Dopo il taglio di deputati e senatori quale riforma del sistema parlamentare?

Un sistema organizzativo capace di valorizzare il dualismo

Le vicende sempre più complicate e conflittuali tra Stato e Regioni per la gestione della pandemia da Covid-19, la presentazione da parte di un gruppo di senatori del PD di una proposta di riforma costituzionale per razionalizzare il parlamentarismo, introdurre la sfiducia costruttiva e differenziare le due Camere, il risveglio dell’interesse dell’opinione pubblica per le riforme costituzionali (v., sul Corriere della Sera del 12 novembre scorso, la proposta di E. Galli della Loggia di “cancellare i localismi”)  ed, in ultimo, anche l’avvio degli incontri tra le componenti della maggioranza che sostengono il Conte II per arrivare a definire il programma delle cose da fare nella seconda parte della legislatura hanno indotto alcune Associazioni siciliane che si erano schierate per il NO al referendum costituzionale sul taglio del numero dei parlamentari del settembre scorso ad organizzare un interessante webinar tra addetti ai lavori (costituzionalisti, politologi, opinionisti, politici) ed esponenti della società civile e del mondo giovanile ‘impegnato’ per riflettere in ordine a “quale riforma del sistema parlamentare” sia, ora, auspicabile dopo il risultato referendario.

Dai numerosi interventi registrati, unanime è emersa l’indicazione che il processo di rinnovamento non si può certo fermare alla semplice riduzione del numero dei parlamentari ma deve essere sviluppato almeno nella direzione della riforma del ruolo e delle funzioni parlamentari. Per non dire della “forma di stato” e della “forma di governo”. Oltre, naturalmente, che dei sistemi elettorali. Da tutti, insomma, è emersa la falsità della critica dei fautori del SI al referendum che, durante tutto il dibattito, accusavano i sostenitori del NO di “conservatorismo” e di voler continuare ad imporre un modello di democrazia rappresentativa ormai condannato dalla storia e, comunque, in irreversibile declino di fronte all’emergente modello della democrazia diretta.

Se avessero qualche idea e quale fosse la visione di chi, comunque, criticava il sistema parlamentare per la sua crisi sempre più grave era non solo ignorato ma pregiudizialmente negato! La “democrazia dei moderni” era ormai diventata il passato e chi non si fosse aperto al nascente sole dell’avvenire popolare (rectius: populistico) non poteva essere portatore di istanze di rinnovamento. Questa era la convinzione dei sostenitori del ‘taglio’ dei parlamentari che, poi, integravano questo loro progetto con l’idea del rafforzamento dello strumento referendario e l’abolizione del divieto di mandato imperativo.

Fortunatamente, queste due ulteriori proposte di riforme costituzionali si sono via via arenate ed oggi sembrano dimenticate. Quel che resta sul campo sono, invece, tre iniziative costituzionali con le quali si intenderebbe: 1) parificare l’elettorato attivo del Senato a quello della Camera; 2) superare l’attuale base regionale per l’elezione del Senato; 3) ridurre i delegati regionali per l’elezione del Presidente della Repubblica. Inciampando così nel più classico dei casi di eterogenesi dei fini. Poiché, dopo la riduzione del numero dei parlamentari, ci si troverebbe nel bel mezzo di un processo di conferma e rilancio del bicameralismo simmetrico proprio da parte di quelle forze politiche che, in qualche modo, avrebbero voluto metterne in discussione il principio di rappresentanza.

L’indirizzo, però, pur essendo sostenuto da qualche ragionamento indubbiamente suadente (come quello di R. Dickmann su federalismi.it del 21 ottobre 2020), poggia su un assunto francamente molto debole: che sarebbe, cioè, una linea da scegliere perché si tratta “della via riformista più agevole da praticare nelle attuali contingenze storico-politiche, oltretutto fortemente condizionate dalla grave pandemia da Covid-19”. Ora, se questa è alla fine la ragione per adottare questa prospettiva, a me sembra che anche le soluzioni più sofisticate, elaborate per migliorare la reciproca collaborazione fra le due Camere, si rivelerebbero interventi privi di decisività poiché la crisi del nostro bicameralismo è una crisi molto complessa che coinvolge  l’organizzazione del governo, dello stato e dei sistemi elettorali. Il che significa anche che non potrebbe ritenersi soddisfacente né meno una conversione del bicameralismo in monocameralismo poiché quest’ultimo imporrebbe la centralità della sola rappresentanza politica mentre il pluralismo storico, culturale, sociale ed economico del nostro Paese richiede il riconoscimento anche della rappresentanza territoriale (da affidare al Senato della Repubblica).

