Spiragli di pace? Vedremo cosa accadrà nelle prossime ore,  ma si coglie un relativo ottimismo a seguito dell’incontro fra il cancelliere tedesco e il presidente russo. Si va verso una de-scalation? Biden ha lanciato ulteriori messaggi di (prudente) fiducia: alla diplomazia deve essere data “ogni possibilità di avere successo”.

La crisi ucraina testimonia una volta di più la debolezza politica dell’Unione Europea. E la insopprimibile tendenza ad agire divisa in politica estera. Uno stress-test che il duro confronto fra Stati Uniti e Russia, una eco del Novecento di cui avremmo fatto volentieri a meno, sta imponendo ai singoli paesi del vecchio continente e alla UE. Più ai primi che alla seconda, come è evidente dalla mobilitazione diplomatica attivata dalla Francia in primis e ora pure dalla Germania. E’ vero, Macron ha parlato con Putin anche in nome dell’Unione Europea, quale suo presidente di turno. E Scholz lo ha fatto anche in quanto leader del Paese più importante e ricco della UE medesima. Il primo, però, è in piena campagna elettorale e quindi deve tener conto di ogni aspetto che può produrre impatti sulla situazione interna al suo Paese. Il secondo le elezioni le ha appena vinte ma deve ancora costruirsi un “suo” personale rilievo internazionale, che oggi non ha; e inoltre guida una coalizione assai differenziata al suo interno, pur se tenuta insieme da un programma assai dettagliato. Italia e Spagna, gli altri due grandi paesi dell’Unione, se ne stanno defilati, per quanto loro possibile. Tutti questi governi, e gli altri, hanno un problema – democratico – di consenso elettorale che Putin ha in misura assai minore. E questo è un primo dato di fatto.

Ma soprattutto hanno un problema energetico (la Francia di meno, avendo diverse centrali nucleari) al quale la Russia sopperisce per una quota molto rilevante. Un problema che in queste settimane ha raggiunto, per il tramite delle bollette da pagare, spesso raddoppiate o finanche triplicate negli importi, le imprese e le famiglie con tutte le conseguenze derivanti. A cominciare dal rallentamento di un’economia solo da poco tornata a crescere dopo i devastanti due anni pandemici. Ecco allora che ogni governo ha per riflesso istintivo la necessità di garantirsi gli approvvigionamenti. Esponendosi inevitabilmente al ricatto di Mosca, dal suo canto ben consapevole di quanto oggi sia impossibile per i paesi europei fare a meno del suo gas.

Se l’Europa fosse davvero unita avrebbe però un potere contrattuale, ma soprattutto politico assai più forte nei confronti del Cremlino (e non solo). Non essendolo, deve seguire – a malincuore – il gioco degli americani. E’ il motivo per il quale né Putin né, in fondo, Biden (certo, quest’ultimo non con i toni e i modi brutali di Trump) sono interessati ad uno sviluppo politico della UE. Putin, anzi, dichiara apertamente la propria determinazione nel tornare ad una specie di gestione condominiale a due dell’Europa, come fu nella seconda metà del secolo scorso. E non perde occasione per cercare di dividere i partner europei. Insinuandosi nelle loro divisioni (come quando ha incontrato il premier ungherese Orban) e nei loro singoli interessi economici (come quando ha incontrato in teleconferenza una significativa rappresentanza della comunità imprenditoriale italiana).

Il gioco degli americani, condotto per lo più tramite la NATO, è volto a minacciare di gravi sanzioni la Russia, che si tradurrebbero però anche in pesanti ripercussioni per l’economia europea, sia negli aspetti produttivi che in quelli commerciali. La tentazione di trattare ciascuno per conto proprio, quindi, è grande. Romano Prodi, ad esempio, suggerisce al governo italiano di arrivare a nuove e più a lungo termine condizioni contrattuali per l’approvvigionamento del gas russo. Una posizione comprensibile dal punto di vista nazionale. Assai meno da quello europeo. E da quello dell’Alleanza Atlantica. Ma quello che conta è solo quest’ultimo, e infatti tutti i Paesi del continente si sono allineati dietro le parole, dure, del suo Segretario Generale. Non conta invece, o conta poco, il punto di vista di Bruxelles, il cui Alto Rappresentante per la politica estera e di difesa è sostanzialmente afono in tutta questa partita. Dopodiché è vero che la Commissione può votare sanzioni commerciali a maggioranza qualificata (uno di quei casi nei quali non serve l’unanimità) ma questo fatto non è sufficiente per indurre a ritenerla un organo politico che sviluppa una propria politica estera, evidentemente.

Vedremo cosa accadrà nelle prossime ore, confidando nello spiraglio di pace apertosi dopo l’incontro di ieri fra il cancelliere tedesco e il presidente russo. Apertura che è stata confermata dal Segretario di Stato americano, Blinken, con un tweet nel pomeriggio di Washington (le 20 italiane) nel quale ha ribadito l’impegno USA nella ricerca di una “soluzione diplomatica” che Mosca avrebbe condiviso. Anche il ministro degli esteri italiano, ieri a Kiev per un colloquio col collega ucraino, ha detto esservi un concreto “spazio per una soluzione diplomatica”. E da ultimo Joe Biden si è detto “desideroso” di negoziare “accordi scritti” con la Russia, che gli Stati Uniti non intendono affatto “destabilizzare”. Clima tendente al miglioramento, dunque.

Ora, se Putin, sbagliando (e non credo che sbaglierà), opterà per l’invasione dell’Ucraina le sanzioni economiche colpiranno la Russia ma di ritorno anche i paesi europei. Se non lo farà, ed è questo il punto che mi preme qui evidenziare, avrà ottenuto, dagli americani più che dagli europei, qualcosa in cambio: la moratoria all’ingresso di Kiev nella NATO, oppure l’autonomia delle due province dell’Ucraina orientale, o addirittura entrambe le cose. In ogni caso avrà conseguito un ulteriore risultato: prendere una decisione su un territorio europeo trattando con gli americani e solo formalmente con gli europei, a corto di metano senza di lui. E’ esattamente quello che vuole.