Tornato alla guida della Dc sulla scia del congresso di Roma del 6-10 giugno 1973, Fanfani avvia una mobilitazione straordinaria del partito aprendo una sottoscrizione proprio nel segno del cinquantenario dell’assassinio, per mano di sicari fascisti, dell’Arciprete di Argenta. A seguire, il Consiglio nazionale è convocato il 5 agosto presso la tomba del martire, già cappellano militare nella Grande Guerra, in origine legato alla tradizione della prima Dc di Murri e poi alla esperienza del Partito popolare di Sturzo. Nella circostanza, il compito di tracciare un profilo a tutto tondo del sacerdote è affidato a Mario Scelba, anziano leader di una Dc anticomunista, ma nondimeno caratterizzata in senso antifascista per rispetto alla lezione di Sturzo e di De Gasperi. Ripubblichiamo il testo della relazione che l’Ufficio programma della Dc inserì nell’opuscolo stampato subito dopo la manifestazione di Ravenna.

 

Don Minzoni, una sfida al fascismo.

 

Mario Scelba

 

Cari amici, Signore e Signori, l’iniziativa della D.C. di celebrare la ricorrenza del cinquantesimo anniversario della morte di don Giovanni Minzoni, caduto il 23 agosto 1923, a 38 anni, vittima della violenza politica fascista, vuole, anzitutto, rendere omaggio ed esprimere riconoscenza all’uomo che testimoniò con sacrificio della vita la sua fedeltà alla causa della Chiesa e agli ideali democratici cristiani di libertà e di democrazia. A questi sentimenti di omaggio e di riconoscenza partecipano tutti i democratici cristiani d’Italia, qui oggi idealmente rappresentati dai membri del massimo organo del nostro partito – il Consiglio Nazionale – appositamente convocato, in Ravenna, con lodevole decisione della Direzione, su proposta del Segretario politico on. Fanfani.

 

La celebrazione vuole poi ricordare a tutti gli italiani, e specie ai giovani che non hanno conosciuto le lotte cruenti per la libertà, di che lacrime gronda e di che sangue la conquista del regime di libertà, di cui tutti noi oggi godiamo, e di cui non pochi facilmente abusano col rischio di metterne in pericolo l’esistenza. Ma la celebrazione del cinquantenario cadendo in un periodo difficile della vita nazionale, vuole anche avere un più preciso significato. La violenza, come metodo di lotta politica, è tornata di attualità e la sua presenza pesa non poco, negativamente, sullo sviluppo della Nazione e sul suo credito internazionale. In questo quadro, la celebrazione supera l’interesse per la tragicità dell’episodio personale e quello per gli ideali di un partito politico, per coinvolgere tutti gli italiani che credono nella libertà e nella democrazia e si sentono cointeressari al destino di una Patria libera e prospera. Per i democratici cristiani – in particolare – si tratta di rinnovare – oggi – solennemente, l’impegno di fedeltà agli ideali per i quali don Minzoni fece olocausto della vita.

 

Don Giovanni Minzoni non era un uomo comune, anche se il martirio è quel che lo ha consacrato alla storia. Nato a Ravenna il 29 giugno 1885, veniva ordinato sacerdote 1’11 settembre 1909 e destinato ad esercitare il suo ministero ad Argenta. Il 15 dicembre 1916 veniva nominato arciprete, su designazione unanime dei capifamiglia della parrocchia, ai quali un’antica consuetudine riservava il diritto di elezione del parroco. Ma, subito chiamato alle armi, a causa della guerra, poté assumere le funzioni solo tre anni dopo, il 24 giugno 1919, con l’invio in congedo. Destinato, all’atto del richiamo alle armi, ad Ancona, come soldato di sanità, a sua domanda veniva inviato, nel febraio 1917, al fronte, in prima linea, come cappellano militare. Aveva chiesto l’invio al fronte per testimoniare, come cattolico, la sua lealtà verso la Nazione, e in fanteria, perché «i fanti – scriveva – sono i poveri», ed egli voleva restare, come in Argenta, vicino ad essi.

 

In queste scelte, c’è già una parte importante dell’uomo. Le sue qualità umane emergono dal rapporto che il Comandante del 256″Reggimento di Fanteria, Brigata Veneto, di cui faceva parte, redasse il 25 dicembre 1917, per sollecitare la concessione di una medaglia al valore al suo subalterno. L’autore del rapporto, un incredulo, così scrive di don Minzoni: «Ha carattere forte, franco, leale. Ha gentile l’animo e pratica razionalmente la carità cristiana. È molto coraggioso… i soldati lo ricercano. È stimato ed amato da tutti gli ufficiali del reggimento, compresi quelli non credenti o di altra religione. Malgrado il suo spirito ardente e battagliero, nelle discussioni fra ufficiali si conserva calmo e prudente. In combattimento e in trincea è noncurante del pericolo; gira per le trincee e per i posti di medicazione a rincuorare i feriti e i meno animati».

