La vasta eco di cordoglio e di compianto, che la morte di Alcide De Gasperi ha suscitato in tutto il mondo, conferma che l’eredità della sua politica non interessa soltanto l’Italia, ma tutto il mondo occidentale, tutta l’Europa libera. “Egli è stato uno dei grandi uomini della nostra epoca – ha scritto il Presidente Eisenhower – ed ha ispirato non solo l’Italia ma tutto il mondo che spero si ispirerà a sua volta al suo esempio nell’avvenire”.

Particolarmente, l’eco drammatica della sua scomparsa è risuonata nelle grandi sale del Ministero degli Esteri belga, in quella conferenza dei ministri degli esteri di Bruxelles alla quale egli avrebbe voluto portare la sua parola incitatrice, il suo messaggio di speranza per dissipare tutti i dubbi, per fugare tutte le ombre, per superare tutte le riserve di quella casistica che non può ignorare le esigenze del domani, per le realtà parlamentari di oggi.

Da dove traeva forza quell’ “europeismo” che rappresentava quasi una seconda natura dell’antico presidente del Consiglio? Quali erano le segrete, le potenti radici di quello spirito federalistico che si è imposto perfino ai più tenaci fautori dell’autonomismo nazionale che ha ispirato a Bruxelles i commossi accenti dello stesso Mendès-France?

La molla più intima e più profonda era rappresentata indubbiamente dal suo odio verso la guerra. Da buon cattolico De Gasperi vedeva nella guerra la conseguenza del peccato, l’ombra del male che si protende sui campi della Storia. Ma particolarmente la sua avversione era volta alla guerra moderna alla guerra rivoluzionaria e ideologica che trascende tutti gli schemi degli antichi conflitti di potenza che spezza tutte le regole, che infrange tutti i limiti del diritto e della tradizione.

Di fronte al conflitto del ’14, la sua posizione fu quella del cattolico conseguente che intuì la “inutile strage” la profondità della parola di Benedetto XV che nella condanna della guerra risalì alle radici filosofiche e ideologiche della conflagrazione “all’altra furibonda guerra che rode le viscere dell’odierna società”. Fermo e consapevole patriota egli difese i diritti delle popolazioni italiane nell’ambito dell’ “impero” mosso – come ricordò Gobetti – “dall’amore caldo per i suoi umili coltivatori del Trentino che correva a difendere sotto l’Austria durante la guerra, nei campi di concentramento a costo di gravi pericoli”. Ma il suo irredentismo non fu e non poteva essere quello di chi esaltava nella guerra la risoluzione di tutti i problemi, lo scioglimento di tutti i drammi, il placamento di tutte le ansie.

Nulla in lui dell’irrazionalismo dannunziano che corruppe i motivi più genuini del nostro patriottismo. Nulla in lui di quello spirito attivistico di quel senso della “lotta per la lotta” che doveva sboccare nell’ultimo conflitto mondiale, generare gli stravolgimenti e gli smarrimenti della guerra del ’39-’45.

Fu proprio l’ultima esperienza bellica che accentuò in De Gasperi la convinzione della necessità della federazione europea come estrema alternativa allo spirito di divisione e di odio alimentato dalle filosofie moderne, ultimo compendio di una visione della vita che escludeva i valori della carità e del perdono e annullava l’intuizione evangelica del mondo.

Di qui quella difesa struggente della CED che ha affrettato la sua morte; di qui quel dramma interiore che presenta perfino qualche analogia – mutati i tempi e le proporzioni – con le ultime fasi della vita di Pio X e in cui il politico cede al credente, lo statista si annulla di fronte allo spirito in cui la lotta contro il male prevale su tutti i calcoli di opportunità e di convenienza. Quanto di quell’europeismo sottintendeva l’antica polemica antinazionalista mai spenta nel pensiero cattolico? E quanto l’antica critica dello Stato nazionale che si era identificato per tanta parte con lo Stato liberale laico e in fine anticattolico? È una indagine che appassionerà gli studiosi di domani ma che non limita minimamente, oggi, il fatto che in quella polemica contro lo spirito nazionalista, pure di origine così schiettamente cattolico, egli finì per incontrarsi con gli spiriti più eletti della tradizione liberale e socialista, con le anime più nobili di quel mondo laico che pure agli ideali nazionali si era formato e nutrito.

Cosa vuol dire tutto ciò? Vuol dire che De Gasperi interpretò un atteggiamento profondo dello spirito del dopoguerra una vocazione degli animi che rifuggivano dalla antica volontà di sopraffazione e di dominio e chiedevano una parola di pace e di fraternità (non a caso Bidault lo ha definito “uno dei fratelli più liberi e coraggiosi”)

La sua polemica contro la degenerazione del nazionalismo si accompagnò sempre in lui ad un fermo rifiuto della deificazione dello Stato, della divinizzazione del potere. Cattolico coerentissimo come pochi altri (chi poté accusarlo di tiepida fede?) antepose la società allo Stato e non trascurò mai le esigenze dei corpi e delle comunità organiche a vantaggio di quelle del centralismo burocratico.

