Dialogo con Ruben Razzante: “I tuttologi hanno rovinato la tv e stanno contaminando i circuiti informativi”

Ruben Razzante è docente di Diritto dell’informazione all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e al Master in giornalismo dell’Università Lumsa di Roma. Ha dato alle stampe: Giornalismo e comunicazione pubblica (Franco Angeli, 2000), giunto alla seconda edizione, Informazione: istruzioni per l’uso. Notizie, Rete e tutela della persona (Cedam, 2014) e Manuale di diritto dell’informazione e della comunicazione (Cedam, 2019), giunto alla ottava edizione. Ha curato la pubblicazione dei volumi La Rete che vorrei. Per un web al servizio di cittadini e imprese dopo il Covid-19 (Franco Angeli, 2020) e L’informazione che vorrei. La Rete, le sfide attuali, le priorità future (Franco Angeli, 2018). Ha fondato il portale www.dirittodellinformazione.it.

Caro Professore, in un incisivo e analitico editoriale pubblicato sul Messaggero del 26 febbraio u.s. Lei pone la questione relativa ai costi e alle remunerazioni dei professionisti dell’informazione. Nessuno meglio di Lei sa che viviamo in una sorta di villaggio globale in cui la notizia ha un peso rilevante sui comportamenti individuali e sociali, nei modi e nei tempi in cui viene data. Di fatto da alcuni anni l’informazione attraverso la carta stampata subisce la preponderante e schiacciante concorrenza dei flussi che passano in rete. Il Web è un contenitore infinito di dati e notizie, in continuo aggiornamento on line: non c’è gara tra i due sistemi, in questo senso. Tuttavia mi pare che il quesito da Lei evidenziato contenga oltre al dato tecnico della qualità e attendibilità dell’informazione, anche un contesto etico che implica un processo di legittimazione. Ce ne vuole parlare?

La filiera di produzione e distribuzione delle notizie va riequilibrata, promuovendo meccanismi win-win, in grado di remunerare il lavoro dei produttori di contenuti e di garantire la libertà d’impresa delle piattaforme e degli operatori di Rete. Tutto questo è possibile se gli attori in campo si siedono attorno a un tavolo e con spirito costruttivo individuano e prospettano al legislatore le strade virtuose per raggiungere l’obiettivo di una Rete equilibrata, inclusiva e al servizio della persona. I colossi del web si sono mossi in un clima di a-nomia per anni, mentre ora mostrano crescente senso di responsabilità verso l’assoggettamento a regole stabilite su scala internazionale per disciplinare i flussi di contenuti e l’erogazione di servizi on line. E’ un clima che reputo positivo e che può portare, nel tempo, a risultati soddisfacenti. L’elemento etico potrà fare la differenza e stimolare atteggiamenti virtuosi da parte di tutti.

Conversando alcuni giorni fa con il Presidente del CENSIS prof. De Rita ho registrato questa sua osservazione apparentemente banale: la differenza che passa tra comunicazione e informazione.  Comunicare è un processo quasi monodirezionale, che non ammette interlocuzione. Informare comporta un controllo delle notizie che si mettono in circolo, il coinvolgimento dei destinatari finali e l’attendibilità certificata di dati e notizie che presuppongono ricadute sociali. Produce un orientamento nei comportamenti, una sorta di pedagogia sociale che funge da ‘indirizzo’. De Rita ha fatto l’esempio della gestione dei flussi di notizie durante la lunga e non conclusa pandemia, stigmatizzando appunto il fatto che dalle istituzioni siano giunte molte comunicazioni e poche informazione, creando incertezze tra i cittadini. Tutta la materia delle chiusure/aperture , dei divieti e dei limiti, del consentito e del vietato è stata gestita in modo improvvisato, non programmato, sovrapponendo dati in contraddizione tra loro e poco fruibili in termini di comportamenti da osservare e di rassicurazioni emotive. Eppure a questi dati caduti dall’alto nei TG serali è legato il volano dei comportamenti sociali: esco? Non esco? Apro? Chiudo? Fino a quando? Quali sono le garanzie dei vaccini rispetto alle varianti del virus?  Una società messa sotto controllo ma senza ricevere informazioni o spiegazioni attendibili e certe. Coglie anche Lei, in via generale,  questa discrasia che peraltro è un aspetto attraverso cui si realizza un buon governo del Paese e una democrazia partecipata?

