È tornato di moda. Considerazioni e appunti sul trasformismo.

Un fenomeno ridotto a formula di malcostume disvela nella sua genesi storica e nel suo pratico impatto politico una potenzialità che attinge a un elemento di saggezza e prudenza, forse anche di verità.

 

Nino Labate

 

Devo ringraziare mons. Ravasi che dalle pagine del Sole Ore mi ha fatto conoscere la poesia di Trilussa “Er carattere”. Scritta moltissimo tempo dopo che Agostino de Pretis aveva varato il suo governo “trasformista”, Trilussa scherza, al suo solito in romanesco, su un dialogo tra un camaleonte e un rospo: “…ognuno crede a le raggioni sue, disse er camaleonte, io cambio sempre e tu nun cambi mai”. “Credo che se sbajamo tutt’e due”, rispose il rospo. Ecco, Trilussa dopo che in un primo tempo aveva parlato male del trasformismo, avanza ora il sospetto, in questa poesia, che se uno crede rigidamente alle proprie opinioni  senza mai avere dei dubbi, può incorrere in  errori allo stesso modo di chi le cambia spesso.

 

Gli studiosi  possono spiegare meglio. Io in tempo di Covid ho solo passato un poco di tempo spulciando articoli e leggendo  qualche cosa  su Internet. E divagando.

 

Sul trasformismo sono stati pubblicati decine di libri. Ed è  stato approfondito in tutti i suoi aspetti. Quasi sempre demonizzato come paradigma dei voltagabbana senza spina dorsale,  dell’incoerenza e della mancanza di rispetto verso la propria identità. Come populismo antipolitico. Subentrato ai nostri giorni alla crisi dei partiti politici del  Novecento e della loro cultura ormai naufragata nel maremagnum del mondialismo. Sempre ricordato e citato nel suo lato negativo di interessi individuali o di lobby su cui si è soffermato con molta superficialità anche Galli della Loggia citandolo come “luogo paludoso di centro” dove ormai confluiscono destra e sinistra, oggi scomparsi e senza più significato  nell’offerta  politica (sic!).

 

Osservato infine come segno di una  etica volgare, liquida e ballerina: quella del proprio tornaconto. Mentre collocandolo sui profondi cambiamenti sociali e culturali che viviamo,  potrebbe anche suggerire una più convinta etica solida, storicamente determinata, in funzione della responsabilità e della propria consapevole coscienza del momento storico, al di là dei nostri pregiudizi.

 

Comunque stiano le cose e benché di fronte ad una  enorme mole di riflessioni, i paradossi della storia politica legati a questo sostantivo non si riesce a contarli. Uno fra i tanti, e credo il più significativo, è  le centinaia di volte che è stato citato a sproposito, dalla fine del governo Renzi in poi, transitando da Conte e sino al Draghi dei nostri giorni, che,  volendole contare, superano certamente tutte le volte che è stato citato da De Pretis ad oggi. Per molti commentatori il nostro è un tempo di trasformismo…a prescindere.

 

Ma vediamo meglio partendo da lontano. Dalla Calabria. Cosa centra la Calabria con il trasformismo? L’antropologia, la cultura e la storia dei calabresi ci suggeriscono una costante degna di rilievo. E questo nonostante il continuo fango gettato su questa infelice ma nobile e antica terra. La costante è quella greca (e grecanica) del ritorno ad Itaca. Dell’accoglienza. Della nostalgia della propria casa. Dell’amore verso le proprie radici. Del forte attaccamento al passato e alle tradizioni. Del “familismo”: anche di quello “amorale” purtroppo. Ma anche quella del rispetto della parola data e della coerenza dei comportamenti. Del giuramento sul proprio onore, nel bene e nel male, specie quando si trasferisce agli “uomini d’onore”. Quella insomma  che racconta di “donne e uomini …di parola” che, ahimé, non riescono mai a mettersi insieme.

 

Succede tuttavia che interrogando la storia risorgimentale, il primo incoerente e “voltagabbana camaleontico” italiano, sia stato proprio un calabrese: tale Giovanni Nicotera. Repubblicano convinto ed esponente del partito della sinistra liberale, nato a Sambiase (Catanzaro) da “famiglia di tradizioni illuministiche e giacobine”. Che possedendo alcuni valori, era però di vista acuta e aveva il dono di guardare lontano. Condivisibili o meno. Un massone ex mazziniano sin dalla Giovane Italia e un progressista, anticlericale, attivo e presente, assieme al suo amico Pisacane, nella spedizione di Sapri per liberare i prigionieri di Ponza. E dopo, vestito da combattente, nella presa di Porta Pia e in Aspromonte accanto ai garibaldini. Eh… insomma un carattere impulsivo, dicono gli studiosi.

 

Fu però proprio lui che da Ministro dell’Interno, senza  invocare i pieni poteri ed esibire nei comizi  la  croce di Gesù e il Vangelo, spinge successivamente il suo compagno di partito Agostino De Pretis a creare un governo trasversale assieme ad una modesta quota parte della destra italiana di quegli anni. Il motivo del calabrese era scontato. Ed era un motivo centrale per i suoi ideali: avviare le riforme per lo sviluppo del Mezzogiorno d’Italia,  e mettere al primo posto dell’azione di governonla Questione Meridionale. Pensate un poco…eravamo nel 1876 e,  dopo la bellezza di 145 anni, è ancora  un tema prioritario nell’agenda di Mario Draghi.

