Articolo pubblicato sulle pagine della rivista Treccani a firma di Marco Grimaldi

L’anniversario dantesco del 2021 cade immediatamente dopo quello di Raffaello, morto nel 1520. Ma tra Dante e Raffaello ci sono molti altri punti di contatto più importanti. Il più celebre è senza dubbio il ritratto di Dante che si può vedere nella Stanza della Segnatura affrescata da Raffaello ai Musei Vaticani. Un doppio ritratto, in realtà. Il progetto iconografico della Stanza è complesso: gli affreschi delle quattro pareti vogliono infatti rappresentare la manifestazione terrena della Filosofia, della Teologia, della Poesia e della Giustizia. I putti ai lati della personificazione della Filosofia che sovrasta l’affresco noto come la Scuola di Atene reggono un cartiglio dove si legge Causarum cognitio, vale a dire ‘la conoscenza delle cause’ che è propria del sapere filosofico. Di fronte alla Scuola c’è la cosiddetta Disputa del Sacramento. Qui il cartiglio che accompagna l’allegoria della Teologia proclama invece: Divinarum rerum notitia. Come spiega Antonio Paolucci in una importante monografia su Raffaello: «I saperi sono cognitio perché praticabili dalle umane facoltà, i supremi veri della Religione sono notitia. Dio li comunica, in un certo senso li notifica» (Raffaello o della «intera perfezione», 2015). Ed è qui che tra i teologi e i dottori della Chiesa disposti attorno all’ostensorio compare il primo ritratto di Dante. L’altro è nell’affresco noto come Parnaso, dove il poeta è raffigurato accanto a Omero e a Virgilio. E in questo caso la figura allegorica recita Numine afflatur: la poesia è ‘ispirata dal dio’. Dante, che nei secoli precedenti era stato spesso descritto anche come filosofo, per Raffaello è prima di tutto teologo e poeta divino.

2. Tutti gli uomini naturalmente desiderano di sapere. Questa frase si legge all’inizio del Convivio, il trattato in volgare che Dante scrive in esilio e che resta incompiuto. Ed è una citazione dalla Metafisica di Aristotele, che nella traduzione di Giovanni Reale comincia così: «Tutti gli uomini per natura tendono al sapere». Molti, leggendo questa frase, penseranno forse a quello che per il filosofo Immanuel Kant doveva essere il motto dell’Illuminismo, cioè sapere aude: ‘abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza’. Ma tra Kant e Dante c’è una differenza fondamentale. Per Dante, infatti, la causa per cui tutti desiderano conoscere non sta all’interno dell’uomo, ma al di fuori: poiché la provvidenza divina ha disposto che ogni cosa deve tendere alla propria perfezione e poiché la perfezione della nostra anima è l’attività intellettuale – che è ciò che ci distingue delle piante e dagli animali e che rappresenta la più alta forma di felicità che possiamo raggiungere – tutti noi siamo soggetti («subietti», dice Dante) al desiderio della conoscenza. La conoscenza non è una libera scelta.

Ma in che cosa consiste il sapere di cui Dante parla nel Convivio? Il fine dell’opera, si sa, è rimuovere gli ostacoli che impediscono di tendere a quella perfezione e per farlo Dante scrive, in volgare – così da essere utile a un pubblico più ampio – un commento ad alcune canzoni composte negli anni precedenti. E questo commento è di fatto un’enciclopedia nella quale si tratta di cosmologia, filosofia, metafisica, teologia, mitologia, politica e di molto altro. In una parola, di scienza. Il desiderio della conoscenza è desiderio di scienza.

3. Dal punto di vista di Dante non c’è distinzione tra cultura scientifica e cultura umanistica. La scienza, nel lessico dantesco, è sinonimo di attività intellettuale, e quindi, per noi, di conoscenza. E Dante, come molti altri intellettuali del suo tempo, aveva interessi estremamente diversificati. Era un poeta, certo, che fino all’esilio scrive soprattutto poesie liriche. Ma intanto Dante legge i classici latini e i filosofi e gli scienziati moderni, compie studi approfonditi ma irregolari (Dante non ha fatto l’università) e raggiunge rapidamente un livello di conoscenze altissimo in tutti i campi del sapere. Per fare qualche esempio: apre una canzone (Io son venuto al punto de la rota) con una perifrasi astronomica che nessuna persona di media cultura scientifica saprebbe oggi interpretare senza un buon commento; inserisce nel Convivio lunghe digressioni sulla struttura del cosmo (com’era inteso al suo tempo) e, se la Questio de aqua et terra è davvero opera sua, in tarda età interviene in una disputa scientifica sul rapporto tra i mari e le terre emerse. Inoltre, aveva un’ottima conoscenza osservativa dei cieli, con tutta la precisione consentita dal sistema tolemaico. Insomma, possedeva i dati sperimentali (quelli disponibili a occhio nudo); e forse oggi pochi laureati potrebbero competere con lui in questo campo. Ed è troppo facile evidenziare le sue lacune. Piergiorgio Odifreddi, ad esempio, ha notato che Dante era «sapiente di Aristotele e Tommaso d’Aquino», «ma ignorante di Euclide e Fibonacci». Ma sottovaluta che Dante probabilmente Euclide un po’ lo conosceva (per via indiretta) e che è del tutto evidente che possedesse una cultura scientifica di buon livello per le competenze medie della sua epoca.

