All’epoca dell’assassinio di Moro e della sua scorta. Emanuele Macaluso era membro della direzione del Pci di Enrico Berlinguer. Per “enne effe”, ricordò politicamente quello che può definirsi forse il periodo più buio e difficile della storia repubblicana del nostro Paese.

Durante le settimane drammatiche in cui Aldo Moro era tenuto prigioniero dalle Br, l’atteggiamento delle forze politiche fu spesso altalenante, incerto. Il Pci si distinse invece per la fermezza e la decisa assunzione di una linea di forte intransigenza nei confronti del fenomeno terroristico ed in particolare del sequestro dello statista democristiano. Quali furono le  ragioni di quell’intransigenza così determinata?

Le ragioni dell’intransigenza del Pci in quel periodo sul caso Moro, furono diverse e tutte concorsero al fatto che il partito assumesse quella posizione. La ragione però io ritengo fondamentale è che, in quei giorni, i media costruirono una sorta di “album di famiglia” per dimostrare le contaminazioni tra gli ambienti terroristici e la sinistra. La stessa Rossana Rossanda aveva scritto un articolo in cui aveva usato l’espressione “album di famiglia” al fine di dimostrare sostanzialmente che la provenienza di quelle frange terroristiche era quella e che dunque esisteva fondamentalmente una matrice comune. Nel partito per questi motivi andava aumentando la forte preoccupazione di non dimostrare alcuna indulgenza verso quel fenomeno, per il forte timore che una eventuale indulgenza potesse produrre una qualche identificazione. Quando iniziarono a manifestarsi i fenomeni eversivi, soprattutto nelle fabbriche si era registrata una certa indulgenza verso le prime manifestazioni. Giorgio Amendola si preoccupò molto e scrisse un articolo molto duro coniando la formula di “fascismo rosso” riferito ad un certo tipo di squadrismo. Nel Pci c’era dunque la ferma volontà di avere una posizione netta contro le Brigate Rosse. Oltre a questo, il Pci sentiva però anche il bisogno di una forte identificazione con lo Stato democratico.

Ma questa necessità politica esisteva realmente in quegli anni?

Non vi era in realtà una necessità di legittimazione con lo Stato, sebbene il lungo rapporto internazionale con l’Unione Sovietica avesse caratterizzato fortemente l’identità del Pci. Ripeto esisteva la volontà politica di una identificazione con i poteri democratici delle istituzioni. Il Partito Comunista di quegli anni aveva già fatto diversi e significativi passi in avanti. In particolare, nel 1976 la svolta sul Patto Atlantico con Enrico Berlinguer, con la dichiarazione che le condizioni politiche per affermare le ragioni del socialismo si sarebbero concretizzate meglio al “riparo” del Patto Atlantico che non del Patto di Varsavia. Un partito che aveva una grande voglia di accreditarsi come una forza di governo, non poteva non intraprendere la linea dell’intransigenza e della fermezza nei confronti del terrorismo eversivo.

Lei però ha detto che le ragioni dell’intransigenza erano molteplici…

Sì, a mio parere ci fu anche una ragione ulteriore. Una motivazione di cui era intrisa tutta la storia del gruppo dirigente comunista: di fronte al nemico non si cede, non si tratta. Mi riferisco alla storia degli Amendola, dei Pajetta, di tutti quelli che avevano una storia dura di lotta, a quelli che avevano fatto il carcere. Una storia peraltro comune a quella dei Pertini e dei La Malfa che, come è noto, assunsero, come il Pci, una posizione di forte intransigenza.

Ci furono distinzioni all’interno del partito?

Non ci furono distinzioni all’interno del Pci su questa linea. L’idea di un cedimento era distante da tutti. La linea dominante era che con il nemico non dovevano esserci contatti, non erano pensabili scambi. Solo Paolo Bufalini fu sensibile alle sollecitazioni di Leone su possibili scambi, nell’ordine tuttavia di soluzioni umanitarie: si trattava di liberare eventualmente la brigatista Besucchio.

Ritiene che quello che viene comunemente indicato come il compromesso storico potesse essere attuabile con un governo di solidarietà nazionale?