La comunicazione istituzionale è stata gestita in modo discutibile durante il Covid, affidando ai soliloqui notturni dell’ex premier i messaggi, spesso di impronta allarmista, riguardanti i comportamenti da tenere per contrastare la pandemia. Si è avuta l’impressione, soprattutto dopo la prima ondata del Covid, che il “Festival della virologia a reti unificate”, alimentato in modo incosciente dal circuito mediatico, sia stato funzionale alla narrazione dominante della pandemia e quindi si sia rivelato un elemento di propaganda. Ecco, io riscontro proprio questo vulnus alla democrazia: una comunicazione autoreferenziale e persuasoria che ha preso il sopravvento sulla comunicazione di pubblica utilità, contribuendo a destabilizzare le persone sul piano psichico. E’ un abuso del quale pagheremo le conseguenze per anni, anche se ora nessuno ne parla. E’ mancata la democrazia dell’informazione, intesa come garanzia del diritto dei cittadini ad essere informati correttamente senza spettacolarizzazioni, allarmismi ma anche senza sottovalutazioni. Ha difettato l’equilibrio nei flussi comunicativi, improvvisati, schizofrenici e contraddittori.

L’informazione – nell’evoluzione tecnologica e digitale attuale – comporta strumenti di controllo: per garantire l’autenticità delle notizie, le loro ricadute, l’effetto di disorientamento sociale che possono determinare. Si pensi alla salute ma anche all’economia, alle borse, ai mercati. Esistono organi di controllo ma mi pare che nel Suo editoriale Lei stigmatizzi le diversità di approccio al tema: perchè l’Italia non ha ancora risolto il problema dei rapporti tra giganti della rete e professionisti del giornalismo? Qual è il vulnus di questo gap? E cosa si dovrebbe fare per colmarlo?

Il rapporto tra giganti della Rete e professionisti dell’informazione rimane problematico un po’ ovunque, non solo nel nostro Paese. Ma secondo me è solo questione di tempo. Gli Over the top si rendono conto che valorizzare l’informazione di qualità prodotta professionalmente può essere conveniente anche per loro, in quanto contribuisce a rafforzare la credibilità del web. L’attuazione della direttiva europea sul copyright potrebbe essere la svolta e favorire una corresponsabilizzazione delle piattaforme, anche dal punto di vista economico, nei processi di produzione e distribuzione delle opere creative di natura giornalistica. Questo però non significa che tutto lo sforzo di adeguamento debba ricadere sulle spalle dei giganti della Rete. Anche i giornalisti devono dimostrare di essere “migliori” dei non giornalisti, applicando i principi deontologici che governano l’esercizio della loro professione e che assicurano una efficace tutela dei diritti dei cittadini e dei protagonisti delle notizie.

Dal punto di vista di fruitore delle notizie mi pongo il problema della attendibilità delle fonti: la rete ha creato un mondo virtuale che a volte si affianca a quello reale, altre lo sostituisce. Circolano molte fake nel web che finisce per essere una sorta di limbo dell’indeterminato in cui è difficile anche per un adulto esercitare l’atto del discernimento. Esistono dei professionisti del falso che creano movimenti di opinione, lo possiamo chiamare i ladri o i camuffatori delle notizie. E qui subentra anche il tema del controllo: per un genitore è importante sapere quali notizie passano sul tablet o sullo smartphone del figlio. Essendomi occupato di scuola e di giustizia minorile pongo alla Sua considerazione la rilevanza formativa delle nuove tecnologie. Non parliamo di DAD che è un flusso di andata e ritorno tra scuola e utenza. Ma Lei conosce certamente i danni che questo baratro che inghiotte i  bambini e gli adolescenti può provocare. Il cd. Tik-Tok è solo la punta dell’iceberg. Ma cosa c’è nel sommerso e cosa si può fare per educare ad un uso corretto delle tecnologie che si usano in rete? Si parla di buco nero e nel nero, Lei mi insegna, si vede poco. Non bastano famiglia e scuola: i poteri del Garante della tutela dei dati o di quello dell’infanzia sono più formali che sostanziali. Occorre risalire la china fino alla fonte di produzione dei flussi informativi? I grossi network sono internazionali e planetari. Ho la percezione di un problema gigantesco e irrisolvibile, sottratto al controllo degli Stati. Sbaglio?

