Articolo pubblicato sulla rivista Dialoghi, trimestrale dell’Azione Cattolica, a firma di Oreste Tolone

Nel ricordo di alcuni importanti filosofi e letterati del Novecento Dante e la sua Commedia vengono associati, di frequente, alla voce e al movimento, al viaggio e al bisogno quasi fisico di pronunciare ad alta voce le sue parole. Come se in questo modo assumessero il loro vero contorno e ci convincessero della loro immane architettura. Così Thomas Stearns Eliot, il quale per alcuni anni fu in grado di recitare a se stesso «buona parte di questo o di quel canto stando a letto o durante un viaggio in treno», o Jorge Luis Borges, che lesse «i tre volumi, durante quei lenti viaggi in tranvai». Walter Benjamin, a proposito di Stefan George e della sua mirabile traduzione, rammenta di come un giorno fosse rimasto affascinato dal V canto dell’Inferno, «la voce che me lo lesse una chiara mattina in un atelier di Monaco ha continuato a risuonare per anni dentro di me», mentre il vivido ricordo della poetessa Anna Achmatova riferisce di un Osip Mandel’štam alle prese con una lingua «assurda», e un poeta a cui farà costantemente appello nel suo ultimo periodo di confino: «Da pochissimo aveva imparato la lingua italiana. Recitava la Divina Commedia giorno e notte».
In queste brevi testimonianze Dante e la sua poesia ci appaiono come compagni di viaggio, che ci scortano, in treno o in tranvai certo, ma soprattutto nel lungo percorso dell’esistenza, ribadendo immagini e verità che non temono di apparire anacronistiche, e che anzi, ripetute ad alta voce, reiterano la forza quasi dimostrativa della visione. Nonostante o forse per via della velocità dei treni su cui oggi sfrecciamo, la poesia di Dante trasmette, ostinatamente, l’impressione di essere una visione intuitiva suprema, una rivelazione originaria, nella quale il poeta sembra parlare afflante numine, sotto l’influenza del nume. In questo senso tutti i versi davvero straordinari vanno declamati ad alta voce – non si lasciano leggere in silenzio o bisbigliare – poiché il verso «non dimentica di essere stato un’arte orale, prima di essere una scrittura scritta». Tuttavia, questo vale in particolar modo per Dante, la cui Commedia sembra «farci apprendere con i sensi», conservando i tratti di una verità sensibile.
A maggior ragione se, come ritiene Borges, la Commedia sembra essere un libro, un’opera collettiva, nella quale la visione passionale dell’arcaico (il pathos) e la parola annunciata (il logos) appaiono indivisibili: un’opera più simile a quella di Omero che di Valéry.
Che questo possa fare, dunque, di Dante più un poeta classico che moderno, della trasparenza e dell’ordine più che del caotico e del creativo, è quanto si evince dalle riflessioni del filosofo e teologo italo-tedesco Romano Guardini. Egli, nelle sue belle lezioni universitarie dedicate al poeta a partire dagli anni Trenta, ribadisce qualcosa del genere, ricordandoci come cercheremmo invano, nell’opera di Dante, l’introspezione psicologica dei personaggi moderni: non il processo creativo concentrato sul soggetto, non l’opera d’arte autonoma che ruota intorno all’esperienza creatrice e arbitraria dell’artista. La scissione moderna tra soggetto e oggetto, interiorità ed esteriorità, significato e parola – più propria dell’indole nordeuropea – in Dante sembra affievolirsi. In lui sembra prevalga una fiducia originaria nella capacità del corpo di esprimere adeguatamente l’interiorità più profonda, la dote della parola di svelare le intenzioni più intime, la possibilità di esporsi al pubblico senza che questo comporti il tradimento di ciò che è autentico. Come nota Guardini:

Vi sono ovunque atteggiamenti espressivi, gesti, discorsi, azioni
simboliche. Ovunque agisce un’unità che, in un certo senso, viene
percepita come umana, naturale. Ovunque ciò che è interiore
diventa evidente, visibile, udibile, afferrabile con le mani. Ovunque
si passa direttamente dalla corporeità all’interiorità dell’anima.
Ogni cosa è umana in un senso quasi elementare […]. Nel
mondo di Dante ciò che è interiore non è distante, ma presente.
Nella Commedia di Dante tutti hanno il desiderio di parlare, tutti i personaggi che egli incontra nel corso della sua peregrinazione vogliono prendere parola – tranne che nel regno del male irreversibile, la Caina, dove regna il silenzio più totale. Ciò che è profondo affiora in superficie, senza essere superficiale, ciò che è intimo e segreto viene reso pubblico senza per questo essere svilito; l’immagine conserva i tratti dell’icona e la parola conserva la forza originaria del significato. La parola pronunciata, il paesaggio scorto assumono nella Commedia il peso della verità, e in questo processo di rivelazione la razionalità sembra fare tutt’uno con i sensi.
Questa fiducia nella risoluzione delle contese, nella profonda integrità del tutto, che in Dante assume dimensioni cosmologiche, urta però contro il disincanto contemporaneo, che ha edificato il proprio successo sulla divisione degli ambiti, sulla lucidità della ragione scientifica. L’importanza del procedimento allegorico e della fantasmagoria; l’idea di un «pensiero sensibile», frutto di un umano e maturo equilibrio di intelligenza e sensualità, nel quale anche l’apprensione coi sensi conserva una sua segreta e misteriosa validità; l’esigenza di un’opera d’arte totale, unitaria e armonica, in cui ogni cosa, ogni emozione trova la sua giusta collocazione: tutto questo rende Dante forse più consono e affine ai grandi sistemi ottocenteschi, che all’attuale disseminazione, alla proliferazione delle istanze individuali. Per questo, secondo Nietzsche, «non potrà mai più rifiorire quella specie d’arte che, come la Divina Commedia, i quadri di Raffaello, gli affreschi di Michelangelo e le cattedrali gotiche, presuppone un significato non solo cosmico, ma anche metafisico degli oggetti dell’arte».
Ciononostante, Dante ha ancora la forza di proporsi a noi come colui che si pone alla ricerca di percorsi alternativi, che quando le fiere sbarrano la strada e l’unica alternativa valida sembra quella di retrocedere, imbocca sentieri più che interrotti, inimmaginabili.
Come ci ricorda Massimo Cacciari, «egli ci insegna, che anche laddove i limiti ci sembrano insuperabili […] bisogna trovare la forza di scoprire spazi immensi», di prefigurarsi strade che ci permettano di accedere al nostro dilettoso monte, pur attraversando oscure selve o inerpicandosi su montagne scoscese. Sia quando a richiederlo sia la nostra vita personale, sia quando a trovarsi nel guado sia la storia. In questo caso il coraggio di una visione non assorbita dal presente e la disponibilità a viaggiare lungo sentieri poco battuti potrebbero risultare indispensabili alla prefigurazione di un altro mondo: a modificare il corso della storia.