Con la consueta onestà intellettuale e passionalità, l’amico Ettore Bonalberti ha riproposto il tema di una presenza politica, autonoma e laica, per un partito popolare e riformista riconducibile al patrimonio dell’umanesimo sociale cristiano e alla migliore tradizione del popolarismo di matrice sturziana. Certo, un tema nè nuovo nè originale ma che merita, tuttavia, di essere ripreso ed approfondito. Soprattutto quando proviene da una persona che non ha mai dispensato pagelle a destra e a manca, che non confonde la richiesta di “facce nuove” in politica facendole sempre e solo coincidere con la propria, che non ha mai avuto un approccio moralista all’impegno politico e civile e che, soprattutto, ha sempre dimostrato nel suo lungo percorso politico una rara coerenza e una altrettanto rara fedeltà al filone del cattolicesimo popolare, seppur declinato in vari modi nel corso degli anni dopo l’esaurimento e la fine della Democrazia Cristiana. 

Detto questo per la statura dell’amico in questione, mi permetto di ricordare tre soli titoli. 

Innanzitutto la necessità di un partito autonomo. Di grazia, ma chi non lo vorrebbe per chi proviene da una tradizione come la nostra e che ha vissuto, negli anni, la straordinaria esperienza politica del cattolicesimo politico e sociale e che poi, purtroppo, si è disperso in mille rivoli al punto di ridursi ad una presenza puramente testimoniale e poco altro? Ma qui sorge una domanda, la “solita” domanda. E cioè, com’è possibile che dal 2001 in poi, ossia dopo l’esperienza di Andreotti e D’Antoni con “Democrazia Europea”, tutti i tentativi – di vario genere e di varia caratura – funzionali a dar vita, appunto, ad una presenza autonoma dei cattolici democratici, popolari e sociali siano miseramente e puntualmente falliti? Ci sarà un perchè? Non voglio dare una risposta ultimativa e definitiva ma, come ovvio, la domanda merita una riflessione non banale o passeggera. 

In secondo luogo la classe dirigente che avrebbe dovuto incarnare quel progetto. Nel corso di questi 20 lunghi anni ne abbiamo viste e lette di ogni colore, di ogni risma. Grandi, prestigiosi e voluminosi documenti programmatici; autorevolissimi documenti e appelli; manifesti a gogò; svariate assemblee costituenti ed innumerevoli gruppi di lavoro; protagonisti della vita pubblica che di volta in volta si affacciavano alla ribalta per guidare questi processi sempre in nome della discontinuità, del rinnovamento e del profondo cambiamento rispetto al passato. Benissimo, dopodichè quella classe dirigente puntualmente evaporava nell’arco di poco tempo per poi di nuovo provarci e via discorrendo. Anche qui, non formulo una risposta definitiva. Mi limito a porre la domanda. Ma perchè tutto ciò non è riuscito ad approdare ad un esito convincente e, soprattutto, non è stato in grado di produrre un “fatto” politico strutturale e permanente? 

In ultimo, per fermarsi solo a questi tre titoli, ma se il progetto politico e culturale è credibile – e lo è sul serio, almeno secondo la mia modesta opinione – ma com’è possibile che codesto progetto non sia ancora riuscito ad attecchire nella mediocrità che caratterizza la vita politica italiana? Non è che, forse, abbia ragione proprio l’amico Ettore Bonalberti quando individua in una cronica e ormai consolidata contrapposizione tra le migliaia di eredi di “quel mondo passato” la ragione insuperabile per addivenire ad una seppur modesta e barcollante unità politica ed organizzativa? Forse, questa, è una delle ragioni che ha frenato in questi lunghi venti anni ogni processo di ricomposizione politica di quel mondo. Anche se, come tutti sappiamo, si tratta di un mondo molto frastagliato, composito e pluralistico. Che, come sempre è capitato e come capita tuttora, è fatto da ex dirigenti politici che si mettono a disposizione dei più giovani o di chi non ha mai ricoperto alcun incarico sino a quando la sua potenziale, e del tutto virtuale leadership, non viene messa in discussione. Per tradurre in termini più comprensibili. Come tutti sanno, ma proprio tutti, se l’operazione la guido io bene, altrimenti può anche fallire. 

Ora, non pretendo con questi tre titoli giornalistici di aver dato un fecondo contributo alla preziosa riflessione avanzata alcuni giorni fa da Ettore. Ma credo che, al di là del nostro ricco e fecondo dibattito, al di là della nostra stessa cultura di riferimento e del richiamo ad una esperienza che conserva, tuttavia, una straordinaria attualità culturale ed ideale, forse è anche arrivato il momento per chiederci se lo strumento partito che tutti, e giustamente, invochiamo, coglie ancora una domanda di reale, autentica e concreta rappresentanza politica di quel mondo specifico. Se così fosse, io sarei il primo – se fossi chiamato ad esprimermi – a spendermi per quel progetto politico, culturale, programmatico ed organizzativo. Ma, però, senza aggiungere il sessantunesimo tentativo ai sessanta già falliti precedentemente. Forse, una riflessione su questo versante si rende adesso necessaria ed inevitabile. Per evitare di trasformare il tutto in un simpatico ma sterile dopolavoro politico e culturale. Anche perchè Ettore ed io arriviamo da una esperienza e da una raffinata “scuola” politica che affidava alla testimonianza nella società un compito importante ma che restava pur sempre politicamente sterile ed improduttiva.