Dunque, superando l’inconcepibile tabù dell’impraticabilità di una riforma organica, è all’intero sistema di governance che bisogna guardare, anche se si può immaginare di organizzare per singoli ambiti il processo riformistico. Cominciando dal problema della differenziazione del ruolo delle due Camere a cui bisogna volgere l’attenzione per costruire nuove istituzioni parlamentari più forti ed autorevoli delle attuali Camere.

Queste, come accennato sopra, non possono più continuare ad essere fondate sulla sola rappresentanza politica ma devono riconoscere anche quella territoriale delle Comunità regionali e locali. E per far ciò non vi è migliore opportunità di questa riduzione del Senato a 200 componenti che, diventando i rappresentanti delle Regioni e degli Enti locali nel Parlamento repubblicano, potrebbero dar vita ad un luogo autonomo di espressione degli interessi territoriali dove evitare la ‘lotta continua’ tra esecutivi regionali e nazionale e praticare il dialogo ed il confronto in una sede politica e non giudiziaria o attraverso i mass-media, come invece è avvenuto finora, dalla riforma del 2001 del Titolo V della Costituzione, e si è ulteriormente accentuato, raggiungendo toni parossistici, in questi ultimi mesi a causa della pandemia in corso.

Quindi nessuna cancellazione dei cd. localismi di cui parla E. Galli della Loggia. Anzi, finalmente, la loro razionalizzazione e valorizzazione secondo l’organico disegno costituzionale dell’articolo 5.

Stabilito questo (che significa anche incidere in qualche modo sulla “forma di stato”), si dovrebbe poi -per andare ancora nella direzione della differenziazione- operare in ordine al riparto delle competenze tra le due Camere, fissando anche per la funzione di controllo e per quella legislativa dei rigidi criteri di distinzione, dei quali non è questa la sede per parlarne.

Qui, piuttosto, ciò che bisogna sottolineare è che la semplice differenziazione di ruolo e di funzioni  delle due Camere non sarebbe sufficiente al cambiamento che si rende necessario per superare la crisi che attanaglia la nostra democrazia rappresentativa e le sue istituzioni repubblicane di vertice.

Al fine del suo superamento, infatti, come dicevo sopra, altri due dovrebbero essere i settori di riforma da affrontare per avviare il processo virtuoso di rinnovamento della nostra democrazia: il primo, quello che si è soliti indicare con l’espressione “forma di governo” e che concerne la relazione parlamento-governo, il rapporto fiduciario, le modalità del voto di fiducia e di sfiducia e quant’altro; il secondo, inerente il sistema delle leggi per l’elezione delle Camere: se proporzionale con liste bloccate o con possibilità del voto di preferenza o maggioritario per effetto di collegi uninominali o di massicci premi di maggioranza.

Riferendomi ora alla forma di governo, io penso che la proposta di trasformazione del Senato in una Camera delle Autonomie (o, anche, delle Regioni) imponga il superamento del parlamentarismo e l’introduzione di un sistema di governo basato sull’autorevolezza del Premier eletto direttamente dal Corpo elettorale, innanzi tutto, per garantire la tenuta dell’unità nazionale e, poi, perché non è più possibile continuare ad imputare le decisioni politiche ad un organo parlamentare rappresentativo ma sostanzialmente irresponsabile. È arrivato infatti il tempo in cui poteri e decisioni siano chiaramente imputabili e soprattutto riconducibili a programmi sottoposti preliminarmente all’approvazione della volontà popolare e poi trasformati in progetti specifici elaborati dagli apparati tecnico-amministrativi dei quali il Governo si assume la responsabilità. Che il Parlamento potrà controllare attraverso la verifica della corrispondenza con gli interessi espressi dal corpo elettorale al momento della sua elezione.

Si realizzerebbe così, attraverso questo meccanismo non più fondato sul rapporto fiduciario ma su una relazione funzionale di controllo tra Parlamento e Governo, un sistema organizzativo capace di valorizzare il dualismo delle funzioni che Parlamento, da un lato, e Governo, dall’altro, esercitano. Non solo. Ma si creerebbe un circuito virtuoso fondato sull’interazione di questa  inedita attività di controllo del Parlamento con la rinnovata funzione di governo del Premier, che costituirebbe la vera essenza della riforma dell’attuale democrazia rappresentativa in democrazia della responsabilità. Delineando così delineando un sistema comunitario di civismo (come è stato detto per indicare qualche recentissima esperienza politica) del quale già qualche elemento di apprezzamento si può cogliere in quegli ordinamenti in cui non è solo l’organo collegiale di rappresentanza ad essere eletto direttamente dal corpo elettorale ma anche quello monocratico titolare della responsabilità di governo. (Mi riferisco, come è facile intuire, al modello di governance comunale e regionale depurato, però, delle storture più recenti).

