Dopo una bibliografia sterminata su Bob Dylan, finalmente un libro “diverso”. Non l’ennesima biografia o l’ennesima analisi dei testi, ma una libera espressione del pensiero dei fan. E ce ne sono di tutti i tipi, da quelli davvero fanatici a quelli “assennati e smagati” (così si autodefinisce il critico letterario Massimo Raffaeli). Ma anche quelli “laici”, restii a lasciarsi catapultare nella mitologia, ne riconoscono la grandezza e illuminano i pertugi da dove sono passati i lampi di luce del “menestrello”, arrivato niente meno che al Nobel per la letteratura (2016).

Così si gioca sul cambio di una lettera e i dylaniani diventano Dylaniati, Al titolo si aggiunge, per spiegarlo ai profani, “testimonianze di una passione”. Edito da Affinità elettive, una piccola ma prolifica casa editrice anconetana (con una bravissima direttrice editoriale), il volume raccoglie trentadue interventi di appassionati di tutte le età e generazioni.

Gli stessi curatori si distanziano di circa vent’anni ciascuno. Massimo Papini ne ha 72 ed è cresciuto con il Dylan della protesta, delle marce per la pace e dei rapporti non facili con l’altro sesso. Sergio Sparapani ne ha 52 ed è arrivato a Dylan dopo averlo selezionato tra una miriade di cantanti e gruppi folk e rock. Emanuele Mochi, infine, è il più giovane, ne ha 32. Di lui, gli altri curatori si divertono a dire: “Nobody sings Dylan like Mochi…”

Tra gli autori veri, quelli che per l’occasione hanno scritto storie diverse, spiccano alcuni giovani americanisti, poi storici contemporaneisti, critici letterari, giornalisti, musicologi e, soprattutto, musicisti, alcuni di fama nazionale. Ma non manca la signora francese che ricorda un amore giovanile con un italiano, che le aveva creato tante illusioni facendole ascoltare proprio Bob Dylan… e si chiamava Roberto pure lui.
Resta da domandarsi perché mister D. (come lo chiama confidenzialmente Sparapani), che fondamentalmente è un poeta beat (ritratto in una foto famosa con Allen Ginsberg intento a rendere omaggio alla tomba di Jack Kerouac) abbia suscitato tante emozioni in ascoltatori anche molto diversi tra loro.

Soprattutto, aggiungiamo noi, come ha fatto a trovare le note giuste per musicare versi degni di un grande poeta. Sic parva licet componere magna, la tradizione è quella di Omero o di Shakespeare. Scrivevano non per essere letti, ma per essere recitati. Così un ragazzo alle prime armi ha imparato al Greenwich village ciò che facevano i poeti beat: recitavano i propri versi con il sottofondo di musica jazz. E lui li ha adattati ai temi e alle aspirazioni dei giovani della sua generazione.
Il resto è storia. Oggi il “menestrello” ha quasi ottant’anni ma continua a girare il mondo magari con nuove canzoni, evocando l’angoscia per un’epoca resa insicura dal Covid o ricordando al mondo intero, e non solo ai suoi compatrioti, che l’uccisione di Kennedy non ha riguardato solo l’assassino, ma l’umanità stessa, corresponsabile e vittima allo stesso tempo della violenza.

Tornando al libro, trentadue testimonianze raccontano sì l’incontro con la musica di Dylan, ma soprattutto rivelano che generazioni diverse possono confrontarsi sempre sui grandi temi dell’esistenza; e anche gli atei più incalliti trovano profetico il richiamo di Dylan al tema della salvezza. Sembra assurdo, ma solo i poeti più sublimi possono percorrere la strada tra Gerusalemme e New Orleans, citando il profeta Isaia o il Deuteronomio e ritrovarsi sempre figli di Abramo, siano ebrei, cristiani, mussulmani o atei…o tutte queste cose insieme.