Ora che finalmente la lunga telenovela si è conclusa gli spettatori (che si erano ormai stufati da tempo) si sono per un po’ risintonizzati sul canale che l’ha trasmessa per oltre quattro lunghi anni con la curiosità di chi vuol sapere come è finita la storia (intrigante ai suoi inizi, ma poi dilatatasi stancamente per un numero eccessivo di puntate). Gli sceneggiatori hanno alla fine optato per un tranquillizzante happy end dopo esser rimasti a lungo suggestionati da quella hard Brexit che avrebbe dato al tutto un senso di drammaticità che il dilatamento temporale aveva via via stemperato. Già, ma è stato un vero happy ending?

Come sempre, sarà lo scorrere del tempo a fornire la risposta. Nel corso delle prossime settimane il simbolo di Brexit diverranno le scontate e previste lunghe code di TIR in entrata/uscita dal tunnel della Manica o nei porti di Dover e Calais provocate dal ripristino dei controlli doganali: uno dei regali, appunto, di Brexit. Ma più in là nel tempo al simbolismo buono per i reportages televisivi si sovrapporranno le conseguenze sulla vita reale dei cittadini britannici nel suo scorrimento quotidiano. E queste potrebbero essere non così buone come invece i brexiters, a cominciare dal premier Johnson, hanno ossessivamente promesso e assicurato. Sarebbero certamente state disastrose in caso di no deal, ed infatti alla fine della partita di poker con la UE Boris Johnson ha sottoscritto un accordo di sostanziale compromesso: un accordo di libero scambio esente da dazi e tetti quantitativi ma non da controlli doganali per le merci (ma non per i servizi, inclusi quelli finanziari) in grado così di salvaguardare uno scambio commerciale con l’Unione Europea che vale il 43% delle sue esportazioni e di garantire l’afflusso (ancorché rallentato dagli stop alle frontiere) dei prodotti made in EU. 

Ciò dovrebbe consentire, nei piani del governo conservatore, di limitare i problemi pratici della gente comune per così poter continuare ad enfatizzare i risultati raggiunti come nazione: sostanzialmente, la fine della sottomissione ad una regolamentazione europea mai davvero ben tollerata e ad una Corte di Giustizia, quella di Lussemburgo, sempre avvertita come ostile ed invadente, ora sostituita con un meccanismo di “arbitrato” studiato per affrontare e risolvere contestazioni future da parte dei contraenti in merito a diverse interpretazioni del medesimo (soprattutto, è lecito prevedere, in tema di concorrenza leale). Il c.d. level playing field dovrebbe garantire a Londra la possibilità di adottare normative distinte da quelle derivanti dalla regolamentazione europea (ad esempio meno impegnative e onerose in questo o quel settore) ma non tali da comportare un danno rilevante alle aziende continentali sul fronte della libera e leale concorrenza. Cosa ciò significherà in pratica lo si comprenderà meglio quando si vedrà se il meccanismo di arbitrato verrà utilizzato e con quale frequenza. A ciò si aggiunga un ulteriore elemento che la leadership conservatrice inglese non mancherà di rimarcare, ovvero il riacquisito pieno controllo degli accessi delle persone fisiche nel Regno Unito. Senza un visto, regolato da un sistema a punteggio particolarmente rigoroso, non si entra.

In definitiva, come è stato detto, l’accordo ha consentito alla Gran Bretagna di “uscire dall’UE ma non dall’Europa”; mentre Bruxelles ha senza rimpianti lasciato Londra al suo autoisolamento ma non rinunciando all’export nei suoi confronti e soprattutto ai principi che regolamentano il suo mercato unico. Da questo punto di vista occorre riconoscere al capo-negoziatore, Michel Barnier, l’eccellenza del lavoro svolto, con determinazione, grinta e competenza invero notevoli. E all’Unione, per una volta, la capacità di rimanere compatta durante tutte le fasi della lunga ed estenuante trattativa.

Tutto è bene quel che finisce bene, dunque? Le cose non sono così semplici, naturalmente. Quello che ancora non si è ancora valutato appieno sono le conseguenze politiche di Brexit. Nel Regno Unito, e in Europa. Ne parleremo in un prossimo articolo.