 

La prova della sua tempra di uomo, del suo coraggio, l’offre nell’episodio che si svolge il 15 giugno 1918 sul Piave e che gli valse la medaglia d’argento al valore militare, conferitagli sul campo dal Comandante della Terza Armata, il Duca d’Aosta, con la seguente motivazione: «Instancabile nella sua missione pietosa di confortare feriti, aiutare i moribondi, durante il combattimento, impugnato il fucile e messosi alla testa di una pattuglia di arditi – il comandante del reparto era caduto – si slanciava all’assalto contro il nucleo nemico, faceva numerosi prigionieri e liberava due nostri militari di altro corpo precedentemente catturati». Riferendo l’episodio bellico nel suo diario, e il rischio corso, scrive: «La morte sul campo non mi ha mai fatto paura; mi sembra bella e grande».

 

Don Minzoni segui la vocazione di sacerdote, sapendo di dover operare in una regione ove, per ragioni storiche, il prete – a quel tempo – era letteralmente odiato, e ove la politica, infeudata, anche per l’assenza dei cattolici, ai partiti cosiddetti «laici», non si fermava dinanzi all’altare, ma anzi era protesa attivamente a distruggere gli altari; in una regione in cui, per le misere condizioni del proletariato agricolo e l’indole dei cittadini, le lotte sociali si svolgevano con una asprezza tale da richiamare su di esse l’attenzione preoccupata della Nazione e quella degli stranieri. Ad Argenta le cose erano peggio che nel resto della diocesi di Ravenna, di cui la città faceva parte. In una relazione del 1905 dell’Arcivescovo di Ravenna, dopo la visita pastorale, si parla di «invasione – in Argenta – demolitrice e scristianizzante del socialismo, predicato e professato – come del resto nella provincia – in maniera satanica». E in altra relazione del 1912, quando già don Minzoni operava sul posto, la città è descritta dallo stesso Arcivescovo come «l’emporio di tutte le iniquità, ove anche la libertà di coscienza è conculcata».

 

La posizione dei cattolici, nella provincia di Ravenna, è data da questi risultati avutisi nelle elezioni del 1906 per il consiglio provinciale, al quale partecipavano, per la prima volta, con due candidati: Ing. Fabiani e Ing. Castellucci: repubblicani 8.798; socialisti 4.318; cattolici 552; in questa cifra erano compresi i voti dei 150 preti della diocesi! In una terra bruciata dalla predicazione e dall’azione, per lungo tempo pressoché incontrastate, di un socialismo rivoluzionario anticristiano e in un clima acceso d’intolleranza e di estremismo sociale, il 10 maggio 1910, a 25 anni, don Minzoni inizia il suo ministero sacerdotale come cappellano in una parrocchia d’Argenta, S. Nicolò. Il contatto con la realtà dovette essere conturbante s’egli parla di senso di «smarrimento» provato dinanzi alla gravosità del compito. Come programma, si pone di agire in due direzioni: la formazione dei giovani e l’azione economico-sociale. Avverte però subito la sua impreparazione per quanto riguarda quest’ultima attività, e nel 1912 s’iscrive alla Scuola Sociale di Bergamo, istituita nel 1908, e al termine di tre anni consegue la laurea con pieni voti.

 

Rientrato ad Argenta, dopo aver ricevuto la laurea, agli amici che lo festeggiano dice: «In questi pochi anni che ho vissuto con voi ho sentito il bisogno, oltre che di lavorare per la causa del bene, di dedicarmi e di approfondirmi in una scienza troppo necessaria al movimento cattolico. Oggi che il mio studio è stato, con l’aiuto di Dio, felicemente coronato, vi faccio solenne promessa che non sarà un alloro che appenderò a un ramo della mia vita perchè vi abbia ad avvizzire, ma piuttosto lo considero come un’arma sacra datami dalla Provvidenza perchè abbia a servire, come le mie modeste forze permetteranno, alla causa di Cristo, che è causa comune!». Ma anche con la laurea in scienze sociali, pur facendo presa come uomo per il suo calore umano; non riesce a sfondare come sacerdote. Di qui un senso di frustrazione che lo spinge a scrivere nel suo diario: «Sento come un’invidia, uno spasimo per i trionfi dei partiti avversari e provo talvolta ildesiderio di essere fra le loro file tanto per ottenere una vittoria, la vittoria di un giorno». Don Minzoni durante gli anni del seminario, che sono quelli delle lotte della prima democrazia cristiana, con don Romolo Murri, in testa, parteggia per l’una e per l’altro. Ma quando, nel marzo 1909, don Murri, eletto deputato, viene scomunicato, il chierico Minzoni, commentando nel diario la lettera scritta dal primo al suo vescovo in risposta alla scomunica, ha parole dure di critica.

A seguire il testo completo

Don Giovanni Minzoni Martire per la libertà