Non bisogna però ricadere nell’errore opposto, e pensare che Dante sia stato il principale teorico e pioniere della divulgazione delle conoscenze scientifiche in Italia. Tra XIII e XIV secolo, infatti, c’è molto altro: c’è soprattutto un ampio fenomeno di volgarizzamento di testi medici, scientifici, geografici e astronomici all’interno del quale Dante si colloca e che non è lui a creare né a dirigere. Il Convivio, nel quale Dante offre un imponente complesso di nozioni scientifiche, è un’opera importantissima, che però ha ben poco successo nel Trecento. La scienza in volgare si diffonde per altri canali. Dante intercetta e interpreta in maniera geniale questa tendenza alla “democratizzazione” del sapere scientifico, ma il processo non si compie solo attraverso di lui. In altre parole, una lode eccessiva del padre della lingua italiana finisce a volte per nuocergli, come in fondo gli nuoce l’idea, piuttosto diffusa tra i professionisti della materia, che nelle scuole debba esserci più Dante. Nelle scuole c’è soprattutto bisogno di uno studio più intenso della storia, della storia della letteratura, della lingua, dell’arte, della scienza. Allo stesso modo, gli studi danteschi avrebbero forse bisogno di meno Dante e di più storia, più scienza, più sociologia, più antropologia e così via. Solo così Dante può essere trasmesso alla modernità, non aumentando le ore di lettura della Commedia.

4. Per Dante c’è un nesso profondo tra amore e conoscenza. Prendiamo la più importante canzone giovanile, Donne ch’avete, che inizia con un’affermazione di grande potenza: le donne alle quali il poeta si rivolge hanno infatti «intelletto d’amore». Questa espressione è stata generalmente interpretata in senso concreto: le destinatarie della canzone ‘sanno che cos’è l’amore’, forse perché l’hanno provato, secondo un’idea tipica della poesia erotica medievale. È tuttavia possibile che debba essere intesa in un’accezione più specifica, poiché intellectus amoris poteva indicare il più alto livello possibile di conoscenza, sintesi di amore e di intelletto. È un’idea che ritroviamo ad esempio in Tommaso d’Aquino, il più importante filosofo del Duecento, che riprende una tradizione più antica risalente almeno a sant’Agostino, secondo la quale il viaggio dell’anima verso il divino si compie nell’unione di amore e intelletto: «Il fine dell’anima umana e la sua ultima perfezione è trascendere attraverso la conoscenza e l’amore l’intero ordine delle creature e pervenire al principio primo, cioè Dio». È un’idea che ha avuto certamente un’influenza profondissima su Dante.

5. Conoscenza è anche la parola chiave di uno degli episodi più celebri della Commedia. Nel canto XXVI dell’Inferno, Dante e Virgilio giungono all’ottava bolgia, tra i consiglieri fraudolenti, dove all’interno di una stessa fiamma stanno Ulisse e Diomede. Quando Dante si rivolge loro, Ulisse, che è il «maggior corno della fiamma», comincia a parlare e racconta la fine della sua storia: la partenza da Circe e la decisione di continuare il viaggio assieme a un piccolo gruppo di compagni (la «compagna / picciola»), invece di tornare a casa da Penelope, per acquisire esperienza del mondo e degli uomini, dei loro vizi e delle virtù. E poi il viaggio in mare aperto verso la Sardegna, la Spagna, Siviglia e il Marocco fino alle colonne d’Ercole, dove Ulisse si rivolge ai compagni per esortarli a superare i limiti (i «riguardi») fissati affinché nessuno andasse oltre («acciò che l’uom più oltre non si metta»). I versi finali del breve discorso sono famosissimi: «Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza» (XXVI 118-120). Ulisse usa parole molto simili a quelle del Convivio. Parla della semenza, dell’origine, perché «tutti gli uomini naturalmente desiderano di sapere»; e fa leva su un episodio molto noto, la trasformazione in porci di alcuni compagni, perché il sapere è ciò che distingue gli uomini dagli animali e dalle piante. E li esorta quindi a seguire (o a perseguire, come si legge in un’edizione recente) la virtù e la conoscenza (canoscenza è una variante formale caratteristica della lingua poetica del Duecento, che in Dante si alterna a quella dell’italiano moderno) proprio come nel Convivio si afferma che il fine del commento è «inducere li uomini a scienza e a vertù».

Ma Ulisse, si sa, è un dannato. E la sua colpa è senza dubbio di aver consigliato in maniera fraudolenta i suoi compagni, persuadendoli a superare le colonne d’Ercole. Un atto severamente punito (la nave affonda subito dopo l’avvistamento della terra ferma) che Dante descrive come un «folle volo». Quindi: l’orazione di Ulisse è o non è ingannevole? E se è ingannevole, che rapporto c’è con il Convivio? Per Dante la conoscenza è o non è il fine principale di ogni uomo? La risposta, nella Commedia, arriva all’inizio del Purgatorio, nel terzo canto, quando Virgilio spiega a Dante che la ragione umana non può comprendere tutto e soprattutto non può intendere le opere insondabili di Dio, per esempio la natura della Trinità. Dante lo ribadisce nella Questio: «La smettano gli uomini di volere sapere ciò che è al di sopra di loro! E si accontentino di spingersi fin dove possono, sì da raggiungere – per quanto loro possibile – la contemplazione di ciò che è eterno e divino». Ulisse, come quasi tutti i “doppi” letterari, è un doppio in negativo. Ci sono dei confini che non è dato superare – e il discorso di Ulisse per convincere i compagni è quindi fraudolento e ingannevole. La conoscenza umana ha dei limiti che non è possibile superare. L’uomo deve “osare”, come dirà Kant; ma entro dei limiti che non è l’uomo a stabilire. Per tornare agli affreschi della Stanza della Segnatura, da un lato c’è la conoscenza – la cognitio – e dall’altro la rivelazione – la notitia. E la Commedia è forse il più perfetto tentativo di tradurre in poesia la conoscenza (tutta la scienza che l’uomo può desiderare) e la rivelazione.

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