Non ci fu una vera volontà di distinzione tra la linea del compromesso storico, che era una strategia di lungo periodo, con il governo di solidarietà nazionale. Il governo di unità nazionale non era in contraddizione con la strategia del compromesso storico, non era lo sbocco del compromesso storico. La linea della solidarietà nazionale fu determinata dalle condizioni storiche, sociali ed economiche in cui versava il Paese in quegli anni. La forte inflazione, la situazione economica, il terrorismo e fu determinata anche dal fatto che si chiudeva una fase politica. Cioè dopo la fine del governo Moro-La Malfa, lo statista democristiano considerò finita la fase del centro sinistra e della collaborazione Dc-Psi. E lo stesso De Martino la considerava finita. Del resto Il Psi non entrò nel governo Moro-La Malfa. In quel periodo, dunque, Aldo Moro cominciò a porsi il problema di costruire il domani, di guardare al futuro. E lo fece attraverso quelli che lui stesso definì “cauti esperimenti” per un rapporto con il Pci. Lo statista democristiano aveva la consapevolezza che il sistema politico si era ormai logorato fino ad arrivare ad una sorta di blocco. Non credo che Moro avesse, fin dall’inizio, un disegno strategico preciso, con obiettivi predefiniti. Aveva senza dubbio la consapevolezza che il lavoro da fare era quello di sbloccare il sistema politico di quegli anni, attraverso – perdonatemi il termine – lo sdoganamento del Partito Comunista. Moro dunque avvia “l’esperimento” fortemente avversato da alcune forze all’interno della Dc. Fu combattuto poi dalle forze di destra e dagli americani che fecero un comunicato pubblico. Anche l’Unione Sovietica dimostrò la sua contrarietà poiché, con la trasformazione del Pci in forza di governo, la distanza della sinistra italiana dal blocco sovietico era destinata ad aumentare. Si creò oggettivamente uno schieramento composito, contrario a questo esperimento, al quale si aggiunse il Partito Socialista di Bettino Craxi che, in quei mesi, cominciò a cercare un nuovo protagonismo. L’obiettivo di Craxi non poteva essere che quello di ostacolare il nuovo rapporto Dc-Pci. In quegli anni, il Psi celebrò il suo Congresso a Torino e lo slogan di quella assise fu particolarmente eloquente: “L’alternativa di sinistra”. Si candidava ad essere la forza anti Dc, ma pronto comunque a fare l’accordo con la Dc in funzione anticomunista.

Sembra, a distanza di tempo, che l’iniziativa del Partito Socialista fosse in grado di aprire una breccia a sinistra, mettendo in difficoltà il Pci e provocando la rottura  dello schema in cui era cresciuto il “confronto” con Moro. È così?

Dopo la morte di Moro, la crisi del sistema non ha più argini. Berlinguer in quegli anni accentuò la sua critica alla Dc per come aveva gestito politicamente il dopo Moro. Siamo nel 1979 e le elezioni politiche confermarono il Pci al 30%. Nel Congresso del Pci, che si tenne appunto nel 1979, Enrico Berlinguer confermò la linea del “compromesso storico” con il sostegno di tutto il gruppo dirigente del partito. Negli anni Ottanta, si inasprì poi la polemica tra il Partito Comunista e il Psi di Craxi. In quegli anni, in un mio intervento su Il Mondo volli prefigurare la prosecuzione di quella linea di governo con la possibilità di offrire la guida del governo ai socialisti anziché ai democristiani. Berlinguer reagì duramente e fece un comunicato con il quale bocciò con grande nettezza questa proposta. In realtà, in quei tempi Berlinguer stava maturando una nuova linea politica. Ricordo che dovevo un giorno accompagnarlo in una visita in Irpinia appena colpita dal terremoto. Nella mattinata di quel giorno, Berlinguer convocò la Direzione del partito e all’insaputa di molti si presentò con un documento con il quale accantonava la politica della solidarietà nazionale, e metteva in campo la proposta “dell’alternativa democratica” che facesse perno sul Pci. Subito si aprirono forti polemiche e contrasti. Fu accusato di fare solo propaganda e così sotto la pressione di alcuni dirigenti del partito, Berlinguer ammorbidì la formula, togliendo però solo la parola “perno”. Lasciò  dunque la sostanza della proposta, intraprendendo con decisione una strada ormai ben definita nella sua mente.

