volta nel 1952.