Di fronte al dilagare di fenomeni deteriori come quelli che lei cita, mi riferisco in particolare alle violazioni dei diritti dei minori in Rete e alle conseguenze devastanti che un uso poco accorto dei social da parte dei minori può avere su di essi, occorre un concerto di forze. Non bastano le iniziative legislative, la vigilanza da parte delle istituzioni, il ruolo di controllo delle Authority, le sentenze illuminanti dei tribunali. Ci vogliono almeno altri due elementi: le tecnologie e l’educazione digitale. Gli algoritmi e i filtri predisposti dai giganti del web devono essere sempre più affinati per contribuire a contrastare abusi ai danni dei minori e violazioni dei diritti individuali. La tecnologia deve coltivare in modo convinto la dimensione della sicurezza, marciando speditamente verso i lidi della tutela degli utenti dai rischi. In secondo luogo minori, famiglie e docenti devono siglare una sorta di alleanza educativa che, nel medio-lungo periodo, potrà dare frutti ragguardevoli sul piano della promozione di consapevolezza dei rischi e delle opportunità della Rete. E’ un po’ la filosofia ispiratrice del mio ultimo volume, dal titolo “La Rete che vorrei”: quella di un nuovo umanesimo digitale in grado di alimentare le spinte verso la digitalizzazione in maniera costruttiva, inclusiva e solidale, senza mai perdere di vista l’irriducibile complessità e profondità dell’animo umano.

Il tema della digitalizzazione sta diventando cruciale: negli indirizzi dei Governi, negli investimenti finanziari, nella incentivazione di nuove forme di identità digitali.  Nel dibattito sull’ utilizzo del Recovery Fund impegnerebbe addirittura una quota prevalente.  E’ declinato il tempo dal “carta canta, villan dorme”. Personalmente ho grossi dubbi e perplessità che deduco dai comportamenti sociali prevalenti. Il Prof Vittorino Andreoli mette in guardia dal rischio di usare più il cervello che abbiamo in tasca che quello che abbiamo in testa. La dematerializzazione dei flussi informativi apre a scenari da romanzo distopico: arriveremo a vivere nel pianeta delle tre scimmie? Non vedo, non sento, non parlo: tutto è sottotraccia, occultato, incontrollabile?

Il rischio c’è se non verrà coltivata in modo convinto e condiviso la dimensione della trasparenza nell’utilizzo dei dati in Rete. La digitalizzazione, insieme alla tutela ambientale e allo sviluppo sostenibile, è il filone strategico principale del Recovery Fund. Chi non si adeguerà a quei trend rischierà di rimanere marginale. I tempi della digitalizzazione dipenderanno da quelli del potenziamento delle infrastrutture di rete e da quelli del superamento del digital divide. Intanto, però, se alcune aree di opacità della Rete verranno superate, si ridurrà sensibilmente il rischio prospettato dal professor Andreoli. 

Credo che per un professionista dell’informazione, che per deontologia si ispira ad un codice etico di comportamento, sia faticoso arginare l’incontrollabile e caleidoscopico giro di dati, informazioni, fake, oltre a non farsi coinvolgere in una sorta di diktat del virtuale gestito dai grandi promoter di notizie. Questi giganti del Web usano la globalizzazione come arma di distrazione di massa, sfuggono a controlli di merito sui flussi informativi e dettano le regole dei comportamenti sociali. E’ in atto un passaggio dall’interno all’esterno che può deprivarci dell’uso del pensiero critico, della riflessione, della meditazione: tre pilastri della conoscenza. Ci muoviamo verso una nuova dimensione ontologica e valoriale dell’esistere? Il consolidamento della conoscenza radica nella tradizione: non percepisce il pericolo di un abbandono della memoria condivisa e della cultura consolidata a favore di un approccio conoscitivo e quindi anche informativo  “usa e getta”?

