Non giudicate se non volete essere giudicati.
Questo severo monito mi è riaffiorato alla mente apprendendo la notizia di un altro caso di un bimbo di 2 anni dimenticato in auto, questa volta a Catania, e deceduto per le complicazioni derivanti dalla prolungata esposizione ai raggi solari e dalla mancanza d’aria. In molti ci si domanda come possano accadere situazioni del genere, come possa cioè un genitore caricare il proprio figlioletto sul seggiolino prudentemente e precauzionalmente dotato di attacchi e cinture protettive per poi scordarselo dopo qualche minuto, scendendo dall’auto in perfetta e distaccata solitudine, cliccare sul telecomando e allontanarsi lasciandolo chiuso e sigillato in una trappola mortale.

A che cosa pensano in quel momento quei genitori?
In quali pensieri sprofonda la loro mente, il loro cuore, così grevi, così intensi da indurli a giungere a destinazione senza far sosta all’asilo nido, alla scuola materna che pure costituivano una tappa programmata del loro itinerario?
Come hanno potuto percorrere quel tragitto in una sorta di isolamento solipsistico, come se il gesto di collocare il figlioletto in auto fosse un rituale abitudinario, scontato, inconsapevole?

E come invece non abbiano rivolto – in quel tratto che separa partenza ed arrivo – una parola, un gesto, un’occhiata di consapevole e avvertita presenza emotiva, verso il loro bambino, puntando lo sguardo ora sulla strada ora sull’orologio, già pervasi dall’ansia di un ritardo, di una coda, di un rallentamento, già protesi verso le mille preoccupazioni della giornata lavorativa, dei rapporti con i colleghi, delle pratiche o delle mansioni da sbrigare?
Non si tratta di sprovveduti genitori, la concentrazione nel pensiero del lavoro, degli impegni è anzi spesso proporzionale a livelli professionali elevati.

Mi ha colpito ancora una volta il fatto, la sua tragicità, il suo essere ‘inspiegabile’ ad ogni pur lodevole ricognizione emotiva e razionale postuma.
E mi ha colpito, in simultanea, il prevalente sentimento di pietà, di umana comprensione di questa situazione drammatica, il pudico astenersi dal giudizio frettoloso e rancoroso che accompagna l’uomo nel valutare le azioni e gli errori dei suoi simili.
Perché quei contesti, quegli avvenimenti, quelle circostanze disvelano una condizione esistenziale drammatica nella sua apparente normalità, ripetibile, estensibile ad altri insospettabili e responsabili genitori per come appaiono ai più nei luoghi di vita della loro quotidianità ordinariamente pregna di affetti, ansie e premure, estranea alla fatalità di un’alienazione impensabile.

Eppure giace in Parlamento una legge – che attende solo il decreto attuativo- che prevede che i seggiolini siano provvisti di segnale acustico all’apertura della portiera: quante piccole vite avrebbero potuto essere salvate se la politica avesse dedicato a questo adempimento la dovuta attenzione?
Molta parte della nostra vita si dipana su rituali inconsapevoli: presi e stritolati nella morsa della frenesia, attanagliati da mille preoccupazioni, anche le emozioni e i sentimenti soffrono le intermittenze della mente e del cuore.

Non siamo circondati da un’umanità assente, superficiale, distratta, frettolosa, smemorata: ne facciamo inconsapevolmente e drammaticamente parte.
E paghiamo un quotidiano, altissimo tributo ai miti della modernità: velocità, efficienza, presenzialismo, produttività, profitto, pensiero calcolante, obblighi e divieti, doveri e prescrizioni, necessità di sopravvivere a tutto, arrivando sempre, arrivando prima.
Un’umanità messa in rete, resa virtuale ma incapace di usare a ragion veduta le mani, di far riposare il cuore, di stabilire connessioni affettive ed emotive oltre le scansioni di un tempo che ci rende prigionieri del preparare prima ancora del fare.
Sommessamente penso che dovremmo essere benevolmente indotti ad abituarci alla umana comprensione, come ultima frontiera di un umanesimo che sta compiendo il suo ciclo ultracentenario, soverchiati dalle primazie ridondanti e pervasive della post-modernità.
Trovo che l’assenza di consapevolezza, la solitudine, il doverismo formale, la disconnessione intelletto-sentimento, i ritmi di una vita scandita su incalzanti abitudini, stiano diventando i registi occulti di una nuova e drammatica condizione antropologica ed esistenziale.

Solo questa alienazione spazio-temporale, questa viscerale e non compiutamente spiegata, nuova paura dell’esistere possono cortocircuitare le relazioni affettive primordiali che dovrebbero essere il sale e il senso della nostra vita.
Fino a offuscare la consapevolezza del fare, del dire, del pensare.
Per questo bisogna – a mio avviso – sospendere il giudizio e mi riferisco al sentire comune, ai paradigmi sociali del bene e del male.
Nulla può essere spiegato, molto può essere capito: per fermarci un attimo, sostare se possibile, per riflettere e riappropriarci a poco a poco del senso vero dell’esistere.
Quel padre, quei genitori meritano un grande abbraccio, una condivisione intensa del loro dolore: siamo tutti genitori di quel bambino.