Quale fu la reazione della Democrazia Cristiana rispetto alla nuova opzione politica che stava avviando il Pci di Enrico Berlinguer?

La Dc celebrò il suo Congresso dove si intraprese quella che fu definita la politica del “preambolo”. E io credo che quella fosse una conseguenza di quella nuova linea del Partito Comunista e dell’atteggiamento di forte conflittualità che aveva ormai inaugurato il Psi di Bettino Craxi. Si arrivò dunque, e rapidamente al governo sostenuto dal pentapartito. Gli anni Ottanta erano arrivati, ma questi eventi politici non aprirono una fase storico-politica nuova. Credo cioè che la crisi sistemica non si risolse negli anni Ottanta. Infatti nell’89 ci fu poi una vera e propria accelerazione della crisi sistemica che mise in discussione quello che, in quegli anni, veniva chiamato il bipolarismo imperfetto.

Lei, dunque, sta sostenendo che la classe dirigente di quei tempi non ebbe la vera percezione che il processo involutivo del sistema politico era arrivato al suo culmine. Ciò avvenne per una sorta di “miopia” politica. Determinata da cosa?

Furono fatti molti errori da tutti i partiti che in quel periodo non avevano forti teste pensanti. E i dirigenti di quei partiti accompagnarono inconsapevoli il “sistema” al disfacimento politico del 1992. La crisi era dunque molto più profonda e le formule di quel tempo non la risolsero. Tangentopoli fu solo la fase terminale di una crisi che era in incubazione da anni. Aldo Moro, forse l’unico o uno dei pochi che in quel periodo avevano responsabilità importanti, aveva capito che quella fase era finita e che il sistema aveva bisogno di nutrirsi di altro, di rigenerarsi.

La forte personalità di Moro e la lucidità del suo disegno politico fecero scudo alle tendenze che, già all’epoca, facevano o pensavano di fare perno sulla questione morale al fine della messa in crisi della Dc. Moro nel 1977 disse la storica frase: “Non ci faremo processare nelle piazze”. In quella occasione il Pci non subì l’attrazione della via giustizialista per abbreviare la sua ascesa al potere. Invece il Pds, benché erede diretto di quella storia, nel 1993 spinse in modo prepotente verso quella strada.  Secondo Lei, quali furono le ragioni di quella scelta?

Il Pci-Pds nel 1993 volle subito prendere le distanze poiché era diffusa l’idea che la crisi degli altri partiti, non solo avrebbe risparmiato il Pci-Pds, ma gli avrebbe anche fatto avere più forza e maggior rilievo.  Questo, che io considero un vero e proprio abbaglio fu subito rafforzato dalle elezioni amministrative del 1993. Quella tornata elettorale si svolse, per così dire in un quadro un po’ allucinato.  La scelta delle candidature nelle grandi città segnò una incredibile novità politica per quegli anni: a Roma l’alternativa fu tra Rutelli e Fini del Msi; a Milano tra Dalla Chiesa e Formentini della Lega; a Napoli tra Bassolino e la Mussolini; a Torino tra Novelli e Castellani, addirittura due esponenti della sinistra. Non ci furono cioè candidature di forze di centro. Ci fu una forte illusione.  Si pensò che era definitivamente tramontato il ruolo delle forze politiche moderate, di centro. Si ritenne che la base sociale e culturale attorno alla quale era ruotata la politica degli ultimi 50 anni, si fosse dissolta. Occhetto pensò che il turno del Pci, come forza di governo, fosse arrivato. In quel periodo entrò invece in campo Berlusconi che trovò il terreno aperto. E a causa dell’ennesimo errore di valutazione politica, la sinistra considerò quell’evento addirittura un vantaggio: il Cavaliere sembrò un elemento estraneo alla politica, un personaggio virtuale che, non avendo alcuna esperienza politica, non poteva essere individuato dall’elettorato in modo definito.

E questi errori di valutazione a cosa portarono?

