Non è stata una battaglia inutile, né un disguido ad opera d’incalliti assertori dello status quo. Potevamo girarci dall’altra parte e assecondare la spinta degli eventi, vale a dire l’attuale predisposizione di massa a vivere la democrazia più come fardello insopportabile che come ordito di civiltà. Invece abbiamo detto di no. D’altronde, sfalciare l’erba della politica è stato un proposito vantaggioso per accreditare l’ennesimo rilancio dell’antiparlamentarismo, con l’allegato dei costi finalmente ridotti mediante i tagli alle poltrone. Ne consegue piuttosto l’assottigliamento della rappresentanza popolare, con evidente contrazione del pluralismo: da oggi si fa più stretta per le minoranze la porta d’ingresso a Montecitorio e Palazzo Madama.

Alla sconfitta, tuttavia, non si reagisce con acrimonia. I numeri costituiscono la prima regola della democrazia, benché non siano essi a decretare la bontà di alcune scelte. Ce lo ricordano uomini e donne che nella loro vita hanno dato testimonianza di fedeltà a una determinata causa. Giulio Bevilacqua, sacerdote bresciano di cultura e sentimenti inconciliabili con il fascismo, rigorosamente parroco anche dopo la porpora cardinalizia a lui concessa dal conterraneo Papa Montini, fu esempio di limpida visione delle responsabilità che le circostanze impongono. Un altro bresciano, Mino Martinazzoli, ne ripeteva spesso un motto significativo: “Le idee valgono per quello che costano e non per quello che rendono”. Dunque, la battaglia andava fatta per questa ragione e con questo spirito. Andava fatta, in sostanza, per dare forma a una prosaica figura di kathecon politico in grado di frenare la bestia del populismo.

Il risultato del “No” si stabilizza attorno a un valore che rende la minoranza abbastanza forte da non essere consegnata alla pratica emarginazione. In effetti, non la si può ignorare. Adesso manca in Parlamento questa voce composta, espressione di un sentire più ampio dei singoli atteggiamenti di dissenso. Curiosamente, un mondo così proclive ad esaltare la democrazia parlamentare di fatto si presenta nelle forme di una inedita opposizione extraparlamentare. Il nord, le città, i quartieri della borghesia urbana hanno registrato le punte più alte di questa dissonanza – culturale prima che politica – rispetto all’unanimismo dei “partiti del taglio”. A Roma il “No” ha vinto nei municipi centrali (I e II), da Testaccio a Prati, da San Lorenzo a Parioli, nel perimetro per eccellenza della città Capitale; ma pure nel XV municipio, dove un elettorato di ceto medio-alto da sempre impalma la destra, ha raggiunto uno straordinario 45 per cento. È il segno che un’Italia antipopulista non si estenua nella residualità di labili sommatorie di forze devitalizzate; al contrario, con buona pace dei vincitori, essa affonda le radici nel terreno più propizio al cambiamento e alla modernizzazione del sistema Paese.

Bisogna capire cosa è accaduto per cogliere la novità che vi si nasconde, quel dinamismo interno che ne connota il valore. Rapide conclusioni appaiono inopportune: la scatola nera del “No” tutto riporta e tutto segnala meno che le istruzioni per un nuovo partito. Pretendere questo sarebbe ingenuo o pretestuoso, giacché un referendum per sua natura comporta un indistinto rimescolamento di carte. In ogni caso, se Vincenzo De Luca colloca il successo della sua coalizione al di fuori degli schemi di destra e sinistra, significa che il trascinamento della logica trasversale del referendum è valsa a correggere, almeno in parte, la curva delle preferenze elettorali nelle sfide per il governo delle Regioni. Ecco allora che il “quid di politicità” del voto esige di essere interpretato, anche per il suo frapporsi, in effetti, alla tendenziale caduta della partecipazione alle urne. Da ciò deriva la consapevolezza, in ultima istanza, che l’uscita dall’impasse è avvertita sempre più da un’area sociale interessata alla riforma più importante ed urgente, quella della politica, specialmente se accompagnata alla nascita di un centro moderno, argine naturale al sovranismo e al populismo, che i tempi vorrebbero riconsegnato ad una funzione vitale per la democrazia.