Insomma, si riallaccerebbe così con la cittadinanza un rapporto che oltre ad essere di controllo democratico è (tramite il Parlamento) anche d’indirizzo politico e quindi in grado di consentire a cittadini ed istituzioni, governanti e governati, popolo ed èlites di sanare l’attuale frattura ed incomunicabilità e riconciliarsi in un nuovo circuito virtuoso di partecipazione e condivisione.

E vengo al secondo ‘lotto’ di riforme indispensabili, se si dovesse trasformare il Senato in  senso ‘federale’ ed introdurre il premierato. Come accennato, si tratta delle leggi elettorali per la scelta  del Senato e della Camera dei Deputati e per l’elezione del Premier che, nel contesto delle trasformazioni qui auspicate, devono certamente essere modificate ancorché con leggi ordinarie. Con una premessa che dovrebbe essere norma inviolabile. E cioè che, poiché i sistemi elettorali sono funzioni intangibili delle istituzioni a cui si applicano, i modi di eleggerne i titolari dovrebbero essere coerenti con la loro logica di funzionamento e non con gli interessi dei gruppi o dei partiti al potere per garantirne la permanenza.

Detto questo, l’altra osservazione scontata che vorrei fare con riferimento a Senato e Camera è che i due sistemi elettorali non possono essere gli stessi dovendo garantire rappresentanze diverse: territoriale il Senato della Repubblica e politica la Camera dei Deputati. Il che, riferito al Senato, consente di sostenere che il sistema elettorale da applicare a quest’ultimo, a differenza di quello della Camera ad elezione popolare diretta, dovrebbe consistere in una votazione per via indiretta con modalità di secondo grado. E ciò perché nella sua nuova configurazione, essendo il Senato chiamato a rappresentare in maniera olistica gli interessi delle Comunità regionali e locali, deve rispettare la composizione che i legittimi organi di queste ultime hanno saputo raggiungere mediando al proprio interno fra di loro. Naturalmente, si potrebbe adottare un sistema a suffragio popolare diretto ma l’argomento evocato mi sembra dirimente.

Diverso, invece, il sistema da adottare per l’elezione della Camera dei Deputati. Che, come dicevo, non può non essere che a suffragio popolare diretto perché deve dare voce e rappresentanza nelle istituzioni alla complessità del Popolo nella sua articolazione pluralistica. Articolazione pluralistica che proprio perché tale impone, poi, l’adozione del sistema proporzionale al fine di introdurla e rappresentarla all’interno delle istituzioni senza operarne alcuna forzosa e forzata riduzione all’unità. Non solo. Ma non dovendo più legittimare il Governo attraverso il suo voto di fiducia non è più necessario che al suo interno (così come, del resto, all’interno del Senato) si formi una maggioranza strutturata e stabile per il cui raggiungimento in una situazione frammentata come l’attuale è necessaria l’opzione per sistemi elettorali maggioritari. Insomma ed in definitiva, per la Camera dei Deputati il sistema elettorale che appare obbligatorio è quello proporzionale ma senza liste bloccate e con l’abbinamento ai collegi uninominali che, evidentemente, esclude il voto di preferenza altrimenti irrinunciabile.

In questo modo si realizzerebbe un Parlamento in grado di mutare pelle e, sulla base di queste inedite configurazioni di Camera e Senato, di controllare in maniera efficace l’operato del Governo con la possibilità, in ultima istanza, di poterne rimuove il Premier.

Naturalmente, un pacchetto di riforme come queste, e per la sua centralità istituzionale e per la radicale innovazione organizzativa che implica, abbisogna di un approfondimento che ne renda espliciti tutti i passaggi, chiare le varie interconnessioni e, soprattutto, evidente la migliore resa funzionale che la governance del Paese ne acquisirebbe. In particolare, comparando quest’ultima alla proposta di riforma  costituzionale presentata, lo scorso mese di ottobre, dal Gruppo del PD al Senato (AS 1960).

Proposta di riforma quest’ultima che, senza potere entrare in questa sede nel merito di un’analisi puntuale, appare francamente inefficace nel volere valorizzare la stabilità del Governo attraverso l’introduzione della sfiducia costruttiva da parte del Parlamento in seduta comune e poco convincente nel tentativo di restituire maggiore autonomia e più autorevolezza al Parlamento nell’esercizio della funzione legislativa.