Furono fatti due errori gravissimi determinati da due forti illusioni: uno dalla sinistra che pensò di essere autosufficiente inaugurando l’alleanza progressista; l’altro dal Ppi di Mino Martinazzoli che ritenne di poter essere ancora l’ago della bilancia, la cerniera tra i due blocchi che, si pensò, non avrebbero raggiunto la maggioranza. Ma il Cavaliere vinse facendo l’accordo con la Lega.

Il fenomeno berlusconiano non merita, dunque, una ferma opposizione da parte del centro sinistra?

Al contrario. Bisogna lottare contro la degenerazione del berlusconismo, ma non possiamo cedere ad una linea di pura avversione moralistica. Con la semplice riprovazione non si fa politica. Credo che in quel periodo fu fortissima l’influenza dei giovani che provenivano dall’esperienza del ‘68. Erano un gruppo di dirigenti meno sensibili alla cultura delle istituzioni, alla cultura del rapporto con le altre forze politiche. Ora questa cultura mi sembra più presente di allora. Oggi quel filone storico del Pci, depurato da tutti i condizionamenti ideologici ed internazionali appare ormai molto indebolito. I Democratici di Sinistra oggi sono sballottati, fortemente condizionati dai movimenti, dai cosiddetti girotondini. E ciò è senza dubbio dovuto ad una sorta di debolezza politica. Credo che per affrontare il berlusconismo non basti una distinzione sul piano della moralità con Berlusconi e la Lega. Il punto è organizzare una azione politica alternativa. Faccio un esempio: la questione giustizia. Berlusconi ha fatto senza ombra di dubbio alcune leggi per sè e per i suoi amici. Ma è anche vero che l’Ulivo non ha avuto una linea unica, netta e chiara su questo tema se non quella della conservazione dello stato attuale: la Magistratura va bene così, la separazione delle carriere non è praticabile, e così via. Tutto questo ha rappresentato e rappresenta un forte limite politico.

Cambiamo argomento. È indubbio che nella Casa delle Libertà siano confluite culture politiche che provengono dal centro sinistra. Come si può dialogare con queste forze.

È vero, ma se si punta solo ad una ribellione morale di questi nei confronto di Berlusconi non si arriva da nessuna parte. In realtà sembra si sia rinunciato ad esprimere posizioni politiche e culturali che possono ricostruire condizioni nuove e diverse tanto da metterli in difficoltà. Il Pci ebbe sempre come preoccupazione l’estremismo, e tuttavia lo seppe contrastare. Ora, e mi riferisco al fenomeno del girotondismo, i Ds sembrano esserne invece incerti. Questa “tara” impedisce di definire una linea propria.

Da più parti si sostiene che l’Ulivo può competere e aspirare a vincere se diventa un soggetto il più omogeneo possibile. Altri pensano invece che le culture che hanno fondato la coalizione debbano avere il loro spazio perchè ancora attuali e vive. In che direzione deve andare l’Ulivo secondo Lei?

Credo che il guaio vero sta nel fatto che ancora non sia stata scelta una delle due strade in modo netto. Se si fosse fatta una scelta netta, nonostante il fortissimo prezzo da pagare, ora saremmo potuti approdare da qualche parte. Capisco quelli che si interrogano sul senso di tornare alle vecchie appartenenze. Però ritengo fondata anche l’obiezione di quelli che sostengono che la storia non si cancella e che le “vecchie culture politiche” possono ancora svolgere un forte ruolo. Bisognerebbe scegliere una delle due strade anche se io non ho una forte propensione per l’una o per l’altra. Segnalo solo un problema che ritengo debba essere superato il più in fretta possibile: mi riferisco all’eccessivo frazionamento dato dalla presenza nella coalizione di partiti dell’1%. Questa situazione è assolutamente devastante. Meglio un accorpamento con al massimo due gambe. Poi sussiste il problema delle regole. Risulta quanto mai indispensabile dare il via libera ad un sistema di regole interne e trovare il modo di indicare un leader vero e forte. Oggi l’Ulivo non ha un leader. O meglio ce ne è uno “in pectore” che però vive a Bruxelles. E uno a Roma che però, da qualche tempo si definisce “coordinatore”. Non esiste un organismo, a nessun livello, che non abbia regole per funzionare. Ognuno parla per sé. Tutto questo, purtroppo, configura un’immagine devastante e perdente.