Avrei potuto, o forse dovuto, esultare per l’elezione di Enrico Letta alla segreteria del Pd e, invece, non l’ho fatto. Dal primo annuncio del suo predecessore dimessosi ufficialmente per piccole beghe che qualsiasi segretario di qualsiasi partito dovrebbe essere in grado di affrontare e, quindi, sostanzialmente immotivate o misteriose, ho cominciato a nutrire quei dubbi che poi l’elezione all’Assemblea ha più chiaramente precisato.

Questa mia riflessione sulla vicenda del Partito Democratico nasce in uno scenario più vasto e preoccupante che possiamo definire senza tema d’errore come crisi della democrazia nei Paesi più sviluppati dell’Occidente. Essa è di natura essenzialmente culturale derivando dallo squilibrio tra l’influenza dei media (“social” e tradizionali di stampa e tv) e gli organi decisori degli Stati che fino a pochi anni fa con le loro decisioni e con gli apparati dell’organizzazione del consenso erano in grado di determinare se non orientare l’opinione pubblica. Oggi – e tutti lo vediamo – gli organi decisori sono sempre meno sostenuti da procedure trasparenti e partecipate e sempre più cooptati al potere da oligarchie che proprio da quello derivano e che non avendo una diretta necessità del consenso tendono ad assecondare una opinione pubblica molto più mobile e frammentata di prima e sostanzialmente priva di efficaci strumenti regolatori. Avviene così che la normale oscillazione degli orientamenti di destra o di sinistra essendo venute meno le filiere del consenso, finisca per determinarsi sempre meno in funzione dei reali bisogni della società e sempre di più, invece, da chi è in grado di influenzare la macchina del sistema mediatico. 

Un processo – quello mediatico – che solo apparentemente sembra appagare le attese popolari e che in realtà generalmente è in grado di risolvere soprattutto i problemi che esso stesso ha creato. La controprova è la pandemia, cioè un problema urgente e reale, che ha impietosamente mostrato l’inconsistenza di una classe politica venuta su per vari livelli di cooptazione e che di fatto il virus ha commissariato.

Questo pervasivo e indistintamente multiforme potere mediatico con l’illusione della partecipazione virtuale al dibattito pubblico, in realtà sta persuadendo masse crescenti di cittadini all’accettazione supina dei comandi da remoto. La distanza tra il decisore e il recettore delle decisioni sta diventando un fossato incolmabile, staccando così l’oligarchia dal resto della cittadinanza e questo, ritornando al nostro discorso, è quello che sta avvenendo anche nel Pd con l’elezione plebiscitaria di Enrico Letta.

E qui torna un antico ricordo. Con il mio amico Paolo Giuntella volevamo entrare con un nostro piccolo gruppo nella Dc, ma ci eravamo scontrati con l’opposizione dei dirigenti delle nostre sezioni territoriali. Una difficoltà inattesa che ci spinse a parlarne con Giovanni Galloni. Venne lui a casa mia, al Villaggio Olimpico, e ci spiegò varie cose della politica che evidentemente non conoscevamo. Una mi rimase impressa: “Se siete un gruppo minoritario e vi propongono di votare uno di voi ad una carica importante, voi dovete stare molto attenti prima di accettare perché la maggioranza che vi attribuiranno non è fatta, se non in minima parte, dai vostri voti e così come vi hanno conferito il potere, ve lo potranno togliere quando vorranno”. Morale: si deve governare (in questo caso si parlava di sezioni) solo con i voti propri.

Fine dei sogni, capimmo allora che le idee non potevano essere disgiunte dall’organizzazione e che questa, se presa seriamente, era anch’essa una scelta politica importante.

Domanda: come ha fatto Letta dopo sette anni di “esilio” dalla politica italiana trascorsi da docente universitario a Parigi, ad ottenere più del 99% (860 a favore, 2 contrari e 4 astenuti) dei consensi? La risposta può essere la domanda rovesciata e cioè: come non avrebbe potuto stravincere avendo il favore assoluto dei media che incidono in quel settore politico? Si è parlato ipocritamente di fine delle correnti proprio quando queste unendosi su un obbiettivo condiviso da chi plasma l’opinione pubblica, hanno dato la prova più evidente della loro disciplinata compattezza. Insomma o i conti tornano così, oppure decisamente non tornano il che vorrebbe dire che il Pd non è per nulla autonomo dalle ondate mediatiche che da remoto facilmente persuadono i membri della sua assemblea.

Per superare questo dubbio si potrebbe argomentare che Letta abbia convinto tutti con la forza del suo discorso. Ma in questo caso non posso non domandarmi come improvvisamente senza che se ne sia parlato da mesi o da anni, 860 (non uno o una dozzina) dirigenti politici nazionali si siano convinti senza il conforto di una analisi sociologica che da sola avrebbe occupato interamente lo spazio del discorso del candidato segretario, ad abbassare l’età del voto a sedici anni? Un miracolo di oratoria, o più semplicemente un pedaggio pagato da Letta a chi (non si sa bene chi o quanti siano stati) crede di trarre vantaggio da tale scelta che contribuisce ad allontanare ancora di più la responsabilizzazione della partecipazione politica? E comunque la decisione di dare il diritto di voto ai sedicenni oggi unanimemente acclamata, avrebbe bisogno di una seria discussione al di là degli ipotetici vantaggi che qualcuno ritiene (e forse a ragione) di ricavare da questa scelta dalla quale il Pd adesso non può più retrocedere.

Stupisce anche che un politico importante e di respiro europeo, per di più provenendo dalla Francia, proponga di punto in bianco l’introduzione dello ius soli quando le città francesi sono scosse dalle proteste delle seconde e terze generazioni di figli di immigrati e da decenni pleno iure cittadini francesi che si battono per un separatismo di tipo razziale. Possibile, mi chiedo, che un politico dal carattere intellettuale come è Letta non si ponga davanti a questo problema in modo critico in considerazione anche dell’evoluzione del fenomeno? Del resto lo stesso Papa che giudica le migrazioni un “diritto dell’uomo”, si è sentito in dovere di aggiungere che vanno anche considerate le condizioni e le possibilità di integrazione dei Paesi di accoglienza. 

E’ abbastanza comprensibile che questi e altri argomenti appartengano alla strumentazione politica di un partito che aspira ad essere progressista e di sinistra e che per questo vanno discussi prima di diventare oggetto di deliberazioni. Ma come? Questo era ed è il problema ancora irrisolto del Pd: cioè la separazione tra dibattito e decisioni, affidando queste ultime alle tendenze mediatiche e non alle risultanze del confronto interno di cui da tempo non c’è notizia, soprattutto dalle sedi periferiche, cioè i pilastri di fondazione dell’edificio-partito.

Insomma se il Pd è nella tempesta mediatica, l’idea di venirne fuori con una soluzione sostenuta dagli stessi poteri mediatici, non mi pare una buona idea. E mi dispiace per Letta che, appena arrivato, ci abbia messo del suo. E resta una domanda: ma uno che viene da una lunga storia democristiana poi “popolare”, che c’entra con questo partito? Possibile che un ex-dc ottenga oltre il 99% dei consensi in un partito di cui è “azionista di minoranza” e che per giunta dichiara di volerlo fare essere più di sinistra? E mi domando se gli eventi di questi giorni (ai quali potrebbero aggiungersi quelli della caduta di Conte e della nomina di Draghi) possano essere considerati passaggi democratici, o piuttosto segnali evidenti di una irreversibile crisi della democrazia via via sostituita dal magma mediatico?

Ma siamo già fuori strada e, ripensandoci, Galloni aveva proprio ragione!