La questione da affrontare e risolvere per via legislativa, sul piano internazionale, è quella della eventuale responsabilità dei giganti del web rispetto ai contenuti postati dagli utenti. Se rifiutano il ruolo di editori, con le relative responsabilità giuridiche, devono poi anche astenersi dal censurare contenuti. E’ un nodo che va sciolto in fretta. Così come occorre introdurre nel web precisi parametri di riferimento ed elementi di riconoscibilità del lavoro giornalistico e del prodotto editoriale professionale rispetto ai contenuti amatoriali, non vagliati e non verificati sulla base di uno scrupoloso e documentato ancoraggio alle fonti. Chi naviga in Rete deve poter riconoscere agevolmente e immediatamente un articolo prodotto professionalmente da un giornalista iscritto all’Ordine e impegnato a tutelare anche la sua reputazione professionale. La riconoscibilità dei contenuti è un’altra delle sfide da combattere e da vincere nei prossimi anni. Occorre introdurre meccanismi di certificazione professionale della qualità dei contenuti in Rete, senza in alcun modo avallare logiche censorie di natura ideologica.

Nel Suo editoriale Lei riferisce di vuoti normativi che di fatto finiscono per favorire i colossi della Rete a discapito dell’editoria che conosciamo, che è poi quella sulla quale le nostre generazioni si sono formate, e lamenta il declino dell’informazione professionale e di qualità. Lei cita normative adottate in Australia, in Canada, in Francia. Ma in via generale possiamo dire che dopo il tramonto delle ideologie le stesse idee sono via via soppiantate da mere, discutibili, soggettive ed aleatorie opinioni. Sulle opinioni non si crea una cultura solida, tutto diventa effimero. Eppure se Lei segue i talk show televisivi noterà che le presenze degli opinionisti invitati sono quasi sempre legate alla presentazione del loro ultimo libro: lasciamo perdere i classici, per i quali i grandi autori impiegavano anni per pubblicarli e molto spesso erano annientati dalla critica, fatti salvi i ripescamenti postumi e ai capolavori. Tutti scrivono libri che nessuno legge. Non Le sembra che questo fenomeno conduca ad una duplice deriva: l’impoverimento dei contenuti, semantico e lessicale e la perdita di quella che Walter Benjamin chiamava l’aura dell’opera d’arte, che si vada cioè verso una deriva di omologazione narrativa al ribasso?

I tuttologi hanno rovinato la tv e stanno contaminando i circuiti informativi. Il trionfo degli opinionisti, spesso privi di competenze e di modesto spessore, concorre alla dequalificazione progressiva dell’offerta di contenuti attraverso i media. L’omologazione è dietro l’angolo e lo si percepisce anche in questa fase storica particolarmente delicata, durante la quale il pensiero unico sul Covid allontana di fatto il pluralismo delle idee. L’ambiguità dei talk show è in re ipsa: si sostiene che essi debbano essere svincolati da qualsivoglia parametro di notiziabilità dei contenuti in quanto non sempre condotti da giornalisti. In realtà molti giornalisti conduttori di talk show vengono meno ai loro compiti, anzitutto applicando falsamente la par condicio e invitando sempre i soliti ospiti anziché aprirsi pluralisticamente ai differenti apporti della variegata sensibilità culturale e sociale. In secondo luogo essi non sempre rispettano la deontologia perché spacciano per verità oggettive quelle che sono semplicemente legittime opinioni espresse dai loro ospiti. In realtà esistono codici deontologici specifici per i giornalisti, ma anche carte dei doveri che tutti i broadcaster e i contenitori mediatici devono rispettare a prescindere dal fatto che vedano impegnati giornalisti iscritti all’Ordine o semplici uomini di spettacolo.

Considerando sempre il Suo articolo non mi è sfuggito il passaggio della citazione politica: la preponderante presenza in Parlamento di un movimento come i Cinque stelle da sempre fautore di una sorta di libertà anarchica in rete, come elemento di freno al una riforma dell’editoria verso la valorizzazione economica dell’informazione professionale nell’ecosistema digitale. La crisi che sta attraversando questo movimento e la messa in discussione della piattaforma Rousseau, della stessa democrazia virtuale on line ridotta ad esprimersi con un ‘sì ‘o con un ‘no’, come in una sorta di cenacolo per soli iniziati potrà portare ad una svolta, sotto la guida di Mario Draghi verso un allineamento alle derive e ai modelli più avanzati – comparativamente – nell’U.E.? 