 

Ma proseguiamo.

 

Perché Nicotera, con il preciso, solo e unico scopo di realizzare questo suo sogno, aveva iniziato a contattare diversi deputati della destra e si stava dando da fare per trovare accordi in Parlamento al di là del suo partito, delle appartenenze e degli schieramenti politici. Insomma è lui che pone le basi del cosiddetto trasformismo, che poi in quegli anni  conclude a piene mani  De Pretis. A Nicotera interessava solo risolvere i gravi problemi sociali e lavorativi  del Sud, e combattere il brigantaggio. Ed era completamente disinteressato del colore di chi aderiva a questo suo utopico progetto.

 

Fu a quel punto che De Pretis, avendo fiutato la mossa e capito dove voleva andare a parare Nicotera, per non farsi spiazzare dal suo collega di partito, trovatosi  nel paesino di Stradella per la sua campagna elettorale, dove aveva il suo collegio elettorale – paesino distante appena 16 chilometri da Bressana Bottirone, suo paese di nascita vicino Pavia –  pronunciò ufficialmente e ad alta voce il suo famoso discorso. Illustrando anche un intero programma di riforme e concludendo: “Se qualcheduno vuole entrare nelle nostre file, se vuole accettare il mio modesto programma, se vuole trasformarsi e diventare progressista come posso io respingerlo?.

 

Grazie a queste parole, rimaste a futura memoria e interpretate sempre, ma sbagliando sempre, come metafora disonorevole della classe politica, De Pretis formò successivamente il suo governo con diversi deputati disponibili della destra storica. Disponibili perché convinti del programma annunciato. E disponibili a sedersi “formalmente” dalla parte opposta da dove si erano  sempre seduti in Parlamento dopo la loro elezione. Con qualche tornaconto personale non c’è dubbio: questione secondaria però rispetto al serio disegno riformista posto sul tappeto da De Pretis.

 

Per curiosità e per capire meglio il determinato momento storico e sociale di quel periodo, va ricordato che i  votanti italiani  di quell’anno – siamo, ripeto, nel 1876 –  erano solo uomini di età superiore ai 25 anni.Tutti alfabetizzati. E tutti  in grado di pagare le tasse: 530 mila circa. Il 2% della popolazione italiana formata, all’epoca, da 26 milioni di cittadini. Un misero 2% di italiani aristocratici cosi composto, che decideva  dunque le sorti dell’intero Paese, l’assetto di potere e il programma di governo, su cui il trasformismo aveva un impatto sicuramente scandaloso, anche per i concreti interessi terrieri che tutelava la elitaria classe politica di quel periodo.

 

Quali sono allora i rimproveri da muovere a Nicotera ?

 

Questo tenace, non lineare, discusso e discutibile uomo calabrese può solo rimproverarsi di non aver insistito molto sulla (sua) “Questione Meridionale”.  Perché  tale è  rimasta e tale la troviamo ancora ai nostri giorni. Tuttavia, il suo costante impegno, ambiguo quanto si voglia, e la sua  lungimiranza sono  serviti  almeno a far capire che quando si vuole risolvere una questione annosa e centrale per il futuro del Paese, gli schieramenti, i partiti e dove perciò si sta seduti nello spazio geometrico dell’emiciclo  parlamentare sono inutili  e  contano poco.

 

Credo allora sia giusto interrogarci se per caso nei  momenti in cui bisogna risolvere enormi e gravi problemi nazionali si debba andare alla sostanza delle cose e non fermarsi alla superficiale forma del partito, al suo spazio geometrico o agli interessi personali dei suoi deputati. La vicenda di Draghi potrebbe servire da lezione. Ma Michele Salvati sul Foglio del primo maggio di quest’anno guarda molto avanti e si spinge oltre interrogandosi se “siamo sicuri che un governo tra forze politiche ideologicamente opposte debba essere considerata come un’esperienza unica piuttosto che una nuova normalità?”. Se siamo “tutti sulla stessa barca” e bisogna remare tutti insieme per uscire fuori dalla tempesta, allora quando si cerca il bene comune, ovvero il bene di tutti, si può anche andare al di là della forma, dei propri convincimenti e delle proprie ideologie e  “trans-formarsi“, appunto. Senza scandalizzare e scandalizzarsi.

 

E quando la storia cambia velocemente e la societa avanza verso lidi globali sconosciuti, verso un ignoto futuro, si rimane  in pochi a pensare che i partiti, la loro cultura, i loro accordi, le loro ideologie, i programmi, lo stesso elettorato di riferimento, debbano invece rimanere fissi e ancorati alle idee del passato. Bello quanto si voglia, ma inutile anche solo per farci capire i segni dei tempi.

 

Circa duemila anni fa Paolo di Tarso, in una sua accorata e profonda lettera ai Corinzi, e senza cedere nulla al relativismo ontologico, ci avvertiva sui cambiamenti dei modi di pensare a cui siamo sottoposti nel corso della vita. Dopo averci raccomandato che corriamo il rischio di trasformarci in meri e inutili  “bronzi che rimbombano…” se ci facciamo mancare la Carità, ci ha ricordato in una  prospettiva di ricerca e attesa del Divino, l’inevitabilità dei cambiamenti dei  nostri modi di pensare e di valutare le cose: “Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino”.