Il suo cattolicesimo era largamente venato in questo senso da inclinazioni neo guelfe, respirava nell’aura dei Manzoni e dei Tommaseo. Qualche volta nelle private conversazioni a noi che gli esprimevano i nostri dubbi e le nostri inquietudini sulla possibilità di conciliare a fondo l’antica opposizione cattolica con la logica dello Stato risorgimentale e liberale, il Presidente ci rispondeva con un nome: Gioberti. Ed era chiaro che la sua mente si rivolgeva più al Gioberti del “Rinnovamento” che a quello del “Primato”, che nell’abate torinese egli sentiva più il patriota moderno, l’apostolo dell’incontro tra Patria e plebe, il sognatore di un’Europa cristiana e democratica che non il vagheggiare di una restaurazione teocratica ed archeologica. Polemizzando con Croce per la “Storia d’Europa” non volle mai giustificare i cattolici che anche nel secolo XIX si erano chiusi “nelle trincee della reazione” e si preoccupò solo di esaltare magari oltre i limiti della verità storica la resistenza della Chiesa all’assolutismo, la sua lotta contro il cesarismo in qualunque forma.

Né l’unione europea gli apparve mai sotto un profilo esclusivamente politico. La sua funzione sociale, anzi, gli sembrò preminente. Consapevole delle insufficienze e delle contraddizioni storiche dello Stato italiano particolarmente sul terreno sociale De Gasperi pensò che solo una prospettiva federalistica avrebbe consentito, con la libertà dei mercati e della mano d’opera, di dare una risposta ai tanti assillanti problemi che angosciavano il Paese. La democrazia sociale di De Gasperi era – come osservò acutamente Gobetti – di “fondo originario” “lotta in difesa dei ceti più derelitti che non chiedono protezione ma giustizia e indipendenza e non vogliono umiliarsi a nessuna sopraffazione”.

In questo senso De Gasperi si muove nella migliore tradizione del “socialismo cristiano” fuori da tutte le utopie medievalistiche e da tutti i fantasmi corporativi. La sua era un’ansia profonda quasi elementare di giustizia su cui influiva la sua stessa natura di montanaro; una concezione profonda e istintiva di democrazia sociale che muoveva da una profonda ripugnanza verso il privilegio da un amore dei semplici nel quale risplendeva come ha ricordato Einaudi una vena evangelica. La sua stessa politica interna non si discostò mai da quelle che erano le caratteristiche dominanti del suo “spirito europeo”. Consapevole che l’Europa unita aveva il suo fondamento negli stati nazionali non si preoccupò minimamente di indulgere, una volta arrivato al governo, ai motivi dell’ “autonomismo” così forti nel suo partito. Forse non è illegittimo attribuire a De Gasperi il merito della liquidazione del regionalismo. L’antico amico e compagno di don Sturzo, il cattolico che si era formato in una atmosfera tipicamente federale, avvertì i pericoli di una dissoluzione regionalista e rinsaldò l’autorità del potere centrale come solo uno statista liberale avrebbe potuto fare.

Pur partendo da ferme pregiudiziali cattoliche che non temono confronti, De Gasperi non rifiutò i dati costitutivi dello Stato italiano e si preoccupò di fonderli con l’esperienza democratica dei cattolico. Egli sapeva che quell’innesto non sarebbe stato perfetto fuori da una cornice europea, egli sapeva che nel quadro nazionale esistevano ed esistono sempre i pericoli di quella che in privato amava chiamare “la tramontana giacobina”, magari al servizio dei partiti marxisti pur derisori e denigratori dell’antico laicismo borghese. Da cattolico liberale come era nel fondo, De Gasperi si propose sempre di evitare che in futuro potessero ricrearsi le condizioni d’una lacerazione tra Chiesa e Stato, di una antitesi tra la coscienza del credente e quella del patriota. Perciò fu avverso ad ogni forma di intolleranza confessionale e propugnò fino in fondo con vigore inesausto la collaborazione con i partiti laici.

Nella crisi del gennaio 1950 qualcuno si stupì della sua tenacia nel tentativo purtroppo fallito di conservare la collaborazione liberale al governo. De Gasperi ricorse allora anche all’autorità e al prestigio di Benedetto Croce. Ma quella tenacia quasi caparbia e irriducibile, attingeva ad una coscienza della storia italiana che era in lui maga segreta talvolta perfino inconscia ma egualmente ferma: che in nessun caso si dovesse riaprire l’antica ferita tra il cattolicesimo e la tradizione nazionale che era per tanta parte la tradizione liberale. Ai suoi occhi la “Res pubblica christiana” che egli vagheggiava con disciplina di credente e con fervore democratico, doveva sintetizzare le esperienze della scuola cattolica e le tradizioni dello Stato democratico liberale un piano che annullasse antiche pregiudiziali del laicismo ma salvaguardasse le conquiste fondamentali della libertà sia politica che religiosa. In questo senso, la “comunità europea” rappresentava il coronamento della sua politica, il culmine della sua visione della vita. Senza l’Europa unita egli sapeva che in Italia la conciliazione tra cattolicesimo e tradizione liberale non sarebbe stata definitiva. E la lotta contro il comunismo infinitamente più difficile.

Giovanni Spadolini