Il Movimento Cinque Stelle per molti anni ha avuto una funzione importante di catalizzatore del dissenso anti-sistema e ha così impedito che il vento anti-casta diventasse ingestibile e finisse per ispirare movimenti terroristici e violenti. Da quando è andato al governo, però, ha progressivamente rinunciato a combattere molte delle sue battaglie fondative, soprattutto quella del superamento delle incrostazioni ideologiche di sinistra e di destra. A far nascere e crescere quella forza politica è stato soprattutto il rancore di chi non ce l’ha fatta e prova invidia verso chi ce l’ha fatta, con o senza meriti. Tuttavia, salvo eccezioni, nel Movimento Cinque Stelle non c’è gente che avrebbe avuto i titoli per farcela. L’incompetenza è il tratto distintivo di gran parte del ceto politico grillino. Solo il vuoto nelle altre aree politiche ha consentito ai pentastellati di guadagnare consensi e spazi di potere. L’avvento di Draghi avvia un new deal della politica italiana, con un rimescolamento di carte destinato a produrre nuovi schieramenti, figli soprattutto del riposizionamento geopolitico del nostro Paese. Il funzionamento della piattaforma Rousseau è la rappresentazione plastica della finta democrazia grillina, contrassegnata da discutibili criteri di rappresentatività e da elementi di opacità che la rendono inattendibile nei suoi meccanismi di assunzione delle decisioni. 

Le tassonomie risentono del relativismo culturale del nostro tempo, non hanno più una funzione validante: tuttavia – in tema di poteri forti – l’informazione in una società aperta, liquida digitalizzata può diventare il potere più forte perché scandisce ritmi e tempi della nostra vita, spesso in modo occulto. Della giustizia uno spera che funzioni bene, della politica si può disinteressare, l’economia che gestiamo è prevalentemente quella domestica ma in ogni momento della giornata non si può fare a meno di dati, notizie, aggiornamenti, news. Lei pensa che conserveremo la nostra identità o finiremo per diventare codici alfanumerici per comunicazioni/informazioni sincopate e gestite da poteri occulti?

Solo la permanenza della centralità dell’uomo nei processi di innovazione tecnologica e culturale potrà impedire la “robotizzazione” dell’informazione e la sua involuzione verso l’arida e impersonale trasmissione di dati. Non abbiamo altra strada se non quella di continuare a posizionare al centro di ogni narrazione la persona, con la sua irriducibile profondità e il suo esaltante anelito di libertà. Se riusciremo a coniugare sapientemente, anche nella dimensione virtuale, libertà e responsabilità, diritti e doveri, contribuiremo a costruire un mondo migliore in cui le opportunità di crescita offerte dalla Rete marginalizzeranno i rischi di alienazione che pure esistono nell’ecosistema digitale.

Ho già proposto questa riflessione in altre interviste. Riguarda la costruzione della cultura personale attraverso gli apprendimenti. In Finlandia il sistema scolastico ha abolito l’uso del corsivo per imparare la letto-scrittura. E’ tollerato lo stampatello, altrimenti si scrive e si legge attraverso il tablet. Lei condivide questa scelta oppure pensa – come me  e spero molti altri- che la parola orale e scritta, che passa dalla manualità e dal dialogo interpersonale diretto e in presenza, siano la via maestra per consolidare l’irripetibile unicità di una personalità in formazione?

 Il mio punto di vista, anche sulla base dell’esperienza personale, è che la didattica in presenza sia l’unica garanzia di apprendimento e di formazione globale della persona. Tuttavia, in periodi storici come quello che stiamo vivendo, la didattica a distanza si è rivelata uno strumento prezioso per  impedire la paralisi del sistema scolastico. Tra i tanti errori del precedente governo c’è stato anche quello di non provvedere per tempo ad assicurare, al di là dei ridicoli banchi a rotelle, le condizioni per una ripresa regolare delle lezioni nelle aule scolastiche. La didattica a distanza non può essere, peraltro, la fotocopia sbiadita di quella in presenza. E’ necessario individuare formule innovative di didattica a distanza che possano renderla complementare e non sostitutiva di quella in presenza. Sotto forma di formazione integrativa anche la didattica a distanza può avere un futuro e una sua originale utilità.