A fronte di una popolazione stimata al tempo intorno alle 160.000 unità, ne restarono colpiti poco meno del 6% degli abitanti (circa 9.500 cittadini), che non fu affatto poco. Guarirono in 3.953, mentre per gli altri non ci fu nulla da fare.

Stando alle testimonianze dell’epoca, le giornate estive correvano splendide, la vita continuava nella sua frizzante quotidianità e già fervevano i preparativi per la celebrazione dell’Assunzione di Maria, che in città era tradizionalmente molto sentita e oggetto di grande partecipazione popolare. I giovani rampanti discutevano sui primi vagiti del movimento risorgimentale che stava irrompendo nelle province settentrionali della penisola. Così si presentava Roma nel luglio del 1837, quando il cosiddetto “fulmine a ciel sereno” colpì con tutta la sua virulenza e drammaticità, gettando la cittadinanza nel panico. A dire il vero, rispetto agli iniziali casi di colera riscontrati alcuni mesi prima in diverse città stato italiane del Nord (vedi Lombardo-Veneto), Roma non si era fatta cogliere impreparata: già dal 1835, infatti, una equìpe di esperti era stata delegata dalla Santa Sede a presidiare e seguire ogni caso sospetto, di vagliare bene la situazione medico-sanitaria e di intervenire qualora si fosse reso necessario. In parte, le autorità avevano già cordonato l’Urbe, ma, causa di forza maggiore, a inizio 1837 il morbo riprese a diffondersi da Napoli immediatamente a ridosso dello Stato Pontificio, sino a quel momento per grazia di Dio risparmiato.

Le cronache raccontano di un pendolare di ritorno da Ceprano che si era ripresentato a Roma con sintomi simili a quelli riscontrati negli individui affetti dalla tanto temuta malattia (ma tu vai a sapere se quel poveraccio fu veramente il primo veicolo del contagio). Di lì, il passo fu breve. La medicina e le autorità, benché fossero state adottate le dovute misure precauzionali e nonostante i dubbi sulla natura reale del morbo nutriti da alcuni tra i migliori specialisti della piazza, non ebbero il tempo materiale per intervenire in modo drastico. «Sviluppato il cholèra in questa città popolosa con porto franco, fu cinta tosto di cordone sanitario, mentre floridissimo [era] il suo commercio immediatamente cessato». Così recitava un bollettino medico ufficiale del tempo; centinaia di persone finirono in quarantena, i maggiori presidi ospedalieri vennero isolati e furono redatte le prime stime numeriche del contagio. Tra le vittime illustri, anche Giacomo Leopardi.

 Salus popoli, suprema lex, quindi. Ma a peggiorare drammaticamente la situazione fu la processione dell’Immacolata (e tutto il suo “indotto”) che il 15 agosto partì da Santa Maria Maggiore e sfilò per le vie del centro, dando luogo – vista la partecipazione di diverse migliaia di fedeli – al boom di contagi, che in breve tempo toccò quasi quota diecimila. All’epoca, nello spettacolo delle grandi lucernarie e delle fiaccole luminose esposte a Roma durante i rituali dell’Assunzione, che potevano durare giorni e giorni, molti rioni erano soliti a loro modo celebrare la ricorrenza anche a livello locale. Si trattava di una festa nella festa. La maggior parte dei malati proveniva dalla popolosa Trastevere, da Borgo e da Monti, dove i festeggiamenti si protrassero oltre modo. Il San Giacomo e il Santo Spirito andarono in tilt in poche ore coinvolgendo anche molti medici e infermieri, rimasti a loro volta colpiti dal terribile morbo (allora attribuito a un’epidemia di provenienza asiatica). L’applicazione delle cure, ancora ingenuamente olistica e povera dei mezzi adatti per fronteggiare l’epidemia, prevedeva l’ingestione «di valeriana, olio dei ricini o [anche] eziandio bibite tiepide d’infusioni di fiori di tiglio, le quali trovava di un ottimo effetto». I contagi iniziarono a diminuire in pochi mesi per interrompersi del tutto nell’anno seguente 1838.

Giueseppe Gioacchino Belli, in quei giorni, riferendosi al virus che si era attestato con velocità e ferocia e a proposito della chiusura di ogni attività di commercio, delle fiere e dei teatri, scriveva: “Inibbì le commedie?! E che magnnera/ V’immaginate sta leggiaccia infame?/ Tanto bene, sor faccia de tigame/ S’apre er teatro, e sta notizia è vera/ Ed è tragedia per il poveraccio che facendo la comparsa si guadagnava il minimo per sopravvivere/ Un povero garzon de falegname/ Che ciabbusca du’ pavoli pé ssera/ Pe nun morì domani de collèra/ S’avrebbe oggi da morì de fame?” Un modo sarcasticamente poetico per descrivere un vecchio lockdown che – senza vaccini e antibiotici – era uno dei pochissimi rimedi a disposizione per combattere le infezioni virali, anche allora subdole e fulminee come nell’attualità.